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03 marzo, 2017

2017 con laVerdi – 10


Riecco Zhang Xian sul podio de laVerdi per un concerto tutto russo, con una quasi primizia (per l’Orchestra) seguita da un autentico cavallo di battaglia.

Ecco quindi l’apertura con il Prokofiev della difficile, ostica e poco eseguita Sesta Sinfonia. Composta poco dopo la splendida Quinta, alla fine della WW2, e presentata a Leningrado dal fido Mravinsky nel 1947, godette un immediato quanto effimero successo di pubblico e critica, presto annullato dall’inappellabile e sommaria sentenza di Zhdanov&C: formalismo antisovietico!

Per gli ottusi censori di Stalin tutto ciò che tovarisch Stakanov non riusciva a canticchiare e fischiettare dopo il primo ascolto era musica degenerata e chi l’aveva composta meritava il disprezzo e magari il gulag... E guarda caso la Sesta è musica non orecchiabile, in gran parte cupa, tetra, sofferta.

La stessa struttura formale è piuttosto indecifrabile: a parte i tre soli movimenti (e questo sarebbe il meno) l’iniziale Allegro moderato appare di difficile inquadramento, a prima vista sembra la pura giustapposizione di tre temi che vengono presentati in successione, e poi riproposti ancora: molto labilmente vi si può riconoscere un simulacro di forma-sonata, oltretutto assai eterodossa dal punto di vista dei rapporti tonali. Il secondo tema tornerà poi ciclicamente, ma apparentemente avulso dal contesto, proprio nelle battute finali della sinfonia.   

Ecco come ce la propone Evgeny Mravinsky in una registrazione fatta precisamente a 20 anni di distanza dalla prima, sempre con la sua Filarmonica di Leningrado.
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L’iniziale Allegro moderato (6/8 – 9/8 – 4/4 in MIb minore) è introdotto da 10 battute di lugubri rintocchi di ottoni e archi bassi, che creano uno scenario a dir poco spettrale. Come detto, si può assai vagamente parlare di forma-sonata: esposizione dei tre temi (A, B, C), quindi sviluppo (praticamente del solo tema A) e ricapitolazione dei temi B-C-A, più una coda.

Il primo (16”) è un cupo tema in MIb minore, in violini primi e viole, che sale alla tonica partendo, contrariamente al normale, invece che dalla dominante, dalla sottodominante: LAb-SIb-DOb-MIb. Da qui la melodia si dipana con metro trocaico (semiminima-croma) alternato a terzine di crome, che le conferisce un senso di inquietudine e di instabilità. Dopo un primo intervento dei legni, che riprendono il tema in forma variata, esso viene esposto da oboe e fagotto (41”) in tonalità di LA minore, quindi a distanza di un tritono (cosa di per sè sinistra!) dal MIb di impianto.

Presto però (51”) una velocissima scala discendente dei primi violini ci riporta al MIb per un ponte dove il tema A viene rielaborato dalle diverse sezioni orchestrali sfociando (1’16”) in un insistito inciso trocaico che prelude (1’26”) al ritorno del tema A in violini primi e viole. Gli segue un nuovo ed esteso sviluppo, chiuso (2’51”, tempo Poco più sostenuto) da un’ennesima variante che rallenta il tempo fino ad introdurre (3’09”, Moderato) il secondo tema (B) in SI minore, altra tonalità piuttosto distante dal MIb d’impianto: come si vede si tratta di concatenazioni tonali che creano un’atmosfera tutt’altro che serena e rassicurante.

Questo secondo tema – esposto inizialmente per due volte dagli oboi in ottava, mutua dal primo l’andamento ondeggiante dovuto alle terzine di crome (in 6/8) che si susseguono alternate a momenti di relativa calma (battute in 9/8). Alla seconda esposizione degli oboi (3’21”) è preceduto da una scala ascendente (dalla sensibile LA alla dominante FA#) che richiama l’attacco del primo tema, con il quale questo secondo è quindi visibilmente apparentato. Un controsoggetto (3’35”) lo completa, prima che venga esposto (3’48”) da violini primi e viole e ancora (4’03”) ripreso liricamente dal corno.

Dopo un trillo sul LA grave del clarinetto, ecco (4’32”) un improvviso Allegro moderato aperto dai primi violini con veloci semicrome che salgono per quasi tre ottave dal LA grave fino al FA# acuto, dove una variante del tema A (quasi si trattasse di rondò) esplode nell’intera orchestra, per poi spegnersi a poco a poco, finchè (5’05”) gli archi bassi tornano allo stesso tema A (MIb ottenuto per enarmonia come RE#) subito reiterato con decisione e quindi ancora (5’22”) in LA# (=SOLb) fino a perdersi su una quinta vuota (MIb-SIb) di oboe, corno inglese, fagotto e archi bassi.

Ora si presenta (5’44”, Andante molto) il terzo tema (C) in 4/4, introdotto da una scansione ritmica affidata a fagotti e pianoforte. È il corno inglese (6’02”) ad esporlo insieme alle viole. Poi (6’42”) questi lo reiterano anche con l’aiuto dei primi violini, mentre l’orchestra li acccompagna con pesanti accordi. La melodia è tanto nobile quanto carica di accenti dolorosi, completando così il quadro di questo movimento che sembra parlarci di sofferenze e lutti. La tonalità è dapprima indistinta, poi il RE minore si fa avanti ed infatti ecco che (7’22”, Allegro, 6/8) in questa tonalità (ancora un’apparente bizzarria se misurata sui canoni della forma-sonata) torna il primo tema (A) negli archi.

La lunga sezione che segue è considerabile come un sviluppo di forma-sonata, poichè il tema A vi viene sottoposto a poderose manipolazioni e tutta l’orchestra ha modo di sbizzarrirsi in grandi galoppate, interrotte da squarci più lirici, ma caratterizzate da proterve scansioni ritmiche e reiterate esplosioni di rumore. Il tutto poi si placa e conduce, dopo un’oasi di calma, al ritorno (potremmo chiamarlo l’inizio della ricapitolazione?) del tema B, che riudiamo (9’58”, Moderato) nella tonalità di impianto (MIb minore, questa volta secondo i canoni della forma-sonata) esposto prima dal corno poi dal corno inglese quindi da oboi violini primi e viole, ancora da corno, ottavino e flauto.

