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16 aprile, 2022

Arianna torna - col trucco rifatto - alla Scala

Dopo quasi esattamente tre anni è tornata a Nasso alla Scala la straussiana Ariadne, che fu accolta da un buon successo nel 2019 nella produzione targata Wake-Walker / Welser-Möst.

Oggi però l’allestimento è quello di Sven-Eric Bechtolf e sul podio va quel Michael Boder che si fece le ossa proprio in Italia (a Firenze sotto le ali di due autorevoli chiocce: Muti e Mehta).

Curiosamente le vicissitudini di questa produzione ricordano da vicino quelle che caratterizzarono la nascita e la vita dell’opera medesima, sulle quali si è scritto e detto quasi tutto (anch’io ho presuntuosamente dato un modesto contributo). E così è successo che Bechtolf abbia in un primo tempo (estate 2012, centenario della prima assoluta di Stoccarda) allestito l’opera a Salisburgo nella versione originale del 1912 e poi, qualche mese dopo e successivamente nel 2014 a Vienna, abbia impiegato lo stesso allestimento (opportunamente riadattato) per proporre la seconda (e definitiva) versione dell’Ariadne (Vienna, 1916).

Della produzione di tre anni fa sopravvivono oggi due importanti superstiti: la grande Krassimira Stoyanova (Ariadne) e l’altrettanto famoso quanto bravo Markus Werba (Maestro di musica).

Bechtold ambienta il soggetto ai tempi della composizione, come si deduce principalmente dai costumi (di Marianne Glittenberg) prima ancora che dalle scene (del di lei marito Rolf) e la cosa, oltre che non nuova, è anche sensata e convincente. Efficaci sempre - in particolare nel finale - anche le luci curate da Jürgen Hoffmann.

Il regista fa entrare in scena (ovviamente solo come comparse) il Maestro di musica e, ancor più corposamente, il Compositore, anche nell’Opera, oltre che nel Prologo, e lo fa a buon titolo, sia per vivacizzare alcune scene (vedi il lungo assolo di Zerbinetta, che il Compositore en-travesti accompagna virtualmente alla tastiera e alla quale passa premurosamente fogli di spartito per i gorgheggi che precedono il famoso Als ein Gott kam jeder gegangen) ma soprattutto per introdurre mirabili tocchi di filosofia di vita, per così dire. Ecco che alla fine, prima che il sipario cali, vediamo il Compositore riunirsi alla soubrette, evidentemente a sancire un sodalizio esistenziale già prefigurato al momento del loro incontro-scontro nel Prologo.

E, a proposito di rapporti fra esseri umani e fra artisti, e fra vita reale e teatro, ecco un altro colpo di Bechtolf da vero maestro: dopo la loro ascensione finale verso... le stelle, Bacchus e Ariadne, che la finzione teatrale di Hofmannsthal e la sbudellante musica di Strauss hanno miracolosamente e sublimemente unito in modo indissolubile, escono di scena da parti opposte, in aperta lite fra loro, a testimoniare dei comportamenti miserevoli che i due hanno nella vita reale, già intravisti nel Prologo, allorquando ciascuno dei due cercava egoisticamente di far tagliare la parte dell’altro/a.

Ma direi che tutta la recitazione è stata curata con la massima attenzione, anche ai dettagli, e questo si applica alla parte esclusivamente parlata del Maggiordomo, come a quelle dei quattro amanti di Zerbinetta, del Maestro di danza e - nell’Opera - delle tre ninfe. In sostanza, un allestimento di gran pregio che, dopo i precedenti successi all’estero (e a livello di DVD...) meritava proprio di essere proposto anche qui da noi.
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Michael Boder per me (forse un po’ meno per il pubblico, che gli ha riservato applausi di circostanza) ha guidato bene la smagrita orchestra dei Trepper, creando la giusta atmosfera low-profile (ma high-quality) che caratterizza questa partitura straussiana, ricca di raffinatezze quanto parca di slanci eroici.

A proposito di eroismi, l’Heldentenor che qui incarna Bacchus, il sessantenne Stephen Gould, ci ha messo tutto il fiato che ancora gli resta (e non è poco... oltretutto per una parte relativamente contenuta) anche se proprio l’ultimo SIb lo ha ghermito alla bell-e-meglio (in pratica: un’acciaccatura sul LAb). Per lui successo di stima, più che trionfo.

Chi ha trionfato sono le due protagoniste femmine-femmine: la Krassimira Stoyanova ha confermato le sue qualità e la sua capacità di immedesimazione nel ruolo della donna abbandonata; quanto alla Erin Morley, la sua è una Zerbinetta accattivante, brillante ed anche patetica quando serve, poi i RE e i MI acuti li ha strappati con la massima sicurezza, il che le ha garantito un lungo applauso a scena aperta. Entrambe accolte alla fine da meritate ovazioni.

La femmina-maschio era Rachel Frenkel (cui subentrerà la titolare Koch per le prossime recite): prestazione che definirei più che dignitosa, in una parte di per sè difficile, più Singspiel che canto...  

Bene anche le altre tre rappresentanti del gentil sesso (Caterina Sala, Svetlina Stoyanova e Olga Bezsmertna) le ninfe che accompagnano la povera Ariadne dalla disperazione alla finale trasfigurazione, dapprima con accorata partecipazione, poi con cullanti ed eteree melodie.    

Ora resta solo da dire degli altri... maschi: su tutti ovviamente Markus Werba, che mette la sua voce rotonda e passante, ma anche la sua grande disinvoltura scenica, al servizio della figura un po’ anguillesca del Maestro di musica. All’altezza della parte il Maestro di danze Norbert Ernst, efficaci i quattro amanti di Zerbinetta: su tutti, data la parte più corposa, l’Arlecchino di Rafael Fingerlos, ma bravi anche Jinxu Xiaho, Jongmin Park e Leonardo Navarro a completare il quartetto in monopattino. Oneste le prestazioni dei restanti tre della compagnia: Hyun-Seo Davide Park, Paul Grant e Sung-Hwan Damien Park.
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In conclusione: spettacolo godibilissimo e di gran pregio, che personalmente affianco ad altre proposte di ottimo livello di questa stagione scaligera della ripresa post-Covid.

