XIV

da prevosto a leone
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09 aprile, 2018

Gioconda ha chiuso il tour a Reggio E.



Ieri pomeriggio al Valli di Reggio E. (piacevolmente affollato in ogni ordine di posti) si è chiuso il tour emiliano de La Gioconda, già transitata a marzo da Piacenza e Modena (teatri co-produttori dello spettacolo). Rendo subito merito alla provincia (emiliana, nella fattispecie) che ancora una volta mostra di saper proporre e allestire opere importanti e difficili come questa, raggiungendo allo stesso tempo risultati di tutto rispetto.

È noto che le difficoltà di allestire Gioconda risiedono principalmente nella necessità di mettere insieme un cast vocale di quantità (oltre che qualità) assai robusta: si tratta di sei protagonisti e deuteragonisti che coprono altrettante (quindi tutte le) diverse tessiture vocali. E il cast che ha sostenuto per intero la prova si è dimostrato mediamente all’altezza del compito.

A partire dal Barnaba di Sebastian Catana, davvero convincente sia sul piano vocale (ottima impostazione e timbro bronzeo) che su quello scenico, perfettamente calato nel truce personaggio.

Francesco Meli conferma le sue doti di fine lirico, sfoggiando difficili acuti a mezza voce e timbro cristallino. Il suo cielo&mar è stato lunghissimamente applaudito da un pubblico in delirio, che in pratica lo ha costretto ad un bis che taglierebbe la... gola a chiunque.

Bene la Cieca di Agostina Smimmero, voce corposa e passante, accompagnata ad un’efficace presenza scenica.

Giacomo Prestia è stato un Alvise corretto, ma i decibel cominciano a scarseggiare e - forse involontariamente - Callegari lo ha un paio di volte coperto con eccessivo volume dell’orchestra.
   
Note discrete, non di più, per le due donne principali: Saioa Hernández ha un vocione invidiabile, ma assai poco... disciplinato, dall’emissione periclitante e con acuti spesso tendenti alla vociferazione. Si è salvata con il... suicidio (!) che essendo l’aria più impegnativa dell’opera è stata probabilmente studiata e messa a punto meglio del resto. Anna Maria Chiuri ha mostrato discreta padronanza del ruolo di Laura, ma negli acuti ha manifestato analogie con la Gioconda: il loro duetto-scontro del second’atto è stato un po’ un festival dello schiamazzo, ecco...

Oneste le prestazioni dei comprimari Dellavalle, Donini, Izzo e Tansini. Un encomio al Coro piacentino di Corrado Casati e ai piccoli del Farnesiano guidati da Mario Pigazzini (tutti applauditissimi alla fine).

Ottime cose ha fatto il concertatore Daniele Callegari, che ha saputo estrarre e soprattutto valorizzare le tante raffinatezze dell’orchestrazione di Ponchielli, mantenendo (quasi) sempre un buon equilibrio nel sostegno delle voci. Onori ovviamente all’Orchestra ORER, sia come complesso che come singoli, spesso chiamati da Ponchielli a difficili passaggi solistici.

In definitiva, un bel successo sul piano musicale.
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Successo condiviso dall’equipe responsabile dell’allestimento. Federico Bertolani ha rispettato in pieno lo spirito ed anche la lettera del soggetto di Boito-Ponchielli, mettendo in risalto gli aspetti peculiari delle personalità dei diversi protagonisti del dramma. Una volta tanto è stata apprezzabile l’esecuzione del Preludio a sipario alzato: un tableau-vivant dove - sottolineati dai temi del Rosario e di Barnaba - il pubblico ha potuto far conoscenza con i principali protagonisti del dramma.

Il regista si è avvalso di scene (Andrea Belli) di assoluto ma essenziale ed efficace minimalismo: cielo e mar, verrebbe da dire, che sono onnipresenti nell’opera, e che si materializzano nell’acqua vera che allaga il palco (e riverbera le sue increspature fin sul soffitto del teatro...) e sul cielo dalle sfumature tenui, che fa da sfondo e si confonde con l’acqua, proprio come accade normalmente in laguna. Fa eccezione l’ambientazione del terzo atto, dove l’interno della Ca’ d’Oro è rappresentato come un enorme crogiolo tutto rosso porpora: il sangue che viene versato da ciò che si trama in quell’ambiente. Ambiente abitato invece - e qui siamo al nero più nero - da autentici pipistrelli (quali appaiono tutti i dignitari - e rispettive consorti - della Repubblica colà riuniti).

Efficaci e raffinati i costumi di  Valeria Donata Bettella, così come i giochi di luce di Fiammetta Baldisserri.

Gioconda è un grand-opéra infarcito di danze e balletti. La Compagnia Artemis Danza di Monica Casadei si fa carico di questa non marginale componente dello spettacolo, valorizzandola al meglio, pur con risorse ridottissime (6 danzatori per Le ore!)

In complesso: una prova encomiabile da parte di tutti, che il pubblico ha gratificato di lunghi e calorosi applausi. Viva la provincia!

01 aprile, 2018

A Reggio E. arriva la Gioconda


Dopo il Trittico pucciniano, a fare il tour dell’Emilia tocca all’opera che ha reso famoso Amilcare Ponchielli. Dopo le rappresentazioni di metà e fine marzo a Piacenza e Modena questo nuovo allestimento approda a Reggio E. (venerdi 6 e domenica 8).

Tanto per inquadrare l’opera nello scenario storico (dal punto di vista musicale) basta ricordare che la prima (alla Scala, aprile 1876) anticipò di 4 mesi quella del wagneriano ciclo del Ring a Bayreuth. Verdi era fermo all’Aida (1871) e solo 5 anni più tardi si sarebbe rifatto vivo col Boccanegra rimesso a nuovo, nel libretto, da Arrigo Boito. E proprio costui - guarda caso - firmandosi per l’occasione Tobia Gorrio (ma anche Troia Brigo non sarebbe stato niente male, come pseudonimo...) scrisse il libretto di Gioconda ispirandosi a Victor Hugo, del dramma del quale (Angelo, tyran de Padoue) conservò le figure dei cinque personaggi principali, spostando peraltro l’azione dalla Padova del 1549 alla Venezia di un non meglio precisato anno del secolo XVII. Così Angelo divenne Alvise, Catarina si rinominò Laura, Tisbe Gioconda, Rodolfo Enzo e Homodei Barnaba.