Dopo una breve transizione si arriva quindi (11’17”, Andante molto, 4/4) alla riproposizione del tema C, nel corno inglese e nelle viole, cui poi si aggiungono violini e oboi. La tonalità vira al SIb minore e vi rimane in vista dell’arrivo (12’09”, Allegro moderato, 6/8) del tema A, che sembra prendere la rincorsa fino ad esplodere (12’21”) su un MIb armonizzato come terza di DOb maggiore! Il quale MIb si va spegnendo (12’27”) in tempo Andante verso una coda, che porta alla sommessa chiusura, nel grave, sull’accordo (inaspettato?) di MIb maggiore.

Il centrale Largo (4/4 – 3/4) reca 4 bemolli in chiave, ma certo il LAb maggiore (e meno ancora la relativa FA minore) si faticano a distinguere con chiarezza. La tonalità è sempre aspra, a causa dei cromatismi a volte esasperati e solo in un paio di occasioni si ritrovano squarci di un certo lirismo.     

Il movimento è aperto (13’16”) e sarà poi chiuso da un motivo ancora una volta piuttosto lugubre, nei legni, che scende dal MIb con saltelli cromatici e si ferma dapprima sul DO e poi su LAb. Viene ripreso (13’42”) dai violini a partire dal LAb per chiudere dapprima sul FA e ancora (14’05”) sul LAb. I temi principali sono fondamentalmente due (A e B):



Il primo (14’13”) è in carico a violini primi e tromba e si muove sempre sulla tonalità di LAb. Ancora una volta è un motivo assai poco rassicurante, intriso di cromatismi e dissonanze, che sfocia (14’40”) in un inciso dal sapore parsifaliano (Amfortas) e poi modula verso SOL minore e ripresenta (15’32”) quello stesso inciso. Poco dopo l’atmosfera si fa rarefatta e corno inglese e corni preparano l’arrivo di un secondo tema (B) anch’esso di carattere piuttosto dimesso, nobile ed austero, esposto (16’20”) da fagotto e violoncelli, in MIb e sviluppato (16’59”) dai legni fino a spegnersi su veloci figurazioni di corno inglese, fagotto e degli archi.

Un motivo apparentemente nuovo, in realtà mutuato dal tema A, compare adesso (17’32”) negli archi, in tonalità di MI maggiore, chiaro indizio di uno squarcio di lirismo e pace, dove ritroviamo (18’07”) l’inciso parsifaliano. Qui inizia però una sezione assai animata e turbolenta, caratterizzata da pesanti interventi (18’18”) di crome in fortissimo dei legni, accompagnati dal pizzicato degli archi e da secchi colpi del legno (percussione). Subito dopo toccherà ai timpani esplodere micidiali scariche di colpi, alternate ad altri secchi interventi di legni e archi, finchè (19’03”) i fagotti intervengono a calmare l’atmosfera, preparando una nuova sezione lirica di sapore mahleriano (primo tempo della settima) dominata (19’16”) dai corni in DO maggiore.

Una sommessa dissonanza (DO-SI) nei violini (20’11”) sfociante in un RE tenuto introduce isolate e rapide figurazioni (20’24”) nei legni rotte da due secchi interventi di piano-arpa e ottoni; la cosa si ripete (20’44”) per portare però (21’08”) ad una nuova oasi romantica con i corni (tonalità SIb maggiore e poi DO maggiore). E il DO supporta la ripresa (21’48”) nei violini del tema A, che è protagonista di un’autentica perorazione, culminante (22’21”) in un’esplosione di fortissimo generale, mentre i violini sviluppano la melodia passando ancora (22’55”) per la citazione parsifaliana. 

Ancora fortissimo per un passaggio a FA minore (23’01”) che poi via via si modera per riportarci (23’31”) al motivo dell’introduzione, ripreso praticamente pari-pari, nelle due sezioni, e quindi seguito da una lenta cadenza (illuminata da un rapido recitativo dell’oboe) che si spegne sul LAb.

Vivace (2/4, MIb maggiore) è il tempo conclusivo, che contrasta in modo smaccato con ciò che lo ha preceduto, tale è il brio e l’entusiasmo che lo muovono... ma vedremo che il finale ci riserverà un’amara sorpresa. Due sono i temi principali:

  
Il primo tema viene subito esposto dai primi violini (25’31”) sopra un ritmo sghembo degli altri archi. Dopo una proterva interruzione dell’orchestra, che modula plagalmente a LAb, esso viene ripreso (25’42”) in questa tonalità dal clarinetto, che gli conferisce un carattere esilarante. Un controsoggetto meno brillante (25’53”) gli subentra momentaneamente, in attesa (26’07”) di una riesposizione del tema nei violini (MIb) e (26’15”) nel clarinetto (LAb). Ora troviamo un’ulteriore modulazione a SOLb e da qui passiamo ad uno sviluppo del tema, che impegna ancora l’orchestra in ripetuti sussulti, poi torna il controsoggetto e infine somno i fagotti (26’40”) ad attaccare una melopea che fa da transizione verso il secondo tema.    

Tema B che appare (27’03”) in DO maggiore nei legni, un tema assai lungo e cantabile, che in seguito (27’37”) viene ripreso anche con il supporto dei violini primi. Un suo controsoggetto (28’06”) viene esposto da flauto e corni e ci porta alla ripresa (28’28”) del tema A in MIb nei violini e quindi (28’37”) in LAb nel clarinetto. Inizia qui uno sviluppo del tema A di notevoli proporzioni, in un’atmosfera che si è fatta più cupa e inospitale, con frequenti irruzioni di bordate di ottoni e pianoforte e ripetute apparizioni dell’inciso iniziale del tema.

A conclusione di questo sviluppo (30’36”) ecco riapparire nei legni il tema B, adesso in SIb maggiore (in luogo del precedente DO). Altra modulazione (30’55”) del tema B a SOLb maggiore e poi ecco una vera e propria scena-madre: a 31’19” si torna a SIb maggiore, dove il tema A nei violini si contrappunta mirabilmente con il tema B in tromba e corni! Poi, mentre i violini insistono con le veloci semicrome del tema A e i corni si limitano a brevi e sporadici interventi, i legni sparano alcune rapide discese in staccato, fino a chiudere questa sezione con il ritorno al MIb maggiore di impianto.