06 novembre, 2021

Una Calisto astronomica alla Scala

L’aggettivo potrebbe benissimo riferirsi al livello complessivo dello spettacolo messo in scena dalla coppia McVicar-Rousset... in realtà dipinge efficacemente il taglio dell’allestimento del regista albionico de La Calisto di Francesco Cavalli, arrivata ier sera alla terza delle cinque recite in cartellone, in un teatro con parecchi vuoti, ma meno di quanti me ne aspettassi (buon segno, in fin dei conti, data la non entusiastica propensione nostrana per il barocco).

È ovviamente il libretto di Giovanni Faustini (a sua volta tributario di Ovidio e della mitologia greca) ad aver dato l’idea a McVicar: e non solo perchè la conclusione del dramma è ambientata nell’empireo e ci notifica la nascita di una nuova costellazione celeste - l’Orsa Maggiore - in cui la protagonista è trasformata per volontà del (quasi) onnipotente Giove. Ma - e forse soprattutto - perchè uno dei deuteragonisti dell’opera è definito come astronomo! 

Ecco, questa è un’invenzione bella e buona del librettista Faustini che - evidentemente in omaggio al suo contemporaneo Galileo Galilei - trasforma in scienziato della volta celeste il personaggio di Endimione, in realtà un mite ed efebico pastorello che passava ore e ore (apertura dell’Atto II, sul monte Liceo) a contemplare il cielo e particolarmente la Luna (delle luci adorate, ... contemplator segreto) da qui il suo innamoramento (ricambiato!) della casta-diva Diana. La quale lo dipinge così: tu, che della mia sfera i volubili moti dotto investigatore osservi, e noti. E Mercurio così ne parla: con lodevoli studi vuol che l'ingegno sudi in specolar del ciel gl'astri lucenti. Silvano infine, così invita Pan a lasciare Diana con Endimione, per poi screditarla pubblicamente: Partiamo, e col suo astronomo quest'orgogliosa lascisi.

Ecco quindi spiegata l’idea di McVicar di portarci nel planetario, anzi nell’osservatorio astronomico sul monte Liceo (un Monte Palomar in sedicesimo) dove Endimione esplora la volta celeste con una gigantesca copia del cannocchiale di Galileo, sotto il quale poi si addormenta sognando la sua Diana. Idea che peraltro aveva avuto anche tale Guercino che - sempre ai tempi di Galileo e di... Faustini - aveva così rappresentato il pastorello-astronomo, sognante lunatico munito di telescopio:

Quindi, una regìa che - scenograficamente, grazie a Charles Edwards - prende una parte per il tutto, ma senza farci perdere nulla delle altre parti. I costumi di Doey Liithi sono dell’epoca della composizione, alcuni - specie nel prologo e nell’epilogo - paiono usciti da quadri di Rembrandt. Efficacissime le luci di Adam Silverman, a caratterizzare - insieme ai video di Rob Vale, che discretamente animano l’ambiente esterno alla specola - le diverse e continuamente cangianti atmosfere che popolano la tumultuosa successione delle scene. Jo Meredith ha curato le coreografie, assai sobrie e contenute, in particolare il finale dell’atto secondo, sottolineato dalla colonna sonora dell’Ouverture dell’Orione.

McVicar ha poi curato da par suo la caratterizzazione dei personaggi, mettendo in risalto di tutti le qualità, i difetti, i tic e le... ambiguità. E a proposito di ambiguità (Diana, che Pan ci assicura di aver portato a letto, mentre con Endimione pare avere rapporti esclusivamente... platonici) è strabiliante il trattamento che il regista fa del duplice ruolo della dea (quella autentica e la sua imitazione da parte di Giove) impersonata da Olga Bezsmertna. La quale, oltre che sfoderare la sua voce ben impostata e penetrante, riesce a compiere un autentico miracolo, quello di una femmina che interpreta (oltre che il suo proprio) anche il ruolo di un maschio travestito da femmina che mostra atteggiamenti mascolini! Ciò è culminato nella spassosissima scena farsesca (second’atto) della commedia degli equivoci (la falsa Diana insidiata da Endimione e poi da Pan) scena che da sola si merita il prezzo del biglietto.

Ecco, questo è un altro aspetto rimarchevole della regìa: saper rendere in modo efficace tutte le diverse facce del drama, quelle leggere, pruriginose, quasi da avanspettacolo (second’atto, come detto) e quelle tremendamente serie (soprattutto nel primo atto) dove non è assolutamente facile mantenere desto l’interesse dello spettatore a fronte di interminabili minuti di puro declamato (il recitar-cantando) quasi in assenza di suoni provenienti dalla buca.

E a proposito di buca, da elogiare tutta la compagine mista (14 strumentisti di Les Talens Lyrique rinforzata da 9 - 8 archi e un cembalo - barocchisti della Scala) guidata dall’eccellente Christophe Rousset (cimentatosi anche al cembalo) che ha saputo produrre suoni compatibili con la vastità del Piermarini ma senza per questo sconfinare in eccessi... ottocenteschi.   

Le voci hanno poi determinato il successo dello spettacolo: tutte, con sfumature diverse, ovviamente, all’altezza del difficile compito. Detto già della Diana della Bezsmertna, pieni voti per la protagonista Chen Reiss, che ha saputo rendere al meglio ogni diversa sfumatura della ninfa: ora casta sognatrice, ora inebriata dall’esperienza sessuale (saffica + ...qualcosina) poi delusa dai rimproveri di Diana e di Giunone, infine onorata (ma con retrogusto amarognolo) dell’onorificenza garantitale da Giove.  

Eccellente Christophe Dumaux in Endimione, voce sottile ma penetrante, perfettamente tagliata per le caratteristiche dell’efebico personaggio: ingenuo sognatore alla mercè dell’instabile e ambiguo carattere di Diana e della gelosia di Pan&satiri.

E fra i satiri, ecco l’impertinente Satirino di Damiana Mizzi, splendida presenza scenica, cui mancano (alla voce) alcuni decibel per essere perfetta!     

Markus Werba è l’interprete ideale di Mercurio: per la voce, di baritono perfettamente a suo agio con una tessitura alta, e per la presenza scenica da consumato viveur...  