Leggere le tre giornate del dramma di Hugo (La clef - Le crucifix - Le blanc pour le noir) è come scorrere un emozionante thriller, che non ti lascia un attimo di respiro, ambientato com’è nei più reconditi e labirintici recessi del palazzo del Podestà, con tanto di pareti che celano varchi di accesso e di misteriose chiavi che aprono porte proibite. Invece la trama di Boito (La bocca dei Leoni - Il rosario - Ca’ d’Oro - Il canal Orfano) si svolge prevalentemente in luoghi pubblici o aperti, e i colpi di scena sono - tutto sommato - più inverosimili che spaventevoli.

In effetti Boito mise in piedi una trama che definire contorta è ancora poco, tanti e tali sono gli aspetti privi di logica e i colpi di teatro di plausibilità assai discutibile di cui è costellata. Non che il dramma di Hugo mancasse di situazioni improbabili o di gratuite combinazioni, ma Boito in questo superò ampiamente il maestro. Del cui lavoro peraltro ignorò del tutto (e furbescamente) il taglio filosofico-politico(-femminista) per concentrarsi quasi esclusivamente su quello dei sentimenti (amore, odio, gelosia, libidine, invidia, frustrazione): ingredienti sicuramente più adatti a cucinare un bel melodrammone da grand-opéra. Nel lavoro di Hugo spiccano appunto due straordinarie esternazioni - femminismo in piena regola, valgono più di 100 comizi di una Bonino (con tutto il rispetto) - delle due donne protagoniste: la nobile, nata con la camicia ma privata degli elementari diritti reali (ad una vita affettiva liberamente vissuta); e la plebea, che ha dovuto scegliere tra la fame e l’orgia. Dapprima ecco Catarina che, nel tremendo scontro con il marito Angelo che ha deciso di giustiziarla sommariamente (sì, senza processo nè difesa) per il suo supposto (in realtà solo... platonico) adulterio, sciorina un’autentica requisitoria contro la barbarie, l’ipocrisia e la disumanità delle regole su cui si fonda la società del suo tempo. Poi tocca a Tisbe che denuncia a Rodolfo la misera condizione di una donna sfruttata, a cui viene negato il diritto di essere amata, restandole solo la sofferenza e il disprezzo della società. Ecco, due aspetti forti dei personaggi femminili che Boito ignora bellamente, presentandoci una Laura succube e remissiva, del tutto incapace anche di una timida reazione all’estremo sopruso del marito-padrone; e una Gioconda che accetta il suo ruolo subalterno nella società, senza mostrare alcuna presa di coscienza delle cause che lo determinano.

Particolare evidenza ha in Boito la figura dello spione Barnaba, chiaro prototipo di quello straordinario Jago che torreggerà 10 anni più tardi nella penultima fatica di Verdi. Lui è il personaggio che significativamente apre e chiude l’opera, dentro la quale la sua improbabile macchinazione, che coinvolge nientemeno i più alti gradi dell’autorità della Repubblica veneziana, ha un obiettivo tutto sommato limitato e... prosaico (insomma: il classico cannone per sparare ad una mosca): ingropparsi una buona volta l’avvenente cantatrice. E l’opera si chiude con il misero fallimento del suo disegno, mandato in fumo dal suicidio di Gioconda. In Hugo lo spregevole Homodei ha invece un movente assai più serio per le sue complicate macchinazioni: vendicarsi del rifiuto opposto alle sue attenzioni sentimentali da Catarina, che in gioventù gli aveva preferito Rodolfo, prima di essere costretta al matrimonio con Angelo. Liberarsi in un sol colpo della femmina ingrata e del suo amante e ferire l’immagine del Podestà: questo è rimasto l’unico scopo della sua vita. Il suo piano diabolico peraltro naufraga miseramente per opera di Tisbe e lui paga con la vita il prezzo della sua scelleratezza, costretto ad abbandonare la scena abbondantemente prima dell’epilogo, visto che Hugo lo fa ammazzare senza pietà da Rodolfo.  

Il quale, trasformato da Boito in Enzo, ci viene presentato come personaggio senza macchia - l’insincerità e l’ipocrisia del suo rapporto con Gioconda restano in secondo piano - e viene gratificato del consolante (e mica tanto meritato, ammettiamolo) lieto-fine: lui e Laura che... vissero felici e contenti, risparmiando a lui - con il provvidenzialmente tempestivo risveglio di lei - l’onta di ammazzare Gioconda (peraltro colpevole ai suoi occhi solo di... trafugamento di cadavere, nulla più) e il rimorso che ne deriverebbe e distruggerebbe la sua felicità nel ritrovare poi viva l’amata Laura. Cosa che viceversa succede al personaggio di Hugo (che chiude il suo dramma con tutt’altra autorevolezza, verrebbe da dire): prima che Catarina si risvegli, Tisbe viene uccisa da Rodolfo in quanto erroneamente ritenuta diretta corresponsabile, con Angelo, della morte dell’amata; e così i due amanti non potranno certo avere un futuro felice (ammesso di averne uno!)

Gioconda. Per Boito, come detto, è una povera cantante di strada che vive alla giornata senza porsi domande, portando il fardello della madre cieca e sopportando le molestie sessuali dell’infoiato spione Barnaba, senza avere al contempo alcun tipo di rapporto con Alvise. La Tisbe di Hugo è invece una donna le cui vicende ricordano un poco quelle di Marie Duplessis (la Marguerite Gautier di Dumas, poi Violetta verdiana): di umili origini, strappata - quando era una ragazzina mendicante - alla miseria e alla fame e trasformata in puttana-d’alto-bordo (appunto, vittima dell’alternativa fame-orgia) fino a divenire la favorita del Podestà Angelo. Homodei da parte sua non la degna della minima considerazione, pensando solo ad usarla come esca per intrappolare Catarina e Rodolfo. In comune, Gioconda e Tisbe hanno però (proprio come Marguerite/Violetta) il sincero amore per un uomo che in realtà (a differenza di Armand/Alfredo) le inganna, trattandole come semplici diversivi; amore che le spinge (al prezzo della vita!) a cercare altruisticamente di rendere felice l’amato con la donna rivale. Le loro fini sono, come si è visto, diverse, pur avendo molto in comune: Gioconda suicida per non sottomettersi alla libidine di un mostro; Tisbe uccisa dall’unico uomo che aveva disperatamente amato. C’è una differenza non da poco, invece, fra le donne di Boito e Hugo; quest’ultima manifesta anche aspramente (verso Catarina e Rodolfo) la sua gelosia, ma sempre in modo genuino e sincero. Scopriamo invece che Gioconda sa anche essere mentitrice: quando nel second’atto, per averlo tutto per sè, vuol convincere Enzo che Laura è fuggita per il rimorso, e che non lo ama più.    