Il tema A (31’54”) è ora esposto dall’intera orchestra, con grande corposità di suono e poi ripetuto (32’03”) nella sottodominante LAb. Ancora i corni (32’14”) ad esporre un controsoggetto assai ampio, contrappuntato poi (32’25”) di violini. Il tema A (32’39”) viene poi a lungo sviluppato, con irruzioni dei legni e velocissime discese degli stessi supportati dal pianoforte. Ancora una pesante transizione (32’58”) affidata agli ottoni, poi (33’23”) sono i fagotti, cui si aggiunge il clarinetto basso, a guidare una lenta cadenza che porta ad un allargando dove il suono si spegne su un FA in corona puntata.

Adesso (33’57”) ecco ciò che il cipiglio del Vivace non lasciava presagire: gli oboi  (Andante tenero) raggiunti poi dal corno inglese e ancora dopo dai flauti, ripropongono mestamente, in MIb minore, il tema B del movimento iniziale! Su un tremolo di SIb minore (34’52”) di violini secondi e viole si stagliano ancora due incisi di oboi e corno inglese, poi (35’09”) altro tremolo (SOLb) e i legni scagliano un nuovo lancinante urlo, virando a MI naturale, il tutto ripetuto dopo una pausa.

Torna (35’43”) il tempo Vivace, come prima, ma come prima per nulla allegro e sereno: dopo una carica crescente di archi bassi, legni, poi ottoni e quindi archi, ottoni e pianoforte, ecco (35’59”) un’autentica esplosione di tutta l’orchestra, un caduta inarrestabile che sfocia su secche semiminime di ottoni, pianoforte e archi, seguite (36’12”) da autentiche martellate e infine da una velocissima rincorsa di legni e archi in semicrome che chiude la sinfonia su un incredibile schianto di MIb maggiore!
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Che dire? Pessimismo mescolato a pazzia? Dolore invano esorcizzato con risate isteriche? Schizofrenia galoppante? Tutte spiegazioni extramusicali, ovviamente, buone per un poema sinfonico, forse. I suoni, se ascoltati senza pregiudizi o aspettative socio-filosofico-letterarie, lasciano francamente (parlo per me, natürlisch) una sensazione di incompiutezza e forse di impotenza creativa, ben mascherate dalla proverbiale maestria dell’Autore nell’impiego della tavolozza sonora.

La Sinfonia non è fra i cavalli di battaglia de laVerdi (un paio di isolate esecuzioni in tutta la sua storia ulraventennale) e anche la Xian non deve averla diretta molto. Tuttavia mi è sembrata un’esecuzione assolutamente apprezzabile, che il pubblico ha accolto con sufficiente calore, anche se senza entusiasmi da stadio, ecco...
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Ben diverso il discorso su Shéhérazade (qui alcune mie vecchie note in merito) che i ragazzi conoscono a meraviglia, a partire dal protagonista (en-travesti...) Luca Santaniello, che ogni volta aggiunge qualche particolare tocco di espressività ai suoi... racconti volti ad imbonire lo sbifido sultano. E poi, diciamolo pure, questo Rimski non pone certo all’ascoltatore problemi di decifrazione dei contenuti musicali! Così ecco un’altra grande prestazione di tutti e il ritorno... dell’entusiasmo in platea.

14 settembre, 2015

Bignamini esordisce alla Scala con laVERDI


La Scala ha ospitato ieri, come ormai tradizione, l’OrchestraVerdi in quello che solitamente era il concerto di rientro dalle vacanze. Quest’anno – complice l’EXPO – la stagione non ha avuto interruzione alcuna, nemmeno per ferragosto, e come premio il FUS (che bisognerà ridefinire: Fatevi Una Sega) ha gratificato laVERDI di un… tozzo di pane ammuffito: siamo alle solite, roba da chiodi, o meglio… da Franceschini (magari in nome e per conto di Renzi: pregasi constatare differenze di trattamento fra laVERDI e la toscana ORT).

E questa è un’orchestra che riempie il più famoso teatro italiano come capita di vedere assai di rado, e trascina il pubblico ad ovazioni solitamente riservate ai Wiener, ecco.

Jader Bignamini ha avuto così l’occasione di salire per la prima volta sul podio del Piermarini, dove gli auguriamo di tornare in futuro, perché se lo merita davvero.   

Menu tutto russo, con un po’ di… champagne. Rimski che incapsula Musorgski-Ravel. Tutte portate che l’Orchestra cucina a menadito, cioè suona deliziosamente, tanto che sarebbe difficile fare graduatorie, sia globali che individuali.

Russi ovviamente anche i due travolgenti bis (Khachaturian e Ciajkovski) per brindare a… vodka!


Bignamini, che purtroppo non dirigerà, come inizialmente previsto, l’Otello verdiano a Parma (ma a fine ottobre tornerà ad interpretare in Auditorium, a distanza di un anno preciso, il Requiem) darà il la anche alla restante parte della stagione 2015, che si chiuderà a dicembre.

07 novembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 8

 

Zhang Xian ci propone una gita in Spagna, servendoci nel concerto di questa settimana un menu spagnolo (o para-). Sappiamo che parecchia musica spagnola (o spagnoleggiante) fu composta da non-spagnoli (francesi e russi in testa) e così in questo concerto abbiamo due autori locali (peraltro… svezzati a Parigi) e due alieni (russo e francese, guarda caso) simmetricamente disposti attorno ad un perno… italo-turco!

Manuel deFalla apre il programma con la seconda Suite dal balletto El sombrero de tres picos, per la descrizione del cui contenuto letterario rimando a questo mio post di un paio d’anni fa, in occasione di un concerto che aveva tre brani in comune con quello attuale e che Bignamini era stato chiamato a dirigere proprio in sostituzione della Xian, allora divenuta prematuramente mamma per la seconda volta. Dal balletto (con intervento di una voce di mezzosoprano, che possiamo vedere qui in una versione di Antonio Márquez) deFalla estrasse due suites, la seconda delle quali ascoltiamo in questo concerto, chiusa dalla trascinante Jota.