Il personaggio musicalmente più controverso, Linfea, è affidato qui ad una vera femmina (sì, poi ci sono anche maschi, maschi e femmine travestiti, ed altro ancora nel variegato mondo LGBT): Chiara Amarù ne è interprete squisita e... determinata a godere di tutte le sue prerogative di femmina! Davvero una scelta azzeccata di regista e direttore.        

Centrata anche l’interpretazione di Giunone da parte di Veronique Gens, che ha messo la sua bella voce di soprano lirico al servizio di questo personaggio che i tradimenti dell’illustre marito hanno reso arcigno e intollerante.

Ed appunto Giove, il fedifrago, capace però non solo di impulsi di bassa animalità, ma anche (nel finale) di nobili sentimenti, è apprezzabilmente reso da Luca Tittoto, voce corposa e gran portamento.    

Un altro basso, Luigi De Donato, è un apprezzabile interprete di Silvano, parte secondaria ma non proprio trascurabile. Così come il Pan (Pane nel testo) di John Tessler, che veste anche i... panni del concettuale personaggio Natura. Completano questo cast di alto livello le due Furie Federica Guida (anche Eternità) e l’omonima (ma non parente, a quanto pare) della più celebre Krassimira, Svetlina Stoyanova (anche Destino).

Inutile dire dell’autentico trionfo finale tributato a tutti indistintamente, per uno spettacolo che merita di essere immortalato (beh, si parla di... divinità) su supporti audiovisivi per i posteri. Per il momento, chi appena può permetterselo non perda le restanti due recite programmate nei prossimi giorni.

24 febbraio, 2020

Roma ospita un Onegin di alto livello


Ieri pomeriggio il Costanzi - abbastanza, ma non troppo affollato - ha ospitato la terza recita dell’Onegin, una produzione di Carsen del lontano 1997 per il MET, poi già ripresa da altri teatri e qui portata da Peter McClintock. Sul podio il torinese (pro-tempore) James Conlon. Radio3 aveva trasmesso la prima del 18, che mi aveva fatto un gran bella impressione, pienamente confermata dall’ascolto dal vivo.

Come le altre, anche questa recita è edicata al ricordo della grande Mirella Freni, ultima interprete romana di Tatiana nel 2001.

L’allestimento di Carsen compie 23 anni, ma non li dimostra, come accade per ogni opera di valore. L’idea portante del regista è di mettere al centro della vicenda Onegin, che non per nulla appare sempre per primo in scena in apertura dei tre atti: durante il Preludio lo si immagina ricordare ciò che... accadrà, leggendo una lettera; all’inizio del second’atto facendo un sopralluogo nella sala dove si svolgerà la festa che lo porterà ad offendere Lensky e a dare inizio alla tragedia; infine all’inizio del terzo atto, quando verrà abbigliato a dovere per la festa-funerale che preparerà la sua fine ingloriosa.

L’ambientazione rispetta il libretto, nella Russia ottocentesca, come testimoniano i costumi di Michael Levine, il quale cura anche le scene: ambiente praticamente vuoto, di volta in volta popolato da poche suppellettili, piccoli tavoli da lavori domestici, sedie e tavolini da soggiorno. All’inizio il pavimento è ricoperto da (finte) foglie dai tipici colori autunnali (giallo, marrone, rossiccio, verde scuro) per restare via via completamente spoglio. Le luci di Jean Kalman supportano l’idea del regista di illuminare le tre pareti nude con colori diversi e cangianti, a seconda del carattere dei diversi quadri: il giallo della natura e della vita serena per i quadri iniziali dei primi due atti, in casa Larina; il blu-notte nel secondo quadro del primo atto (la lettera di Tatiana) e nel corrispondente del secondo (il duello all’alba, con il sole che sorge poi a inquadrare la silhouette di Onegin piegato sul defunto Lensky); grigio nel terzo quadro del primo atto (la disillusione di Tatiana); bianco nel primo quadro del terz’atto (a far da sfondo ad un nero... funerale) e ghiaccio nel quadro finale (il distacco definitivo).

Una scelta che ai tempi fece discutere è quella di collegare direttamente la fine dell’atto secondo (morte di Lensky) con l’inizio del terzo (festa a palazzo Gremin) che il libretto colloca invece a distanza di anni. (L’idea fu poi scopiazzata - in molto peggio, per la verità - da Kasper Olten, in una produzione passata anche a Torino anni fa.) Ma anche questa si spiega con la concezione di Carsen di porre Onegin al centro dell’opera e quindi vedere la realtà con gli occhi di lui, che dopo l’omicidio dell’amico vede tutto nero e così la festa per lui diventa proprio un funerale, anzi il funerale di Lensky, portato via sulle spalle degli inservienti del Principe, in mezzo agli invitati (maschi e femmine) tutti vestiti di nero, come becchini o pipistrelli. Proprio mentre in orchestra esplode la musica della polacca brillante, qui assurta a grottesca marcia funebre! Insomma, Carsen trasferisce il lancinante contrasto: da quello presentato nel libretto, fra la festa spensierata e il cuore desertificato di Onegin; a quello fra cerimonia funebre e musica brillante che l’accompagna.

A proposito della musica della polonaise, ho sempre considerato l’iniziale esposizione del tema principale come un modo escogitato dal compositore per caratterizzare un ambiente da nobiltà parassitaria: insomma un po’ da... sboroni, ecco. Dopo la fanfara introduttiva e l’approccio degli archi, il motivo principale è di 8 battute e viene esposto due volte, prima che subentri un controsoggetto di 10 battute, cui segue la ripresa del tema principale e la coda conclusiva. Orbene, ci si aspetterebbe che le due esposizioni del tema siano sostanzialmente identiche e quindi sfocino entrambe sulla dominante RE. Invece la prima delle due sfocia inaspettatamente un tono sopra (MI, e in minore, tonalità relativa del SOL) con un effetto francamente poco gradevole, che sembra appunto tipico di chi voglia strafare, mettersi in mostra a tutti i costi, insomma fare una vuota ostentazione di ricchezza... (Ben diversa è invece la condotta del walzer che apre il second’atto, in un ambiente genuinamente e simpaticamente campagnolo e provinciale.)
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James Conlon mostra non solo di conoscere a fondo, ma anche di adorare letteralmente questa partitura, tanta e tale è la cura che mette nel dirigere, quasi prendendo per mano i singoli strumentisti e le voci sul palco. Mai un effetto gratuito, nessuna indebita libertà nella scelta dei tempi, dinamiche mai esasperate, nel pieno rispetto dell’ambientazione sonora che l’Autore volle dare a queste sue scene liriche.