Da ultimo: la Cieca. Nel dramma di Hugo la madre di Tisbe è morta da tempo (si scoprirà essere stata graziata anni addietro per intercessione di Catarina, da cui la riconoscenza di Tisbe per la moglie del Podestà). Boito invece ne fa un personaggio di primo piano, che condiziona continuamente i comportamenti della figlia (Barnaba cerca di sfruttare ai suoi fini quel forte legame affettivo) e Ponchielli la gratifica di musica di ottima fattura.
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A proposito di musica, si è soliti collocare il compositore cremonese a metà strada fra il romanticismo e il verismo: seguace convinto dell’estetica verdiana, sarà maestro (al Conservatorio di Milano) di Puccini e Mascagni! Quanto a Gioconda, è singolare il giudizio che ne diede Gustav Mahler: dieci anni dopo la prima dell’opera, quando era di stanza a Praga ma in procinto di trasferirsi a Lipsia, il 26enne direttore boemo non esitò a dichiarare (in una lettera al responsabile del suo prossimo impiego) che all’opera di Ponchielli andasse preferita la Dejanice di Catalani. E giammai alla povera Gioconda e al suo autore fu concesso il privilegio e l’onore di essere diretti dal più famoso Kapellmeister di quei tempi. (Nè Catalani ebbe peraltro miglior fortuna, se è per questo...)   

La contemporaneità con le innovative produzioni wagneriane si scorge nell’impiego (limitato ma significativo) di pochi temi ricorrenti: non hanno nulla di paragonabile alle fitte trame architettate dal genio di Lipsia, tuttavia servono assai bene a creare atmosfere e a collegare fra loro diversi momenti del dramma.

In ordine di apparizione, possiamo distinguere il tema del Rosario, esposto quasi subito nel Preludio, che risentiremo nella quinta Scena del primo Atto, dalla voce della Cieca che dona il suo strumento di preghiera a Laura, per ringraziarla della sua intercessione presso Alvise. Subito dopo è l’orchestra a riprenderlo in forma di postludio alla stessa scena. Nel secondo Atto, Scena 7 (quella del drammatico confronto fra Gioconda e Laura) il tema ricompare nei violini dopo che Gioconda ha scorto il rosario nelle mani di Laura, e così decide di salvarla, e subito dopo nei legni, seguendo Laura che si allontana. Ancora nell’Atto terzo, quinta Scena, il tema fa capolino nei legni mentre Gioconda (che ha appena sostituito il veleno con il sonnifero, salvando una seconda volta Laura) fugge disperata, con la consapevolezza di dover definitivamente rinunciare al suo Enzo. Infine ritroviamo il tema nella quinta Scena dell’Atto finale, allorquando Gioconda rivede il rosario al collo di Laura, e benedice lei ed Enzo che stanno per fuggire verso la felicità.

Ecco poi il tema di Barnaba, che insieme a quello del Rosario monopolizza il Preludio. Lo si ritroverà più volte ed esclusivamente in orchestra a sottolineare la presenza e la bieca personalità dello spione. Lo si ode nei celli già all’inizio della seconda Scena, poi lo si ascolta quando la spia incontra per la prima volta Gioconda e la madre, di cui chiude il duetto. Ancora fa capolino all’inizio della settima Scena, quando lo spione detterà a Isepo la lettera di denuncia della tresca Laura-Enzo. Lo ritroviamo poi in archi e fiati nell’ottava Scena dell’Atto secondo, quando Barnaba vede Laura fuggire dal brigantino e il suo piano andare in fumo. L’ultima comparsa del tema avviene nella Scena quinta dell’Atto conclusivo, allorquando Gioconda, salutati con lo strazio nel cuore Enzo e Laura, rammenta il patto con Barnaba, che sta in effetti sopraggiungendo.      

All’entrata di Gioconda e della madre (Scena 2) udiamo in bocca alla Cieca (poi alla figlia e ad entrambe) un motivo (L’amor filiale) che riappare proprio in chiusura dell’Atto primo, quando la Cieca e Gioconda se ne vanno, consolandosi a vicenda. Riudiamo il motivo nei clarinetti all’inizio del quarto Atto, allorquando Gioconda prega i compagni di tornare a Venezia in cerca della madre, di cui ha perso le tracce.

Il tema del Destino compare al termine del primo atto, poco prima di quello dell’Amor filiale, nel canto di Gioconda, schiantata dalla scoperta che Enzo ama un’altra; e nel postludio orchestrale, proprio a chiudere l’atto. Ricompare nella quinta Scena dell’Atto terzo, allorquando Gioconda esterna la sua disperazione, dopo aver compiuto il sacrificio di salvare ancora (col narcotico) la sua rivale per consegnarla all’uomo che lei ama e da cui non è riamata. Lo ascoltiamo, dal clarinetto, nel Preludio dell’Atto quarto, ad anticipare precisamente l’ineluttabilità del destino di Gioconda. Nella seconda Scena dello stesso Atto il tema torna nei legni a sottolineare lo strazio della protagonista, cui le luci e le feste di Venezia in lontananza risvegliano l’irresistibile attrazione per Enzo.


Altri rimandi tematici si ritrovano ovviamente all’interno di singole sezioni dell’opera, la cui struttura è ancora tradizionale, con i classici numeri ad intercalare le scene. Mirabile è l’equilibrio complessivo, ottenuto attraverso una sapiente alternanza fra scene corali - per lo più manifestazioni di allegria e di festa di popolo (siamo in uno dei periodi del Carnevale veneziano) - e i momenti topici del dramma. Parte rilevante hanno anche le coreografie: danze e balli che non sono limitati alla corposa e celeberrima Danza delle Ore che occupa la parte centrale dell’Atto terzo. 