Un brano proprio adatto a rompere il ghiaccio e scaldare l’atmosfera, accolto da scroscianti applausi.
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Ecco poi il secondo spagnolo-doc, Joaquín Rodrigo, con il suo celeberrimo Concerto de Aranjuez che viene interpretato da Miloš Karadaglić. Oddio, forse celeberrimo è un’esagerazione, e comunque riguarda, caso mai, solo il centrale tempo in Adagio, che effettivamente ha fatto il giro del mondo:


Lo si può apprezzare qui eseguito proprio dall’interprete di oggi. Il Concerto, dedicato al chitarrista Regino Sáinz de la Maza y Ruiz, fu composto a Parigi nei primi mesi del 1939 ed eseguito per la prima volta a Barcellona, solista il dedicatario, sabato 9 novembre 1940, in pieno regime franchista. Rodrigo ne formulò una specie di programma, secondo il quale il primo movimento (Allegro con spirito, in RE maggiore) si ispirerebbe all’idilliaca natura dei giardini del palazzo reale di Aranjuez, che lui aveva visitato con la moglie; il secondo (il famoso Adagio, in SI minore) sarebbe un autentico lamento per il figlioletto nato morto e il terzo (Allegro gentile, RE maggiore) rappresenterebbe la sua serena accettazione del destino. Mah… secondo me è meglio ascoltare questa musica per quello che è, non per quello che dovrebbe evocare.

Al grande successo di pubblico il bel Miloš risponde con un celebre bis, sempre in terreno ispanico, ma facendosi stavolta accompagnare dall’orchestra.
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La zeppa italiana del concerto è una suite per chitarra denominata Koyunbaba, di Carlo Domeniconi, ancora interpretata dal bravissimo Miloš, che introduce la sua performance parlandoci di sé e di come ha incontrato e amato questo pezzo. Il cui titolo ai milanesi può suonare fra lo scurrile e l’offensivo, ma in realtà è anche… peggio, avendo fama di menagramo. In ogni caso ha a che fare con la Turchia, dove l’Autore ha soggiornato a lungo occupandosi di musica del folklore locale: Koyunbaba è il nome di un paesino sul mar Egeo, vicino a Budrun, ma anche quello di antiche famiglie turche di pastori e possidenti, legate a vicissitudini poco rassicuranti… L’inserimento di questo brano in un concerto tutto spagnolo in realtà non è per nulla fuori luogo, non solo per lo strumento, un classico della musica iberica, ma anche per le inflessioni della melodia. Del resto Spagna e Turchia risentirono, nei secoli, dell’influsso della grande cultura araba, musica compresa.

Il brano è in quattro parti, più una coda che richiama l’inizio; lo possiamo ascoltare qui dallo stesso Karadaglić. È aperto in tempo Moderato, seguito (3’20”) da un Mosso, poi (4’31”) da un Cantabile e dal conclusivo Presto (7’48”) cui segue la coda (Moderato, 10’00”). In realtà la partitura, derivata in origine (1985) da un’improvvisazione, è stata rivista diverse volte nel corso degli anni e presenta (in particolare nel Presto, ma non solo) diversi da-capo che l’interprete può decidere se rispettare o meno, a seconda della sua sensibilità, il che può determinare tempi di esecuzione più o meno lunghi, rispetto agli 11’ del filmato.

Grandissimo successo per il 30enne montenegrino, protagonista di questa straordinaria esibizione di tecnica e insieme di sensibilità interpretativa.
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La parte finale del concerto ci propone i due autori non-spagnoli di musica spagnola divenuta celebre. Dapprima il Capriccio spagnolo di Rimski, che la Xian ha già eseguito qui almeno un paio di volte, e che dà modo all’orchestra di esprimere tutta la sua potenza di fuoco, ma anche alcune individualità di spicco. Prestazione trascinante, accolta da ovazioni.
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Infine ecco il bolerodiravel, un modo di dire più che un titolo (smile!) È sempre il percussionista-capo de laVERDI, Ivan Fossati, a porsi al centro dell’attenzione e dell’orchestra con il suo tamburino che deve sostenere – a mo’ di pedale - l’intera esecuzione, per un buon quarto d’ora! Però questa volta Xian ha evidentemente deciso di essere ultra-fedele alla partitura, che prevede l’impiego di un secondo tamburino per l’ultima apparizione del tema del bolero e da lì fino alla fine; e così a fianco di Ivan Fossati si è esibito anche Luca Bleu, per raddoppiare il fracasso della chiusa! 

Immancabile successo, così Xian ci fa riascoltare proprio la sezione finale del Bolero e ci manda a casa col morale alle stelle.

06 marzo, 2014

La sposa dello… zombie di Cerniakov

 

Ieri sera seconda recita di Una sposa per lo Zar, in un Piermarini ancora una volta povero di spettatori.


Il soggetto, che Il’ja Tjumenev trasse dal dramma di Lev Aleksandrovič Mey, è proprio un bel polpettone strappalacrime! Viene descritto come dramma a sfondo storico, ma in realtà di storico ha soltanto un paio di riferimenti (per quanto importanti) alla figura di Ivan Grozny (da cui viene il titolo dell’opera). Per fare un paragone con un vicino di casa, il Boris di Musorgski sì che è un dramma storico, tutto incentrato sulla figura dello Zar e sulle vicende pubbliche, oltre che private, connesse alla sua salita al potere e alla successiva fine. Qui invece la storia si riduce alla presentazione del contesto in cui si svolge l’azione, uno scenario di vita quotidiana che esseri umani sono costretti a condurre a qualunque latitudine in una qualunque società che si trovi ad essere schiacciata sotto il tallone di un qualunque despota e dei suoi sgherri.