Voci tutte all’altezza, con punte di eccellenza per Markus Werba, un Onegin quasi perfetto, dalla vocalità (per me) appropriata ad un cattivo che però è anche giovane. Benissimo Saimir Pirgu (accolta trionfalmente la sua celebre aria prima del duello). Ottimo anche John Relyea (Gremin) la cui parte è quantitativamente ridotta, ma è fondamentale (forse il parallelo con un Filippo o un Marke è eccessivo, ma insomma...)

Le due sorelle mostrano una grande padronanza e consuetudine con le parti, soprattutto Maria Bayankina è una Tatiana davvero eccellente, capace di immedesimarsi mirabilmente nella ragazza romantica e insieme temeraria (la sua lettera è stata un capolavoro di espressività delle sue passioni) e poi nella rigorosa signora che rispetta fermamente i sacri doveri che la società le impone. Yulia Matochkina le ha fatto da sorellina spensierata e in po’ frivola con buon portamento e bella voce di mezzo.

Discrete le due voci femminili di contorno (Irina Dragoti e Anna Viktorova) cui rimprovero magari un po’ di carenza di... decibel. Efficace e simpatico il Triquet di Andrea Giovannini e oneste le prestazioni degli altri due comprimari, Andrii Ganchuk e Arturo Espinosa.

Benissimo anche il coro di Roberto Gabbiani, che nel second’atto ha pure... ballato. E a proposito di danza, completano il quadro i cinque membri del Corpo di ballo del Teatro, guidati dal coreografo Serge Bennathan.
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Al termine almeno 10 minuti di applausi equamente distribuiti tra tutti i protagonisti di questo spettacolo che merita proprio di esser visto e goduto (RAI5 lo metterà in onda prossimamente). 

30 maggio, 2019

Il trionfo di Korngold alla Scala


Rieccomi qua, dopo sanitaria sosta, a commentare questa strepitosa Die tote Stadt, finalmente (è bastato aspettare un secolo, ecché ‘ssarà mai...) comparsa sulle tavole del Piermarini.

Note tecnico/musicali: a) contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro fino a poche ore dall’inizio della prima, l’opera è stata presentata nella sua struttura originaria, quindi con entrambi gli intervalli fra i tre quadri; b) sempre contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro, il ruolo (secondario?) di Brigitta passa da una brasilera (Kismara Pessatti) ad una rumena (Cristina Damian).

Già detto nel telegrafico intervento di ieri notte di un teatro con ampi spazi vuoti, colpa del secolo d’età di un’opera finita nel dimenticatoio (e conseguente disinteresse - per ignoranza - del vasto pubblico) o della teoria di Pereira sul ritardo dell’allineamento della domanda all’offerta? O di entrambe le cause? Fatto sta che lo spettacolo visto martedi, se non passerà proprio alla storia (mai esagerare con gli epinicii...) di certo resta - parere mio personale - una delle migliori produzioni degli ultimi tempi. E forse qualcosa di più delle pur lodevoli iniziative del Teatro - conferenza e tavola rotonda - andava fatto per promuoverlo.
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Alan Gilbert ha saputo mettere in risalto le diverse qualità della musica, che ha richiami tardoromantici, ammiccamenti da operetta e tratti espressionisti, ma sempre impiegati con appropriatezza e mai lasciati al caso o destinati al puro effetto. L’Orchestra si è evidentemente ritrovata con questa musica, non facile sicuramente da eseguire, ma certamente stimolante per gli esecutori, oltre che per gli spettatori. Da incorniciare i diversi passaggi sinfonici, come il finale primo (il turbamento psichico di Paul e l’apparizione di Marie); l’attacco del secondo quadro (la spettrale Bruges nella quale il protagonista si inoltra); la processione religiosa (che si trasforma in marcia minacciosa e spaventevole); e l’introduzione al terzo quadro, che evoca la notte tumultuosa passata a letto da Paul e Marietta, costellata di... orgasmi! Ma splendidamente resi anche gli afflati più lirici (l’aria del liuto e il Lied di Pierrot) che richiedono delicatezza e raffinatezza di supporto alle voci, senza però scadere in toni eccessivamente operettistici. Insomma un Direttore e un’Orchestra che, in perfetta unità d’intenti, hanno saputo deliziarci con questo coloratissimo caleidoscopio sonoro di Korngold.       

Il Coro di Casoni è impegnato in modo non proibitivo (nel terzo Quadro) e ha fatto benissimo la sua parte. Meglio ancora i piccoli dell’Accademia, perfetti nella scena della processione.

Klaus Florian Vogt è un convincente Paul: la sua vocina è timbricamente perfetta (per me) per caratterizzare questo personaggio-bambino, pieno di complessi e ossessioni. Se in ruoli (pur da lui ricoperti) come Lohengrin, per dire, può sembrare eccessivamente efebico (un Kind-Heldentenor) qui invece rende alla perfezione tutte le turbe mentali che portano Paul ad auto-imprigionarsi nel suo sacrario psicologico, prima ancora che materiale. E passa benissimo dall’assurda euforia iniziale (per il creduto ritrovamento della moglie) alla tremenda dissociazione che la sua psiche subisce (quadro secondo, al momento di assistere alla demoniaca - meyerbeeriana - resurrezione di Marie e di cedere infine a Marietta) all’inferno che invade la sua mente al passaggio della processione-marcia; per finire all’ebete rassegnazione conclusiva, sottolineata musicalmente dalla riapparizione sì della dolcissima canzone del liuto, ma ora a supportare un’amara constatazione: nella vita non c’è resurrezione.  