I sei ruoli principali impegnano tutti i gradi della tessitura vocale: soprano (Gioconda); mezzo (Laura); alto (Cieca); tenore (Enzo); baritono (Barnaba) e basso (Alvise). Il coro è al completo, compreso quello di voci bianche. L’orchestra è quasi tardoromantica, con corpose percussioni e nutrita banda interna. Insomma, un dispiegamento di mezzi vocali e strumentali di prim’ordine, che rende sempre impegnativo l’allestimento dell’opera. Le quattro uscite già compiute (Piacenza e Modena) hanno avuto ottimi riscontri di pubblico e critica. Che non dovrebbero mancare alle recite di Reggio.  

26 febbraio, 2018

Un bel Trittico a Reggio E. dopo 10 anni


Nel suo imprescindibile testo su Puccini, Michele Girardi cita un aneddoto (riportato originariamente da Ferruccio Pagni e Guido Marotti nel loro Giacomo Puccini intimo del 1926, poi ristampato nel 1943) che riguarda le curiose circostanze nelle quali sarebbe stato attribuito il nome Trittico ai tre atti unici di Puccini. Dunque, la cosa avvenne in un circolo di pittori (Pagni era uno di loro) di Torre del Lago, dove emersero le proposte più bizzarre, quali treppiede, triangolo, tritono, trinità. Chissà (ma questo lo immagino io) se qualcuno per caso suggerì anche... tricolore

E con ciò? direte voi. Niente, solo che ieri stavo per caso nella città del Tricolore che ha ospitato (al Valli) la prima delle due recite del Trittico pucciniano, tornato colà - passando per Modena e Piacenza e prima di muovere verso Ferrara - a 10 anni di distanza dalla precedente visita. Quella ripresa oggi è la produzione del Teatro modenese del 2007, per la regìa di Cristina Pezzoli.

Credo sia doveroso elogiare subito l’organizzazione di questo tour del Trittico, che comporta evidentemente enormi e molteplici difficoltà (dalla composizione di un cast pletorico, ai relativi problemi economici); difficoltà che da sempre hanno fortemente limitato la messa in scena di questa trilogia, abitualmente spacchettata nelle sue componenti, magari poi abbinate ad altre opere brevi. Al proposito cedo la parola ad un’altra autorità pucciniana, Julian Budden:

Budden fa riferimento all’interpretazione drammaturgica del Trittico di Mosco Carner, con relativo riferimento ai tre cantici della Commedia dantesca:


Budden giustamente osserva come quel parallelo sia assai azzardato (lo stesso spunto per lo Schicchi - l’Inferno - lo smentirebbe per definizione). E quindi l’ostilità di Puccini verso lo smembramento della trilogia (come correttamente ricorda Carner, testimoniando anche la sua personale predilezione per la messinscena unitaria) fu più probabilmente legata a ragioni estetiche che non al supposto riferimento dantesco.

Peraltro non si può escludere che Puccini abbia pensato ad un qualche filo rosso che leghi le tre operine. Come minimo, non v’è dubbio che in tutte sia protagonista, sotto forme pur diversissime, la morte. Violenta e verista nel Tabarro, nobile e trasfigurata nell’Angelica, infine trattata parodisticamente quanto prosaicamente nello Schicchi. Insomma, una trilogia da necrologio!
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Ieri credo che il protervo fratellone russo dell’innocua buriana abbia dissuaso molti dal muoversi da casa: fatto sta che parecchi posti del Valli sono andati deserti... In compenso chi ha assistito ha applaudito anche per gli assenti, ecco.

L’allestimento - di quelli che sarebbero da catalogare nella categoria tradizionali, nel senso che mostrano il soggetto originale e non una sua genialoide contraffazione - mantiene ancor oggi, a 10 anni di distanza, tutta la sua freschezza e gradevolezza, restituendoci con grande efficacia la sostanza di queste tre varianti sul tema del trapasso: quella di un abietto scenario di precarietà e degrado; l’altra, di psicologica soperchieria della società ai danni di una donna colpevole di reato-d’amore; la terza, di somma ipocrisia di chi (eredi legittimi o approfittatori, fa lo stesso) nella morte cerca solo il proprio tornaconto.

Da encomiare la compagnia di canto, ovviamente con alti (Ambrogio Maestri, chi se no) e... diversamente alti (la Svetlana Kasyan, un gran vocione ma di qualità da migliorare assai). Brava la Anna Maria Chiuri (unica presente nelle tre opere) e bravissimi, direi, i due tenori (Rubens Pelizzari nel Tabarro e Matteo Desole nello Schicchi). Tutti e tutte le altre da elogiare in blocco, così come i cori (adulti e... minorenni) di Modena. 

La ORER ha offerto una brillante esecuzione di queste difficili partiture, ben condotta da Aldo Sisillo, preciso e puntuale nella concertazione.
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Allego con l’occasione un bel profilo pucciniano comparso nel luglio del 1990 su Musica&Dossier a firma di Gustavo Marchesi.

06 marzo, 2017

La Wally tosco-emiliana


Ieri pomeriggio la Wally ha salutato Reggio Emilia, dopo aver visitato Piacenza e Modena (in febbraio) e in attesa di recarsi in futuro nella natia Lucca. Purtroppo il Valli presentava uno spettacolo piuttosto desolante: intere file di palchi deserti (ahi ahi...) In compenso l’annunciatore (che ricorda di spegnere i cellulari, etc...) ha invitato tutti ad essere felici! Evabbè, noi ci proviamo. 