Nel quale brodo di cottura troviamo immersi gli ingredienti principali dell’opera: amori (puliti e sporchi) gelosie, corna, ricatti, filtri e contro-filtri magici, ipocrisie, equivoci, pentimenti e sequele di colpi-di-scena. Il tutto infine si conclude con un’orripilante escalation di ammazzamenti che non lascia vivo uno solo dei quattro protagonisti principali…
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Lo spunto per il titolo venne a Mey dalla vicenda di tale Marfa Vasilevna Sobakina, terza moglie di Ivan il Terribile (un tipo che pare scegliesse le consorti attraverso concorsi di bellezza, con tanto di eliminatorie, magari con gironi di 1600-2000 candidate, e short-list di 12 finaliste!) morta di inedia pochi giorni dopo le nozze, si disse causa avvelenamento. Ma andiamo con ordine.

Il cattivone di turno (un baritono, manco a dirlo!) è Grigorij Grigor’evič Grjaznoj che ricopre ruoli di comando nella polizia personale dello Zar (i famigerati opričnik). Costui convive da tempo con tale Ljubaša, una donna ancora piacente (regalatagli - previo… esproprio dalla famiglia d’origine - da un collega più anziano, Maljuta, basso) che canta come un usignolo, ed è assai gelosa (quindi: mezzosoprano). Però adesso si è innamorato pazzamente della protagonista Marfa, giovanissima, bella e immacolata (soprano!) già promessa al nobile (boiaro) Ivan Sergeevič Lykov (per gli amici: Vania, tenore).

Nella prima aria dell’opera il rude Grigorij si scopre invecchiato e imborghesito: anni addietro avrebbe semplicemente abbattuto la porta di casa della ragazza concupita per trafugarci la sua preda senza tanti complimenti… adesso invece si accorge di esserne innamorato sinceramente (!) e di doverla conquistare con mezzi civili e incruenti.  

Tuttavia, non avendo avuto successo con le buone, non esita ad usare, per raggiungere il suo scopo, sistemi, ehm… diversamente-persuasivi: promettendogli oro e ricchezze, convince tale Elisej Bomelij (tenore) medico dello Zar (ma in realtà un cialtrone-stregone che si spaccia per alchimista) a procurargli un filtro d’amore da far bere a Marfa per innamorarla di lui. Peccato che della trama si accorga la gelosa Ljubaša, che subito inventa una micidiale contro-mossa: si reca dallo stregone di cui sopra e gli chiede di procurarle un filtro dell’invecchiamento (in realtà, un filtro di morte) da somministrare al posto di quello d’amore alla povera Marfa, in modo da renderla inappetibile per il fedifrago Grigorij.

Come si vede, con tutti questi filtri la storia comincia a puzzare di… Tristan (!) Ma anche di Tosca, dato che lo sbifido stregone (che non è mica scemo!) approfitta della situazione per trasformarsi in Scarpia e obbligare Ljubaša (sotto il ricatto di spifferare tutto a Grigorij) a pagarlo in natura. Cosa che la donna (una che evidentemente non ha la stoffa della collega bellona, sì insomma, la cantante pucciniana, smile!) pur mostrandosi a tutta prima riluttante, alla fine si decide a fare, suo malgrado.

Adesso arriva il primo colpo di scena: alla festa di fidanzamento di Marfa con Vania il poliziotto Grigorij versa il contenuto della fiala avuta da Bomelij nella coppa di idromele destinata a Marfa, che la ingurgita d’un sol fiato. Ma in quello stesso momento giunge un messo dello Zar ad annunciare che proprio Marfa ha vinto la finalissima del concorso per zarina (quando si dice il… culo!)

Non resta ora che prepararsi all’apocalittica conclusione: la povera Marfa si è già trasferita, famiglia al seguito, negli appartamenti reali, ma sta sempre peggio e nessuno sa spiegarsi perché. Nessuno salvo Grigorij, che dapprima immagina (illuso!) che si tratti dei primi sintomi di mal d‘amore (per lui) ma ben presto comincia a sospettare che il filtro avuto dallo stregone non abbia funzionato a dovere, o peggio fosse una bufala. Intanto, per salvarsi il culo (leggi: evitare di essere impalato, smile!) dalle ire dello Zar, fa torturare Vania, il fidanzatino di Marfa, fino a costringerlo a confessare di essere lui il suo avvelenatore (per gelosia nei confronti dello Zar) e così giustiziarlo sommariamente come traditore.

Ora viene chiamato in causa anche Donizetti, per supportare il trasferimento di Marfa al reparto… disturbati mentali: la poveretta, informata da Grigorij della brutta fine di Vania, va in preda alle allucinazioni e scambia la testa di cuoio per il fidanzato, proprio come la Lucia di Lammermoor (!) Ma il rimorso ormai si è impadronito dell’animo dell’ex-macho che esplode nell’auto-accusa: lui è colpevole di aver somministrato alla ragazza un filtro che credeva d’amore e chiede di essere giustiziato (non prima però di aver dato il benservito all’alchimista imbroglione…)

Ma l’ultimo e più clamoroso colpo-di-teatro deve ancora arrivare: trionfante, Ljubaša annuncia a Grigorij che Marfa in realtà è vittima di un filtro di morte, che lei aveva sostituito (ecco a voi una Brangäne al contrario!) a quello d’amore, prima che lui lo versasse nella coppa di idromele. Così a Grigorij non resta che ammazzarla seduta stante, per poi consegnarsi ai suoi colleghi sgherri per essere a sua volta giustiziato. Mentre lui le getta un ultimo disperato sguardo, la povera Marfa, ormai del tutto uscita di melonera, gli dà appuntamento per l’indomani, chiamandolo… con il nome del suo amato Vania.

Ecco, tutto questo sapido intrico di passioni ha come sfondo uno scenario idilliaco e bucolico di vita di una comunità rurale (la danza-coro del luppolo, la gente che esce dalla Messa, i ricordi d’infanzia di Marfa) sul quale scenario però incombe l’ombra del sanguinario tiranno. Ombra che appare in forme trionfaliste (il coro in onore dello Zar del primo atto) poi minacciose (gli opričnik che si preparano a spedizioni punitive, inizio dell’atto secondo) e poi si materializza, terrificante, con l’apparizione muta ma sconvolgente dello Zar a Marfa, sempre nel second’atto.