Marietta (+Marie) è Asmik Grigorian, che si sdoppia benissimo nei due personaggi: quello, limitato nel tempo ma fondamentale, dell’apparizione della moglie defunta e quello ben più esteso della sua pretesa reincarnazione, con tutt’altra personalità. Eccellente la sua performance - con i soci della compagnia teatrale - nel secondo Quadro, dove si è distinta anche per qualità e doti di danzatrice-soubrette. Insomma, una Marietta perfetta nel canto ma anche nella... professione. Per sorridere un po’, mi domando con quale credibilità avrebbe potuto ricoprire questo ruolo una Cerquetti (! ho fatto volutamente un riferimento fuori dall’attualità.)

Anche Markus Werba incarna (come originariamente previsto da Korngold, ma forse anche per ragioni di... spending review) due personaggi. E lui lo fa con la grande professionalità che lo contraddistingue, porgendoci il serioso e quasi pedante Frank (che nella sezione onirica si trasforma però in uno sbifido quanto falso traditore di amici) intercalato dal romantico e patetico Fritz, nell’aria del quale ha modo di mettere in luce tutta la sua vena lirica e quasi belcantista.   

La 42enne Cristina Damian ha sostituito quasi all’ultimo momento la brasilera Kismara Pessatti nei panni di Brigitta, questa anziana badante un po’ bigotta ma assai premurosa. Il mezzosoprano rumeno la interpreta con garbo e discrezione, mostrando voce ben impostata in tutti i registri, anche se non proprio superdotata di decibel.

Da elogiare gli altri quattro interpreti, gli accademici Marika Spadafino, Daria Cherniy e Sergei Ababkin e lo sdoppiato Sascha Emanuel Kramer.
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Vengo ora allo spettacolo, firmato da Graham Vick.

Il soggetto non si presta molto a interpretazioni di carattere ideologico (dove il nostro spesso si lascia prendere troppo la mano dalle sue convinzioni leftist) tuttavia il regista albionico non rinuncia ad inventare anche qui qualcosa di estraneo al libretto e dal sapore politico. Si tratta dell’interpretazione data alla processione e poi soprattutto alla bestiale marcia che occupa la seconda scena del quadro conclusivo, dove vediamo chiarissimi quanto gratuiti riferimenti a nazismo e Shoah: chierichetti fra i quali si mischiano ragazzini della Hitlerjugend (i balilla nazi) e scene di deportazione di ebrei. Fatti che certo Korngold non poteva minimamente divinare nel 1920 quando compose l’opera. Tuttavia mi sento di perdonare volentieri a Vick questa libertà, per due precise ragioni: a) questi riferimenti non intaccano, nè tantomeno sovvertono la drammaturgia originale dell’opera, sono in effetti delle materializzazioni (postume, rispetto ai tempi) di orrori che invadono la mente di Paul, quindi del tutto plausibili; b) si tratta di riferimenti che con Korngold hanno a che fare assai, visto che una quindicina d’anni dopo la composizione dell’opera il nostro fu costretto letteralmente a cambiare vita - materiale ed artistica - proprio a causa dell’avvento di ciò che Vick ci mostra in scena.

Per il resto il regista sfodera tutta la sapienza e maestrìa del consumato uomo di teatro che è. Ben supportato dal suo team - Stuart Nunn per scene e costumi, Giuseppe Di Iorio alle luci e Ron Howell per le coreografie - non ci lascia sfuggire nulla di ciò che il libretto racconta (testo e didascalie).

Geniale per efficacia è la scelta di mantenere l’ambientazione scenica di fondo sempre la stessa, nel tre quadri dell’opera: siamo nel sacrario che Paul ha apprestato in casa sua per ricordare la moglie Marie. Nel secondo e terzo quadro il tendaggio bianco sul fondo si solleverà per far entrare nel sacrario tutti gli elementi dissacranti che compaiono nel sogno di Paul: la Bruges bigotta, le beghine con Brigitta, il Frank traditore, la scanzonata e irriverente compagnia di Mariette, la processione-marcia. Ma son tutte visioni che fanno parte del sogno di Paul, quindi è giusto che si mostrino proprio in quello stesso ambiente dove il poveraccio passa le sue giornate a macerarsi nei ricordi. Detto di passaggio: questa scelta di scenografia raggiunge anche lo scopo - non secondario - di evitare allo spettatore (quando non adeguatamente preparato) di fraintendere tutto quanto avviene in scena nel secondo quadro, pensando si tratti di accadimenti reali e non di immagini oniriche che popolano la psiche di Paul.  

L’ambientazione temporale è - per i costumi - vicina agli anni di composizione dell’opera, mentre è a noi contemporanea quanto alle suppellettili del sacrario (divanetto con struttura metallica; maxi-schermo al plasma a sorreggere il quadro con l’immagine di Marie, che vedremo solo alla fine del primo quadro, al momento dell’apparizione; un inginocchiatoio e soprattutto una teca con le reliquie di Marie, fra cui la famigerata treccia di capelli dorati). C’è poi in scena un elemento assai importante: una stilizzata porta (solo lo scheletro, di plastica trasparente) profilata da neon bianchi e lampadine colorate, che rimane in permanenza in primo piano, sulla sinistra del palcoscenico, e che saltuariamente si sposta di poco, ruotando su una piccola piattaforma circolare. Cosa ci rappresenta? Mah, a parte il significato elementare di ingresso al sacrario, può essere interpretata come il punto di passaggio dalla vita reale (che sta al di qua, verso il pubblico) e la vita virtuale e poi onirica che vive il povero Paul. Il quale, ad esempio, nel terzo quadro vi si affaccia per seguire la processione; oppure attraverso la quale - nel secondo quadro - battibecca con l’immagine del Frank traditore.

Ma come non ammirare la raffinata gestione dei movimenti dei personaggi in scena. Qui faccio solo pochi cenni: alla fine della canzone del liuto, nel primo quadro, Paul e Marietta si trovano seduti per terra, con le schiene appoggiate alle estremità del divanetto; ecco, mentre l’orchestra esala le 10 mirabili battute in SIb della cadenza, la mano sinistra di Paul e la destra di Mariette, palme appoggiate al pavimento, traslano lentamente fino ad incontrarsi... un momento di estasi davvero indimenticabile, un esempio di come valorizzare al massimo grado una frase musicale! E poi tutta la scena dei commedianti del secondo quadro è gestita in modo superlativo, fino a trasformare quasi in poesia anche alcune esternazioni dove sarebbe facilissimo sconfinare nella volgarità. Memorabile, come detto, la scena della processione-marcia, che restituisce tutta la drammaticità dell’autentico incubo che invade la mente di Paul, con povera gente che in nome di dio viene maltrattata e deportata. Impressionante (e Kitsch, sì, ma proprio quanto la musica!) la comparsa del gigantesco e sovrastante teschio che alla fine prende fuoco.