Luigi Illica trasse il libretto per Catalani dal romanzo di metà ‘800 Die Geierwally (La Wally dell’avvoltoio) di Wilhelmine von Hillern. Wally è il diminutivo di Walburga Stromminger, una ragazza selvaggia e coraggiosa, il cui appellativo (dell’avvoltoio) le viene da una spericolata impresa – negata persino ai suoi coetanei maschi -  da lei compiuta in giovane età: quando si fece calare, appesa ad una fune, lungo una ripida parete rocciosa per raggiungere il nido di un avvoltoio che infestava la zona e metteva in pericolo le greggi. Nonostante le ferite infertele dagli artigli del volatile, l’intraprendente Wally riuscì a rimuovere il nido e addirittura si portò a casa il pulcino dell’avvoltoio, allevandolo come animale domestico! Ecco perchè nelle raffigurazioni dell’epoca lei compare con l’avvoltoio sulla spalla:


Questi particolari non trovano alcun riscontro nel libretto, che invece riporta abbastanza fedelmente l’impresa di Hagenbach, che da solo ha abbattuto un grosso orso, e che si presenta come l’eroe accanto all’eroina Wally.

Il libretto, come quasi sempre accade, diverge dal romanzo, in particolare nella conclusione: nell’originale Wally e Hagenbach vivono felici e contenti... anche se per poco (moriranno insieme, non viene detto come) mentre l’opera termina con la morte violenta dei due. Anche il personaggio di Afra cambia parecchio: nel romanzo alla fine si scopre che lei è sorellastra di Hagenbach, e che quindi i sospetti di Wally sui tradimenti dell’amato erano infondati. Inoltre, il personaggio di Walter è un’invenzione del librettista. Ecco, bisogna riconoscere ad Illica di aver migliorato assai il soggetto originale!

La struttura drammaturgica dell’opera richiama vagamente quella di Carmen: due atti relativamente leggeri, se non proprio da operetta, con tanto di feste paesane, canti e balli, nei quali però si creano le premesse per il successivo precipitare degli eventi, fino alla tragedia conclusiva. Altra lontana rassomiglianza è quella fra la protagonista Wally e la futura Minnie di Puccini: si tratta di due ragazze piuttosto autoritarie e guarda caso l’ingresso in scena di entrambe avviene giusto in tempo per sedare una rissa fra maschi! Anche qui abbiamo un personaggio en-travesti: Walter, una specie di Cherubino cresciutello.

Musicalmente parlando, l’opera (siamo nel 1892) risente abbastanza dell’esperienza wagneriana: i cosiddetti numeri chiusi vi sono banditi in favore di un continuo svilupparsi delle melodie. Non mancano (ma nemmeno in Wagner!) brani che surrogano arie o ariosi o romanze: la ballata di Walter, il racconto di Hagenbach, la famosissima Ebben? Ne andrò lontana, ancora Schiavo dei tuoi begli occhi di Gellner, i monologhi di Wally del terzo e quart’atto, l’estremo omaggio di Hagenbach, sono pagine che emergono come... picchi alpestri dalla pianura sottostante.  

Nessun impiego strutturato di Leit-motive o surrogati; solo in un paio di circostanze udiamo ricomparire motivi già ascoltati: la cadenza dell’Ebben? Ne andrò lontana, che si riode alla fine del terz’atto, al momento della riconsegna di Hagenbach ad Afra da parte di Wally; e un motivo del walzerino del second’atto che riaffiora nel preludio dell’atto finale.

I personaggi sono assortiti secondo i classici canoni del melodramma ottocentesco: soprano drammatico e tenore eroico nei due ruoli principali; baritono e mezzosoprano come terzi incomodi e/o guastafeste fra i due; bassi nei panni di un genitore burbero e di un vecchio impenitente; un sopranino a incarnare il ruolo del menestrello amoroso.

Certo l‘ispirazione e la vena melodica non sono quelle dei Mascagni o dei Puccini, e forse questo spiega perchè, dopo il successo iniziale, l’opera negli ultimi decenni sia stata assai più rappresentata all’estero e in particolare nei paesi di lingua tedesca che non qui da noi. 

Compagine musicale cosiddetta di provincia: ma mai come in questa circostanza l'attributo potrebbe essere un complimento. A partire dall'Orchestra (ORER) fatta di ottimi professori (per esempio: corni e legni) ma anche ben compatta ed agguerrita nell'insieme; un concertatore di tutto rispetto (Francesco Ivan Ciampa) che interpreta con gusto e senza sbracamenti una partitura solo apparentemente facile, ma piena di raffinatezze timbriche ed armoniche; e il coro del Municipale di Piacenza (Corrado Casati) che sfoggia bella compattezza musicale (oltre a quella fisica da scatola di sardine in cui lo costringe il regista!)

Cast bene assortito, fatto da interpreti già navigati e da altri scesi in acqua da meno tempo. La protagonista Wally (Saioa Hernandez) sfoggia un gran vocione drammatico, forse un po’ artificialmente gonfiato e quindi opaco nei centri ma con acuti staccati con sicurezza; buona anche la sua versatilità espressiva, necessaria per interpretare un personaggio dalla natura così poliedrica come quella della ragazzona esuberante ma anche capace di toccanti accenti lirici e di sentimenti profondi. Dovrà ancora studiare parecchio, ma si vede chiaramente per lei un futuro promettente.

Hagenbach è Zoran Todorovich, anche lui dotato naturalmente di voce di gran spessore e volume, proprio da Heldentenor: voce ancora da mettere sotto controllo e da impiegare con più espressività e varietà di accenti... insomma un futuro (se ben coltivato e programmato) da Siegfried!  

Il navigato Claudio Sgura impersona il complessato Gellner; di lui ripeto ciò che già ho scritto in passato: gran vocione gestito però approssimativamente e con tendenza continua all’eccesso di forzature con perdita di rotondità e morbidezza. Insomma, fin troppo truce e ruvido, il che mette un po’ in ombra il lato più lirico del personaggio.

Apprezzabile il Walter di Serena Gamberoni: voce appropriatamente leggera ma non pigolante, portamento sicuro e grande espressività, emerse già da subito nella romanza di esordio. Qualche vetrosità negli acuti non inficia la sua positiva prestazione.
 