Infine l’ultimo degli effetti della presenza di un despota - che ha il potere di vita e di morte su chiunque - è rappresentato dall’angoscia che, nel terzo atto, attanaglia i due rivali Vania e Grigorij al pensiero che lo Zar potrebbe sequestrargli Marfa, privandoli in tal modo della (genuina per il primo, mistificata per il secondo) felicità.
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Ecco, si potrebbe dire: meno male che Rimski c’è… dato che è la sua musica a sollevare dalla mediocrità il livello di un soggetto francamente discutibile. Musica caratterizzata, come tutta quella di Rimski, da un adeguato standard di qualità ed altrettanto ottima godibilità (sia chiaro però: nessuno si azzardi a parlare di capolavoro!) Del resto il nostro era, nonostante l’appartenenza ad opposta fazione, un ammiratore di tale Ciajkovski, come si evince immediatamente dal secondo tema esposto nell’Ouverture (e mai più riascoltato nell’opera) ottenuto citandone, giustapposti, nientemeno che due frammenti di motivi: rispettivamente il secondo del movimento iniziale della Prima Sinfonia e il secondo del secondo movimento del Manfred:


E altro Ciajkovski (Onegin, ancora i Sogni d’inverno, ma anche un po’ di Patetica) fa capolino qua e là, oltre all’amico Musorgski di cui viene ripetutamente ripreso - dal prologo del Boris, scena seconda - il coro per lo Zar, in realtà l’abusato canto patriottico Slava Bogu ne nebe Slava, citato persino da Beethoven nel secondo dei quartetti Razumovski (oltre che da Borodin nell’Igor, da Ciajkovski in Mazepada Arensky nel quartetto op.35 e da altri ancora):



Ma insomma, a me questo Rimski operistico verrebbe da chiamarlo il Meyerbeer russo post-litteram, ecco… E del resto ne fa fede la sua maturata idiosincrasia verso la modernità wagneriana e il suo dichiarato intento di riproporre con quest’opera – siamo ormai in vista del ‘900! - una forma di melodrammone ultra-tradizionale, infarcito di numeri d’insieme (duetti, terzetti, quartetti, quintetti, sestetti con coro) oltre che di arie e ariosi in piena regola. Insomma: un’opera assai più vicina agli standard dei Teatri Imperiali che non all’approccio autarchico e innovatore (per non dire rivoluzionario) della Banda dei Cinque, presso la quale Rimski pure era stato in servizio permanente effettivo in anni precedenti.

Rimski, che dopo una prima infatuazione si era messo a criticare Wagner per le sue idee riguardo al melodramma, era però un suo seguace nel saper evocare con motivi musicali appropriati le più diverse situazioni: basta pensare a come supporta la descrizione che fa l’alchimista Bomelij a Grigorij del suo filtro magico, quattro battute musicali nei legni che sono parenti strette del wagneriano tema del Tarnhelm

E anche se propriamente non impiega Leit-Motive nell’accezione wagneriana, tuttavia Rimski usa caratterizzare i personaggi con temi ben riconoscibili o appropriati ad evocare particolari stati d’animo (ad esempio i motivi che salgono alla sopratonica, che ben rappresentano le smanie di Bomelij nel suo rapporto con Ljubaša) oppure ripropone lo stesso tema in situazioni diverse, come ad esempio quello dell’aria di Ljubaša del primo atto, che fa da intermezzo, nel secondo, fra il quartetto davanti alla casa di Sobakin e il fatale incontro della (ex-)donna di Grigorij con l’alchimista.

Un autentico gioiello è il motivo in REb che sostiene la seconda parte dell’aria della pazzia di Marfa (a partire dal Larghetto assai sui versi Guarda, sopra le nostre teste il cielo è ampio come una tenda). Esso richiama quello dell’aria del second’atto (dove Marfa ricordava i bei giorni passati da ragazzi con Vania) ed è presente anche verso la fine dell’Ouverture:


Dopo l’esposizione di due coppie di soggetto-controsoggetto l’aria si chiude piuttosto asimmetricamente, con la proposizione del soggetto che, dalla dominante, invece di preparare la risposta, chiude piuttosto repentinamente sulla tonica: un mirabile esempio di pazzia musicale!   

Insomma, un’opera che fa la sua bella figura nel mucchio di tanti melodrammi, diciamo, di centro-classifica, e che meriterebbe anche da noi di godere della stessa popolarità di cui viene gratificata in Russia.   
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Qui l’audio della storica edizione del Bolshoi con la grande Vishnevskaya.
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In questa co-produzione della Scala e dell’Unter-den-Linden si esegue la partitura quasi al completo. Quasi, poiché nel primo atto viene cassato totalmente (ma accade talora anche in Russia) il lungo coro danzato cosiddetto del luppolo selvatico. Peccato, poiché sono alcuni minuti di bella musica (come tutto il resto) ed anche appropriati ad impreziosire la festa in casa di Grigorij. Di altri piccoli tagli – ad esempio la scenetta dei due giovani che escono dal negozio di Bomelij – possiamo non dolerci troppo.

Che dire di canti e suoni? Che purtroppo questa volta (e non sarà l’ultima) la radio di domenica scorsa mi ha tradito - in eccesso - non poco. Intanto un paio di considerazioni generali. Primo: almeno la metà delle voci si sono dimostrate assolutamente inadeguate a perforare gli immensi spazi del Piermarini. Secondo: Barenboim non se ne deve essere accorto in tempo, poiché ha bellamente coperto i cantanti spesso e volentieri. L’alibi che tanto nessuno del pubblico capisce cosa si canta e quindi fa lo stesso è di quelli un filino paraculi…

Vediamo i dettagli (pagelle mie, e solo mie, ovviamente).

Johannes Martin Kränzle (il velleitario Grigorij) è uno dei tre soli che si fanno sentire: ma non è propriamente un bel sentire. Lo ricordavo meglio nell’Alberich del Ring del bicentenario: qui schiamazza assai più che cantare.

Olga Peretyatko (in Mariotti…) è Marfa: anche lei passa a sufficienza, però la voce è spesso pigolante (va bene che lei interpreta una ragazzina) e sgradevolmente metallica. Nella scena conclusiva viene costretta dal regista a cantare anche in posizione bocconi, il che potrebbe valere come attenuante generica in tribunale.