Efficacissima infine la conclusione: dopo che tutte le suppellettili del sacrario sono state rimosse e portate via, la scena si svuota e Paul, chiusa la canzone del liuto con le parole Hier gibt es kein Auferstehen, sulle 11 (apparentemente?) eteree battute cadenzanti dell’orchestra si avvia a testa bassa e con atteggiamento sconsolato verso il fondo del palcoscenico. Immagine assolutamente emblematica dell’ambiguità della soluzione del dramma.

29 maggio, 2019

Una splendida città morta finalmente al Piermarini


Quasi a festeggiare l’imminente centenario della comparsa dell’opera sulle scene (1920) la Scala ospita quest’anno per la prima volta in assoluto Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold. Ieri sera è andata in onda la prima delle sette rappresentazioni in cartellone, in un teatro ancora con evidenti vuoti (anche le gallerie non proprio stipate): lunedi pomeriggio, alla presentazione della nuova stagione agli abbonati, Pereira ha cercato di spiegare il fenomeno come conseguenza dei suoi sforzi per aumentare l’offerta di spettacoli, al quale aumento evidentemente la domanda si starebbe allineando con ritardo (fenomeno che gli esperti chiamano isteresi); parrebbe di capire che gli spettatori totali crescano, ma - per ora almeno - non quanto l’aumento dei posti disponibili... Beh, se lo dice Pereira magari sarà così, chissà.

Dunque, finalmente Korngold è arrivato anche da noi, e devo dire che se lo meritava proprio e che aver atteso quasi il centenario per accoglierlo in Scala sa di scandalo, proprio come la scarsa partecipazione del pubblico.

Mentre invece va dato merito a Direttore, Cast e Regista di aver confezionato uno spettacolo di altissimo livello, valorizzando al massimo le qualità dell’Opera, sul piano strettamente musicale ma anche su quello drammaturgico.

Alla fine il pur scarso pubblico ha tributato a tutti un autentico trionfo. Personalmente ho pochi dubbi che si sia trattato del miglior spettacolo offerto dalla Scala in questa stagione.

Seguirà - dopo un forzato time-out - qualche commento più circostanziato.

21 maggio, 2019

Freud a Brugge: Die tote Stadt alla Scala


Fra pochi giorni al Piermarini andrà in scena la prima di Die tote Stadt, opera del 1920, uscita dalla penna di un 24enne di origine morava trapiantato a Vienna, Erich Wolfgang Korngold. Opera rimasta quasi unica nella produzione di quel ragazzo-prodigio (ammirato persino da Puccini, Mahler, Strauss...) anche a causa delle dolorose vicissitudini cui il compositore andò incontro a seguito dell’ascesa al potere di tale Hitler. Il che lo obbligò ad espatriare e a stabilirsi in USA, dove peraltro trovò l’america, come si suol dire, facendo fortuna e ricchezze in quel di Hollywood, dove divenne il pioniere delle grandi colonne sonore dei film colà prodotti. Dopo la fine della WWII tornò alla musica colta, con il (relativamente) famoso Concerto per violino e una meno famosa Sinfonia.

Visto con il senno di poi, a noi oggi pare quasi scontato che quel fenomeno - innescato da Liszt e portato a dimensioni quantitative e qualitative eccelse da Strauss - che va sotto il nome improprio di musica descrittiva, finisse per contagiare inevitabilmente il mondo del cinema, che di colonne sonore aveva bisogno come dell’aria. E così il buon Korngold, imbevuto di massicce dosi di Liszt e Strauss in salsa wagneriana, e con l’aggiunta di spruzzatine di Mahler e Lehar su moderate dosi di Debussy e di espressionismo à-la-Berg, divenne in breve il re di quel nuovo business.               

A prima vista anche l’opera che si va a rappresentare, pur di una quindicina d’anni anteriore al periodo americano, presenta già qualche tratto caratteristico della musica-da-film, come si può constatare fin dalle prime battute, con suoni che ci sembrano uscire dagli altoparlanti di una sala cinematografica dove si proietta una pellicola con Errol Flynn! Ma sarebbe ingeneroso non riconoscere a Korngold straordinarie doti creative e capacità come pochi di padroneggiare la tecnica di manipolazione dei motivi musicali al servizio del dramma.     
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Due parole sul soggetto, che poggia su un libretto scritto dallo stesso compositore, con la guida del padre - il famoso critico musicale Julius - a partire da testi preesistenti (essenzialmente Le mirage e Bruges-la-Mort di Georges Rodenbach). La città morta è Bruges (Brugge per i fiamminghi) dove si dipana il dramma di Paul, vedovo inconsolabile che fa della sua casa in quella cittadina decaduta un autentico sacrario per la moglie Marie, con tanto di ritratti, oggetti di abbigliamento e persino una lunga treccia bionda conservati come reliquie.  

Un bel giorno Paul incontra per caso Mariette, un’estroversa danzatrice di una compagnia itinerante che pare la copia-carbone della moglie defunta: se ne innamora come se quella fosse la reincarnazione della povera Marie, la invita nella sua casa-cappella, ma deve constatare che invece Mariette ha una personalità agli antipodi rispetto a quella della sua Marie. Così la sua psiche deraglia e, quando Mariette - dopo una notte d’amore di sesso con lui - deturpa deliberatamente l’immagine di Marie, Paul sbrocca e strangola la ballerina.

Finito qui, come nei riferimenti letterari originali? No no, qui c’è addirittura il lieto-fine, o perlomeno un’ambigua morale-della-favola, sospesa fra il rassegnato e il consolante. Perchè scopriamo che tutta la tragica vicenda che ha portato allo strangolamento di Mariette altro non è stato che un sogno di Paul: Mariette è viva e vegeta e se ne torna alla sua compagnia, e Paul - grazie al sogno - si può infine capacitare che la vita può continuare (mah, sarà poi così?) senza rimanere schiavi del passato nè delle futili illusioni del presente.