Di buon livello i tre comprimari (che cantano part-time ma hanno parti non proprio secondarie). Stromminger è Giovanni Battista Parodi, voce ben impostata e passante; l’altro basso (Il Pedone di Schnals) è un efficace Mattia Denti, capace di esprimere gli accenti vuoi burloni vuoi severi del vecchio navigato; discreta anche la Afra di Carlotta Vichi, voce ben impostata e rotonda, che emerge anche dal trambusto della festa di Sölden.
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La regìa di Nicola Berloffa è tradizionale (il che per me è sempre un merito: di ambientazioni tipo scuole elementari o comunità di drogati ne abbiamo viste – per soggetti anche assai più importanti - a sufficienza) e quindi siamo in mezzo a gente di montagna (oddio, sui costumi forse i montagnoli avrebbero da ridire, nel senso che solitamente non si va in alta quota con il tacco-12... ma l’alta montagna è forse l’allegoria della solitudine della Wally e allora prendiamola per buona, ecco). Ma insomma sono cose perdonabili (caso mai si sorride un po’ sulla scena del rescue di Hagenbach, proprio da saggio scolastico) e la trama viene fuori abbastanza integra. Scene (di Fabio Cherstich) appropriate, compresa la scatola di sardine del second’atto, dove in 50 mq erano stipati tutti gli interpreti e il coro, una scena più adatta ad un barcone di quelli che purtroppo danno altro tipo di spettacolo nel Mediterraneo... Costumi (Valeria Donata Bettella) come detto, di epoca... boh, novecentesca e luci ben manovrate da Marco Giusti.    

Trovate più o meno gratuite: la Wally dovrebbe irrompere in scena (à la Minnie, come detto) scaraventando a terra Hagenbach per soccorrere il padre: invece qui la vediamo sostituita da Gellner (che forse si esercitava in vista del terz’atto...) mentre osserva da lontano. In compenso, nella scena del recupero di Hagenbach nel burrone, invece di scendere a mani nude nell’abisso, ecco che lei viene imbragata ridicolmente con una funicella e poi calata come un sacco di patate: forse il regista voleva raccontarci ciò che si legge nel romanzo e viene taciuto nel libretto, evabbè.   

A parte tutto, una proposta più che meritoria, purtroppo punita da un’affluenza di pubblico che lascia sempre più depressi.

31 marzo, 2014

La Cambiale onorata a ReggioE.


Il Teatro Valli di ReggioE. ha proposto in questo week-end la rossiniana Cambiale di matrimonio, in un nuovo allestimento già presentato circa un mese fa al Regio di Parma.

Si tratta del primo grande successo nella lunga-breve carriera del sommo pesarese, allora nemmeno 18enne, che gli aprì le porte per i trionfi che arrivarono a ripetizione, sia nel genere farsa-commedia che in quello dell’opera-seria.

Già dalle prime battute dell’Ouverture – composta precedentemente alla farsa, come esercizio di Liceo - si capisce il perché del nomignolo affibbiato a Rossini di tedeschino: un dreimalige Akkord di MIb maggiore che par venire direttamente dalla Zauberflöte:

Ma c’è di più. Si afferma sempre che i primi stilemi musicali autenticamente romantici siano i richiami dei corni con i quali Weber apre le Ouverture del Freischütz e poi dell’Oberon. Beh, Rossini – forse senza nemmeno sapere cosa fosse il romanticismo… - aveva fatto qualcosa di analogo con più di 10 anni di anticipo!


Che la stoffa del Rossini maturo fosse già ben distinguibile in questa opera d’esordio lo constatiamo da un inciso che ritroveremo qualche anno più tardi nel Barbiere (uno dei tanti auto-imprestiti che l’Autore si concederà con gran disinvoltura). Si tratta di un frammento dell’aria di Fanny, che – abbassato di un tono, dal LA al SOL, per trasportarlo dalla voce di soprano a quella di mezzo - ritroveremo nel canto di Rosina:

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Ma tutta la musica della Cambiale mostra una freschezza di ispirazione, una geniale inventiva e una maturità di concezione che lasciano sempre sbalorditi. E il merito di Francesco Ciluffo è di averli fatti emergere al meglio, guidando con sobrietà ed equilibrio l’Orchestra del Conservatorio A. Boito di Parma, fatta di giovani promettenti e affiatatissimi.

Così come bravi, oltre che promettenti, sono stati gli interpreti dell’opera, allievi delle classi di canto dello stesso Conservatorio.

Su tutti i tre bassi: il sir Tobia Mill di Marco Granata (che è anche provetto organista), lo Slook di Hideya Masuhara e il Norton di Adriano Gramigni. Discreto anche Lorenzo Caltagirone  (Edoardo Milfort, nella cui parte ha sostituito all’ultimo momento il suo… sostituto, Yasushi Watanabe).

Un filino sotto le due voci femminili (Nao Yokomae come Fanny e Nozomi Kato come Clarina) vocine magari adatte alle parti, ma dal timbro un tantino metallico e dagli acuti non sempre puliti.

Comunque, applausi a scena aperta per tutti dopo ciascun numero; bravo Riccardo Mascia che al fortepiano ha impreziosito anche i recitativi. Ma in generale, date le circostanze, si è avuta una prova in più del fatto che per gustare della buona musica e del buon canto non c’è proprio bisogno del cosiddetto star-system!
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Naturalmente personaggi e vicenda che costituiscono il soggetto della farsa sono… farseschi: caricature di una certa borghesia neo-ricca quanto ignorante e retriva. Mill è il classico tipo del commerciante import-export della Gran Bretagna imperiale: probabilmente importa seta, spezie e thé dalle colonie orientali per poi rivenderli con enormi margini ai clienti delle colonie… occidentali. E, pur di far affari, non esita a vendere anche la figlia! Certo che anche Slook è un tipo poco coerente, come minimo: prima ordina per posta, a 6000Km di distanza, una moglie, neanche fosse una bambola gonfiabile; poi però si meraviglia che Mill, per rifilargliela, abbia trattato la figlia, appunto, alla stregua di una bambola gonfiabile!

Tutto ciò viene piuttosto edulcorato dalla messinscena di Andrea Cigni (coadiuvato da Dario Gessati per le scene, Valeria Donata Bettella per i costumi e Fiammetta Baldiserri alle luci): un allestimento sicuramente gustoso, ambientato proprio qui nelle terre del parmigiano, del culatello e del lambrusco, posti dove si lavora nella sana economia del primario, non in quella (spesso puramente parassitaria) del cosiddetto terziario…  Così Mill viene quasi nobilitato, vestendo i panni di un laborioso imprenditore lattiero-caseario, che però non si capisce bene perché riceva dal canadese Slook quello strano ordinativo che nulla ha a che vedere con vacche e forme di formaggio! E per di più decida di… onorarlo a spese della figlia.