Marina Prudenskaya (Ljubaša) non canterebbe neanche male, se si riuscisse ad udirla bene: viceversa i suoi limiti congeniti e l’esuberanza di Barenboim ci consentono di sentirla discretamente solo nella sua aria del primo atto, dove canta da sola mentre l’orchestra tacet (!) 

Pavel Černoch è un Vania piuttosto evaniascente (smile!): canta tutte le note, ma la metà non si sente e l’altra non entusiasma.

Stephan Rügamer non è malaccio nel ruolo dello sbifido Bomelij (un po’ come nel Loge del Ring di cui sopra): da me ha un’onesta sufficienza.

Anatoly Kotscherga (Sobakin) si sente bene (nel senso che i suoni arrivano…) e per il resto col mestiere di un’intera vita riesce a supplire alle magagne del tempo.

Anche Tobias Schabel (Maljuta) se la cava, sia pure a stento, e soprattutto perché canta abbastanza poco (smile!)

Sulla povera Anna Tomowa-Sintow (Saburova) non mi sento di sparare. Certo qui si danno solo due possibili spiegazioni: o lei è così in bolletta al punto da mendicare da qualche vecchio amico scritture come questa (il ruolo non è certo di quelli da… Panariello, stra-smile!) oppure ha perso del tutto il senso delle misure. Non so quale delle due spiegazioni augurarmi per lei.

Anna Lapkovskaja (Dunjaša) e Carola Höhn (Petrovna) hanno cercato (soprattutto la prima, un poco più impegnata) di meritarsi il gettone.

Il Coro di Casoni ha forse qualche problemino di… lingua (scherzo): fatto sta che non mi è parso così compatto come suo solito.

Barenboim mi aveva lasciato perplesso domenica (radio) proprio nell’Ouverture, per eccessiva sostenutezza. Ieri almeno lì mi è parso migliorare, tenendo tempi più spediti. Per il resto, detto dello scarso rispetto che ha avuto per cantanti in deficit di voce, ha diretto per me in modo discreto un’orchestra che a sua volta non mi ha entusiasmato, proprio nella sezione archi. Alla fine dal loggione gli è piovuto addosso uno strepitoso che personalmente avrei riservato ad occasioni migliori.

In complesso una prestazione non molto più che sufficiente, accolta da applausi moderati e sbrigativi. Negli intervalli si è udito anche qualche sibilo, ma sarebbe da stabilire se diretto ai Musikanten o al Regisseur (quest’ultimo dev’esser già dall’altra parte del mondo, tanto la sua razione programmata di buh l’ha già messa in banca domenica scorsa…)
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E a proposito di regìa, su quella di Cerniakovbuato pesantemente alla prima, nonostante lo stoico quanto goffo tentativo di salvataggio compiuto da Barenboim (proprio come fece per la contestatissima Emma Dante anni fa… A proposito, caro Daniel, non dicesti che quella era la Carmen del terzo millennio? hahaha!) – pesa il solito vizio di voler-dover strafare a tutti i costi.

Certo a Cerniakov dev’essere sembrato banale (o rischioso?) cambiare l’ambientazione del soggetto legandola all’attualità ed allo stesso tempo conservando piena coerenza con l’originale. Il che sarebbe abbastanza facile, basterebbe ambientare il dramma di Rimski sotto Hitler, oppure sotto Pol-Pot, o Stalin, o magari anche, perché no - invece di personaggi ormai obsoleti come il patetico Boris Eltsin - mostrarci in chromakey la Russia di oggi sotto Putin, con immagini dei massacri in Cecenia, dell’irruzione alla Dubrovka, di Khodorkovsky in galera o della Politovskaja ammazzata in ascensore… e visto che tutto ormai si può fare in real-time, pure dell’invasione della Crimea!

No, il regista - lo scrive anche e lo racconta nelle interviste - traspone la vicenda ai giorni nostri per mostrarci come, in fondo, il mondo non sia cambiato da mezzo millennio a questa parte: anche oggi c’è uno zar – virtuale anziché reale - che in qualche modo ci condiziona tutti, letteralmente inventato al computer dal potere dei media, TV e rete in primo luogo.

Intendiamoci: che oggi l’umanità sia in preda a degenerazioni legate all’uso improprio delle diavolerie che inventa a raffica è sotto gli occhi di tutti e un artista che si rispetti, ed abbia le capacità per farlo, fa benissimo a costruirci un soggetto teatrale e da questo ricavare uno spettacolo di alto livello. E a Cerniakov vanno riconosciuti tutti i meriti in proposito: grande fantasia, profondo acume nel decifrare anche pieghe nascoste del soggetto, e poi notevole maestrìa nel metterlo in scena.

Purtroppo, essendo matematico che in casi come questo nascano difformità fra l’idea del regista e l’originale, è fatale che sia quest’ultimo (in toto o in parte) ad essere… sacrificato sull’altare della prima. Ecco quindi che il nesso causa-effetto zar-opričnik viene semplicemente ribaltato (!) Qui sono i secondi che creano il primo, e non viceversa. A che pro? Ovviamente perché loro sono produttori di spettacoli TV, che ci inventano sopra un gigantesco serial televisivo che avrà come protagonista non lo zombie (che esiste solo nelle memorie dei computer e sugli schermi TV) ma una sua sposa in carne ed ossa, che verrà selezionata con un classico casting moderno, come decidono i costruttori dello zar nella loro chat durante l’Ouverture. E naturalmente sapendo benissimo fin dall’inizio che la sposa in carne ed ossa dello zar in… pixel finirà per uscire di melonera. Come si vede, il risultato finale – la pazzìa di Marfa – viene preservato sì, ma a spese dello stravolgimento della causa scatenante.

Altro punto debole qui sta nel ruolo degli opričnik di Cerniakov: la cui protervia è tutta e solo ideologica e di business, mentre nell’originale – testo e musica - è proprio brutalmente materiale!