Abbiamo quindi scoperto una caratteristica peculiare della struttura dell’opera: che mescola un tempo reale con un tempo onirico, proprio come accade spesso nei film, che diventeranno, in USA, il pane quotidiano dell’Autore! Lo schema che segue - dove sono rappresentati i tre quadri e le 13 scene dell’opera - vuol rendere plasticamente il concetto:



Il tempo reale occupa le prime 5 scene del primo quadro e l’ultima del terzo: tutto si compie in una sola serata. Il tempo onirico occupa invece pochi minuti di quello reale (insomma, Paul fa solo un pisolino, il tempo per Marietta - dopo esserne uscita - di tornare in casa sua a recuperare l’ombrellino...) ma vi scorre, come in un film accelerato in FFW, un’intera serata-nottata-mattinata, articolato com’è nella sesta scena del primo quadro, nelle 4 del secondo e nelle prime due del terzo. Grosso modo, su circa 130 minuti di durata complessiva, il tempo reale ne occupa più o meno 50; quello onirico quasi 80, compressi in 5 minuti del primo!

Dallo schema si evince anche come il sogno di Paul sia distribuito su tutti e tre i quadri - che hanno durata simile, attorno ai 45 minuti - il che comporta che venga interrotto dagli intervalli addirittura due volte, cosa che può disorientare lo spettatore o comunque produrre cali di tensione drammatica. In particolare è la prima interruzione, dopo che il sogno è appena iniziato, a rischiare di essere deleteria. Così lo stesso Korngold ha previsto la possibilità di legare senza soluzione di continuità i primi due quadri e all’uopo ha predisposto gli opportuni tagli (138 battute: 93 alla fine del primo e 45 all’inizio del secondo quadro) alla partitura. In questo modo il sogno viene interrotto soltanto una volta, prima della notte che Paul e Marietta trascorreranno insieme. Peraltro una conseguenza di questo approccio è lo squilibrio che si crea fra le durate delle due parti: la prima di circa 90 minuti, la seconda di 40-45. Beh... non si può aver tutto.
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Per fare (o rinfrescare) la conoscenza dell’opera a buon mercato, la si può seguire in rete (fra alcune altre) in questa registrazione vintage (1975) di Erich Leinsdorf con il trio dei protagonisti (Paul, Marietta, Frank) Kollo-Neblett-Luxon, più il Fritz di Prey e la Brigitta di Wagemann.

In omaggio alla notorietà americana di Korngold, l’opera sarà affidata ad Alan Gilbert, fino al 2017 Direttore musicale della prestigiosa NYPO, in procinto di insediarsi alla Elbphilharmonie.

Paul sarà impersonato da Klaus Florian Vogt, che si può apprezzare qui, impegnato in Finlandia nel 2011, e che pare ben calato nella personalità piuttosto... disturbata del protagonista.   

Come è prassi ormai quasi consolidata (del resto è un’indicazione dello stesso Korngold) anche in questa produzione il ruolo minore (come presenza in scena, ma al quale è affidata una delle due arie più famose dell’opera, Da Ihr befehlet, Königin, nel second’atto) di Fritz (il Pierrot della compagnia di Marietta) viene accorpato - visto che ha la stessa tessitura di baritono e mai compare in scena insieme all’altro - con quello un filino più presente, anche se musicalmente meno pregiato, di Frank. Così il simpatico, oltre che bravo, Markus Werba si guadagnerà qualche minuto in più di attenzione del pubblico (e magari, glielo auguriamo, di applausi).

Ad Asmik Grigorian da Vilnius è affidato il ruolo di Marietta, che dà anche la voce all’apparizione di Marie nel primo atto; atto in cui spicca la bellissima aria (del liuto) Glück, das mir verblieb. La carioca Kismara Pessatti completa il quartetto dei protagonisti, interpretando Brigitta.

L’Accademia scaligera dà anche qui un sostanzioso contributo ai ruoli di contorno, con tre delle quattro voci. Contributo che darà anche il Coro di Casoni.

L’allestimento è del genio-(e-sregolatezza) Graham Vick, il che garantisce come minimo accese discussioni sulla sua vision del dramma. 

Dalla locandina del Teatro si dovrebbe evincere che lo spettacolo abbia un solo intervallo, come ad esempio in questa recente produzione berlinese di Carsen. Radio3 riprenderà in diretta (ore 20:00) la prima del 28 maggio. 

24 aprile, 2019

Un grande Strauss alla Scala


Ieri sera al Piermarini (con parecchi posti vuoti - peggio per gli assenti) è andata in onda la prima di Ariadne auf Naxos, nella nuova produzione targata Welser-Möst / Wake-Walker, una coppia (direttore-regista) che ha presentato l’opera a Cleveland (dove il direttore di Linz è di casa da un bel pezzo...) poco più di due mesi orsono, ma con orchestra, cast e team di regìa completamente diversi (di fatto quella produzione americana nulla ha a che vedere con questa della Scala).

Devo dire subito che il Kapellmeister mi ha abbastanza convinto, portando alla luce gli innumerevoli tesori di questa partitura e guidando orchestra e interpreti con una concertazione accurata e attenta ad ogni dettaglio. E la smagrita (come da copione) compagine scaligera (rialzata opportunamente nella buca di un buon mezzo metro) ha risposto nel migliore dei modi alle sue sollecitazioni: buon equilibrio fra le sezioni, proprietà di fraseggio e sonorità mai sbracate, proprio come è richiesto dalla lettera, oltre che dallo spirito, di quest’opera, che ha nella raffinatezza la sua caratteristica peculiare.

Opera bifronte, sappiamo, con un prologo-Singspiel, dove abbondano i parlati (e Alexander Pereira, che come sovrintendente sarà magari censurabile, ha invece tenuto banco alla perfezione nei panni del maggiordomo viennese, in sfolgorante livrea purpurea e con voce petulante) e dove i momenti musicalmente rilevanti - preludio a parte - si riducono alle esternazioni del Compositore e al suo confronto con Zerbinetta (gli altri cantano in recitativi accompagnati, o poco più); e poi il melodramma serio-farsesco, dove invece la mirabile musica di Strauss la fa da padrona da cima a fondo.    