Ma siamo in una farsa e la plausibilità della vicenda è proprio l’ultima cosa che ci deve interessare. Così diventa divertente anche l’autentico omaggio che, alla fine dello spettacolo, Cigni fa all’ormai antico (ma mai invecchiato!) Rinaldo di Pizzi, qui di casa fin dal remoto 1985, presentandoci i quattro protagonisti appollaiati su imponenti vacche di cartapesta!
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Pieno successo per tutti, con un solo grande rammarico: il Valli semivuoto (a dispetto di prezzi invero popolari) al quale Alessandro Baricco, prima dell’inizio, ha indirizzato alcune interessanti riflessioni sul teatro di 200 anni fa.

17 febbraio, 2014

Troppa Clemenza?


O troppo Renzi? (stra-smile!)

Dopo quella – ultra-stagionata ma sempre giovine - appena passata alla Fenice, si è potuto godere (prima per radio l’11, poi sabato 15 in streaming) di quella, nuovissima nonchè tetesca, di München.

Ieri poi Reggio Emilia ha ospitato la seconda delle due recite dell’ultimo lavoro teatrale del Teofilo (transitato la scorsa settimana anche da Modena) nel fortunato allestimento barese del 2008.


Fra queste due ultime produzioni c’è qualche singolare analogia: in primo luogo la scena, che è praticamente fissa e a forma di emiciclo: quella tedesca (di Jan BosseStéphane Laimè) è in plastica chiara e trasparente, inserita in un contesto di teatro-nel-teatro; quella (in realtà una semicupola rovesciata) di Walter Pagliaro - Luigi Perego è in legno. Entrambe si ripresentano, nel secondo atto, degradate a fronte dell’incendio della fine del primo atto: quella tedesca coperta e annerita da ceneri e fuliggine, quella italiana semi-diroccata e sventrata in più punti.

Costumi vagamente settecenteschi nei due casi, però più sobri per Pagliaro-Perego, fin troppo appariscenti quelli di Bosse-Behr, con parrucche incredibili per Vitellia e Servilia e una tunica bianca da asceta-eremita per Tito. Il tedesco poi nel second’atto, dove quasi tutti i personaggi vanno in crisi, de-traveste Sesto e Annio e così crea due coppie… gay!

Altra analogia riguarda l’approccio registico al soggetto: in entrambi i casi assolutamente (fin troppo?) serioso e rispettoso dell’austerità del libretto, che a noi 3millenari rischia di annoiare o far sorridere. Pagliaro ha cercato di movimentare le scene più statiche, oltre che tagliando un 20% di recitativi secchi, facendo entrare sul palco dei mimi con compiti vagamente didascalici, o aggiungendo qualche tocco di pruderie agli incontri fra Vitellia e Sesto.

Resta il dubbio se produzioni come queste si giustifichino sul piano meramente economico (in questi tempi di vacche magre) e non converrebbe promuovere la musica del Tito (la sola che ne fa un capolavoro) tramite esecuzioni in forma semiscenica, se non proprio puramente di concerto.

Un altro curioso parallelo fra le due produzioni è il sesso del (ehm) corno di bassetto: a Monaco come in Emilia suonato da bravissime rappresentanti, per l’appunto, del gentil sesso (la nostra risponde al nome di Miriam Caldarini).  

Sul piano strettamente musicale, il cast nostrano non ha sfigurato rispetto a quello crucco, con un convincente Paolo Fanale nel ruolo del titolo (il Toby Spence di Monaco era assai poco… imperiale!) e una volitiva Gabriella Sborgi come Sesto. Ma bravi anche gli altri, a partire da Teresa Romano in Vitellia (a dispetto di qualche urletto di troppo) e poi la promettente Ruzan Mantashyan come Servilia e Aurora Faggioli in Annio. Valeriu Caradja è stato un buon Publio, anche nell’atteggiamento moderato e non truce come spesso (Monaco compresa) viene interpretato.

Su un buon standard il Coro di Modena (guidato da Stefano Colò) e convincente l’Orchestra Regionale dell’ER, che Eric Hull ha guidato con sicurezza e gran padronanza della partitura (cosa in cui il blasonatissimo Petrenko non mi pare lo abbia affatto superato, esibendosi anche in qualche gigioneria di troppo).   

Purtroppo c’è un aspetto di fondamentale importanza che ha invece differenziato Monaco da Reggio: lassù il sold-out, qui da noi la metà dei palchi vuota (ahi ahi…)

06 aprile, 2013

Stupro albionico in quel di Reggio E.


Oltre ai due sommi bi-centenari, il 2013 è anche il centenario dalla nascita di Benjamin Britten, e così molti cartelloni ospitano opere del compositore britannico. The rape of Lucretia – nella co-produzione ReggioEmilia-Ravenna-Firenze – dopo aver esordito all’Alighieri transita in questi giorni dal ValliL’orchestra (meglio, il complesso cameristico) è quella del Maggio, la regìa è… reggiana (Daniele Abbado, che riprende, rivedendolo, un suo allestimento ultra-decennale) e il cast è multi-nazionale.

Con l’occasione allego qui una monografia sul Britten teatrale curata da Carlo Maria Cella e apparsa nel numero di maggio-giugno 1993 della rivista Musica&Dossier.

Come meritoriamente puntualizza il libero pensatore Amfortas (a proposito, non vedo l’ora che torni fra noi più… semiserio che mai!) sarebbe ora di finirla con le penose ipocrisie (superate solo da quelle del Berlusconi che si offre per fare un governo nientemeno che con i comunisti!) che traducono rape con ratto, alle quali si potrebbe obiettare che – trattandosi di vicenda coinvolgente parti intime femminili – allora sarebbe più appropriato il termine ratta, aulica versione di topa…
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Ecco, sistemata la ginecologia, qualche considerazione a margine del soggetto, che Ronald Duncan derivò da Le viol de Lucrèce di André Obey, ma che si basa su una vicenda (più o meno) storicamente accertata, trovandosi descritta in Ab Urbe condita libri di Tito Livio, e poi ripresa da Shakespeare nel dramma omonimo.