Quanto alla storia e al significato dei due filtri, dobbiamo pensare trattarsi di affari di droga, di cui Bomelij dev’essere evidentemente uno spacciatore. Quella chiesta da Grigorij probabilmente è roba leggera, sufficiente ad irretire l’ingenua Marfa e farla cadere nelle braccia del manager produttore di serial. Quella data a Ljubaša magari è una polvere da sciogliere in una bevanda, ma che ha gli stessi effetti del crack, che distruggerà Marfa nel corpo e nella mente. Alla fine nessuno potrà però dire se la poveretta sia vittima della droga o dell’insopportabile stress derivatole dal ruolo impostole nel serial di cui è diventata protagonista dopo aver vinto la finalissima del casting. E anche qui non siamo certo fuori strada rispetto all’originale, poiché è del tutto plausibile che la vera Marfa non fosse stata affatto avvelenata, ma fosse crollata psicologicamente sotto il peso del ménage di coppia impostole dal Terribile.

Ciò che non quadra in questa parte del Konzept di Cerniakov è che nell’originale Marfa viene costretta (dal potere violento dello Zar) a partecipare alla selezione e poi a diventare, magari controvoglia, moglie del despota. Qui invece lei si presenta spontaneamente alle selezioni, attirata dal miraggio del successo e dall’immagine ingannatrice dello zar-in-pixel fugacemente vista sullo schermo TV di casa sua.

Ci sono poi nello spettacolo, ne cito un paio, altre forzature e/o incoerenze con l’originale: alla fine del second’atto Ljubaša, invece di cantare a se stessa il suo risentimento e la sua sete di vendetta nei confronti di Marfa, lo fa proprio cantandole in faccia alla povera e ignara ragazzina! Dopodiché sembra quasi pentirsene e l’atto si chiude con lei che, invece di andarsene con Bomelij (che ha già preparato la droga e pure… le valigie!) resta praticamente avvinghiata a Marfa (quindi perché mai insisterà poi a volerla morta?) Alla fine del terz’atto, all’arrivo della notizia della vittoria di Marfa alle selezioni, il povero Vania invece di disperarsi, va sorridente a complimentarsi con la fidanzata, come farebbe qualunque giovane emancipato di oggi se la sua ragazza venisse scelta per il Grande Fratello o consimili.

C’è poi la questione del luppolo: qui il sospetto che sia stato sacrificato in quanto non coerente (figuriamoci, un girotondo di ragazzi e ragazze che cantano un’innocente filastrocca!) con la vision del regista diventa quasi certezza.

Intendiamoci: si tratta di aspetti magari marginali, però messi tutti insieme finiscono per disorientare lo spettatore, direi più quello che ha una certa dimestichezza col soggetto che quello che invece lo vede per la prima volta e magari afferrando pochi percento delle parole cantate. 

Per riassumere il tutto, nello specchietto sottostante ho cercato di sintetizzare, attraverso l’elencazione e la descrizione di alcune loro rilevanti caratteristiche, lo scenario originale e quello immaginato dal regista:    


scenario A - Mey/Tjumenev
scenario B - Cerniakov
società
medievale, agricola
post-industriale, terziario
regime politico
feudale, dispotico
democratico, garantista
identità del potere
persona fisica, accentratore
entità virtuale, diffusa
gestione del consenso
terrore - violenza – giustizia sommaria 
media – moda – imitazione - promozione sociale
gestione degli individui
autoritaria
permissiva
strumenti di seduzione
filtri magici (agenti chimici, materiali)
miraggi di successo (agenti psichici, immateriali)
coinvolgimento con il potere
asservimento (imposto con la forza)
condivisione (liberamente deciso)

Beh, credo proprio sia difficile sostenere che i due scenari abbiano alcunché in comune: anzi, non potrebbero essere più distanti fra loro. Ma allora, se vogliamo (come dovremmo) dar credito a Rimski di aver composto una musica precisamente funzionale ad un testo che evoca lo scenario A, come può accadere che quello stesso testo e la musica che ne è conseguita calzino perfettamente anche allo scenario B, che gli sta agli antipodi?

Qui sta tutto il nocciolo della questione relativa al giudizio estetico da dare di una messinscena come questa. Ognuno ovviamente è libero di privilegiare l’indiscutibile genialità, e professionalità di realizzazione, della proposta di Cerniakov oppure di dichiararsene deluso a causa dell’insopportabile incoerenza tra ciò che si vede e ciò che si ascolta.  
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Chiudo tornando alla musica e alla figura dello zar, che per Cerniakov abbiamo visto essere niente più che un’ardita creazione di supertecnici dell’immagine. Ecco, invece per Rimski è un essere proprio in carne ed ossa. Come ce lo spiega il compositore? Ovviamente con la sua musica (e magari con un minimo di… spocchia).

Sì, perché nell’opera noi ascoltiamo quasi da subito lo Slava Bogu, il quale non è propriamente catalogabile come un tema dello Zar Ivan, bensì è un inno di lode per lo Zar, cioè per un qualunque zar, anche quello virtuale di Cerniakov, cosa alla quale ci aveva abituato già Beethoven e come ci confermeranno i vari Borodin, Musorgski, Arensky etc.

Ma attenzione a quanto accade in orchestra, nel second’atto, al momento della comparsa dello Zar davanti a Marfa e Dunjaša: al tema Slava Bogu Rimski contrappunta, reiterandolo a velocità folle, un motivo che evoca Ivan nell’opera La fanciulla di Pskov (motivo del resto a sua volta derivato dallo stesso Slava Bogu) dove Ivan è proprio un protagonista in carne ed ossa, mica un’idea virtuale. Domandiamoci: Rimski avrebbe scritto la stessa musica dovendo supportare una scena dove Marfa, invece di essere terrorizzata dall’apparizione reale di quella figura minacciosa (che lei nemmeno sospetta trattarsi dello Zar, ma dal quale poi verrà di fatto sequestrata per sfilare come potenziale sposa) viene piacevolmente colpita dall’immagine seducente di un bell’uomo, al punto da decidere immediatamente di concorrere al posto di zarina?

Lo stesso accade alla conclusione dell’atto terzo, dove la solenne e ufficiale comunicazione che Maljuta fa in casa Sobakin (la scelta di Marfa da parte dello Zar) è accompagnata proprio dal tema di Ivan in carne ed ossa, oltre che dallo Slava Bogu:


Potrà pure sembrare un dettaglio ultra-capzioso, ma vi assicuro che chi questi particolari li conosce fa fatica a vederli ignorati o adulterati dalla messinscena.