In compenso la prima parte è quella dove c’è un minimo di azione, anzi di agitazione, causata dalle ripetute sorprendenti pretese del padrone di casa, di cui è portavoce il maggiordomo. La seconda parte è quasi totalmente statica, se si esclude il siparietto della caccia delle quattro maschere. 

Dopo il Preludio, suonato rigorosamente a sipario chiuso, ecco comparire al proscenio il sempre solido Markus Werba (insegnante di musica) e il padrone di casa (pro-tempore) del Piermarini, protagonisti del battibecco che apre il Prologo, durante il quale Pereira fa sventolare sotto il naso di Werba una banconota che gli consegnerà (bontà sua) solo al rientro dietro il sipario dopo gli applausi al termine della prima parte...

E all’apertura del sipario, invece che in austeri corridoi del Palast, siamo in un cortile dello stesso, dove hanno trovato parcheggio le roulottes e i camper delle due troupe ingaggiate per lo spettacolo: bianchi quelli dei melodrammatici e rossi quelli dei commedianti, nel rigoroso rispetto dei colori (nazionali e cittadini) del luogo.

Qui c’è un crescendo di animazione, in una fantasmagoria di colori, quella dei costumi (una mescolanza di antico e moderno) di Jamie Vartan (responsabile anche delle scene): ne è protagonista il compositore, alias la bravissima Daniela Sindram, che ha modo di esternare tutta la sua apprensione, il suo amor proprio ed anche le sue mirabili melodie. Raggiunto, verso la fine, da una Zerbinetta (che si scatenerà poi nell’opera) che qui mostra il lato umano e nascosto della sua esuberante personalità, riuscendo a far tornare nel compositore l’entusiasmo e l’ottimismo, che peraltro dureranno poco, se è vero che il poveretto si trafiggerà con un coltello preso dall’argenteria del palazzo, sui truci accordi di DO minore che chiudono il Prologo.

Nel quale hanno anche cantato meritoriamente il Maestro di danza Joshua Whitener e i tre accademici scaligeri, Riccardo Della Sciucca (Ufficiale) Ramiro Marturana (Parrucchiere) e Hwan An (Lacchè). Quanto ai due protagonisti dell’opera seria (Ariadne e Bacchus) nel prologo si limitano più che altro a lamenti e rimostranze, sfoggiando supponenza e disprezzo per l’altra troupe; i quattro compari di Zerbinetta si muovono senza aprir bocca, così come le tre svampitelle che nell’opera impersoneranno ninfe ed eco.

E l’opera, appunto, vede lo scenario (e la scena) mutare drasticamente: siamo in un ambiente asettico, caratterizzato da luce azzurrognolo-verdastra (evocazione di paesaggio marino, assai azzeccata da Marco Filibeck) e popolato da acutissime guglie (le scogliere di Nasso). Al centro un’enorme vongola tecnologica (la conchiglia del Botticelli) con le due valve aperte sulle quali si muove lentamente Ariadne, e che si richiuderanno poi temporaneamente quando la protagonista si ritirerà all’interno della sua spelonca.

Ma ciò che colpisce è la trasformazione dei personaggi della troupe dell’opera (Ariadne, Najade, Dryade ed Echo, successivamente Bacchus) da individui complessati o insignificanti (come ci erano apparsi - nel prologo - nella vita reale) in grandi artisti, nobilitati dal teatro e soprattutto dalla... musica!

Come non restare ammirati dall’iniziale esternazione di Ariadne, una Krassimira Stoyanova invero commovente e pienamente calata nella parte della donna tradita, privata della cosa più preziosa che si possa desiderare, l’amore! Welser-Möst ne ha accompagnato i lamenti e i ricordi con discrezione, mettendo in risalto le purissime linee melodiche dell’orchestra e dei singoli strumenti.

E che dire della poesia del canto di Christina Gansch (Najade), Anna-Doris Capitelli (Dryade, dall’Accademia scaligera) e Regula Mühlemann (Echo) nelle loro ninna-nanne alla protagonista!

Michael König è stato un convincente Bacchus, voce proprio da Heldentenor, potente e squillante allo stesso tempo, senza sforzo apparente anche sui SIb cui la partitura lo chiama alla conclusione dell’opera. La sua apparizione è accompagnata dall’aprirsi della scena sul fondo, dove compare una ripida scala sulla quale scende il dio e sulla quale risaliranno (verso... le stelle) i due amanti alla fine. Da incorniciare il lungo duetto con Ariadne, una miniatura che ricorda l’enorme quadro del Tristan!

Zerbinetta&C - a differenza dei colleghi, più blasonati ma con puzza-al-naso, dell’altra troupe - sembrano vivere in teatro come vivono da privati cittadini: le quattro maschere hanno modo di farsi valere anche come... cantanti (!) e su tutti spicca (per corposità della parte) l’Harlekin di Thomas Tatzl, che sciorina impeccabilmente la sua infruttuosa serenata alla povera Ariadne. Gli tengono valida compagnia Kresimir Spicer (Scaramuccio), Tobias Kehrer (Truffaldin) e Pavel Kolgatin (Brighella) che inscenano la comica quanto inutile caccia alla soubrette, caccia conclusa invece con pieno successo da Harlekin, che conquista il cuore (e anche altro... ehm, organo!) della disinvolta attricetta.

Della quale è ora il momento di parlare, poichè è sicuramente la protagonista più appariscente dell’opera: e Sabine Devieilhe non si è smentita, lasciando tutti senza fiato con il suo massacrante recitativo-aria-rondò, inclusi i RE e MI sovracuti, che le ha garantito minuti di applausi a scena aperta.

Restano da citare Sylwester Luczak e Ula Milankowska per i filmati che hanno accompagnato la parte finale dell’opera e l’apoteosi dei due protagonisti.

Alla fine solo applausi e bravo! per tutti i protagonisti di questa proposta davvero accattivante, come livello musicale e come spettacolo; insomma, chi appena può, non se la perda!