Lo scenario storico-politico generale è quello dell’assedio che i romani (guidati da quello che sarebbe stato l’ultimo dei sette Re, l’etrusco Tarquinio il Superbo) stavano ponendo nel 509 a.C. alla città di Ardea, che si trova a circa 40 Km a sud-ovest di Roma, sul mare. Ciò si evince dalle fonti storiche o letterarie, mentre il libretto di Duncan parla genericamente di nemici greci, probabilmente riferendosi alle presunte, mitologiche origini greche di Ardea (sappiamo che invece a quei tempi la città era abitata dai Rutuli, di incerta origine, ma sicuramente non greca).

Nella partitura di Bosey&Hawkes (nella pagina di descrizione in tedesco di personaggi e scene) si accenna all’accampamento romano situato al di là del Tevere. Nel libretto si fa anche cenno alle luci di Roma che dall’accampamento si vedono riflettersi nel fiume e poi si descrive l’attraversamento dello stesso da parte di Tarquinio (Sestio, figlio del Superbo e protagonista dell’opera, insomma: lo stupratore di Lucrezia) per raggiungere la città nella notte del misfatto.

Orbene, queste circostanze (che non si trovano assolutamente in Livio, quindi tanto meno in Shakespeare) appaiono in verità assai poco plausibili, proprio per ragioni… geografiche: ai tempi la città di Roma sorgeva quasi interamente ad est del Tevere (che sappiamo va a sfociare ad ovest) quindi il percorso Roma-Ardea, oltre ad essere del tutto divergente rispetto a quello del fiume (rendendo inverosimile che l’accampamento romano fosse nei suoi pressi) non doveva contemplarne di certo alcun attraversamento. Peggio ancora se la destinazione di Tarquinio non fosse stata Roma ma, come scrive Livio, Collazia (la città dove Lucrezia e Collatino avevano la loro dimora) che era situata ancor più ad est di Roma.

Il fiume compare nel libretto di Duncan anche nel second’atto, seconda scena, quando Bianca saluta il sorgere del nuovo giorno ammirando la nebbiolina che si disperde lungo il Tevere argenteo. Ciò a conferma che nell’opera la casa di Lucrezia sia in piena Roma, e non a Collazia (come sappiamo da Livio) da dove il Tevere di certo non si poteva vedere.

Tuttavia diamo atto al librettista (e alla sua fonte diretta) di aver sì falsificato la geografia, oltre che la storia, ma contemporaneamente di aver dato a Britten ottimi spunti per comporre musica mirabile.
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La partitura è del 1946, a guerra appena finita, ed è dedicata ad Erwin Stein, famoso musicologo austriaco, che Britten aveva conosciuto a Vienna nel 1934 e che poi era sfuggito al nazismo rifugiandosi a Londra, dove collaborò con Bosey&Hawkes, la casa editrice musicale che già aveva a contratto le opere del compositore albionico.

L’organico è di piccola orchestra, soltanto 12 strumentisti (più il maestro cui è affidata la parte del pianoforte, che accompagna i recitativi): uno al flauto (più ottavino e flauto contralto); uno all’oboe (più corno inglese); uno al clarinetto in SIb (più clarinetto basso); uno al fagotto; uno al corno in FA; uno alle percussioni (triangolo, frusta, tamburo, timpani, tamburo militare, tamburo tenore, tamburo basso, piatti sospesi e gong); uno all’arpa; cinque agli archi (vl1-2, vla, vc, cb). È un organico da camera che Britten userà, con piccole divergenze, anche in altre due opere successive: la poco eseguita Albert Herring e la famosissima The Turn of the Screw.

La struttura dell’opera è assai semplice e simmetrica: due atti (della durata di circa 50 e 60 minuti) costituiti ciascuno da due macro-scene divise da un interludio e precedute da un’introduzione. Nel primo atto, dopo l’introduzione, la prima scena raffigura l’accampamento dei romani (con le discussioni fra i tre generali sulla fedeltà di mogli e compagne); l’interludio ci racconta del forsennato galoppo notturno di Tarquinio dal campo alla casa di Lucrezia, incluso il guado del Tevere; la seconda scena è all’interno della casa di Lucrezia a Roma, dove troviamo la moglie di Collatino con le due donne che vivono con lei, che ricevono in piena notte l’inaspettata visita del principe etrusco. Nel secondo atto, dopo l’introduzione, siamo dapprima nella camera da letto di Lucrezia, che è la scena dello stupro; segue l’interludio in cui i cori piangono la sorte della donna; e infine restiamo nella stessa casa di Lucrezia, che sarà teatro del tragico epilogo con il suicidio della donna.  

La presenza dei Cori (in realtà solo due voci: un tenore e un soprano) serve a raccontare antefatti storico-antropologici (lo scenario dell’azione piuttosto che le origini della fallace fortuna etrusca) e anche a spiegare ciò che si vede in scena, sostituendosi o sovrapponendosi alle voci dei protagonisti. Ma soprattutto si incarica di trarre dalle vicende una morale cristiana: sì, poiché il coro vive di fatto in mezzo a noi, millenni dopo quel 509 a.C. in cui si svolsero i fatti, e li racconta leggendoli su libri di storia (come il citato Ab Urbe condita) commentandoli però alla luce del messaggio cristiano. Il che ha attirato sull’opera e su Britten qualche critica magari non proprio ingiustificata.

Quanto ai personaggi, sono tre maschi ed altrettante femmine: Tarquinio Sestio, figlio del re il Superbo, Lucio Giunio Bruto (che spodesterà i re etruschi - facendo sollevare contro di loro i romani, proprio a seguito dello stupro - per fondare la Repubblica) e Lucio Tarquinio Collatino, sposo di Lucrezia; la quale Lucrezia è affiancata dalla nutrice Bianca e dall’ancella Lucia.

La figura del cattivone Tarquinio emerge dal libretto e dalla musica assai meno categoricamente collocata nel regno del male di quanto non sia nelle fonti storiche, ed anche in Shakespeare. Lì l’etrusco arriva al livello massimo di abiezione, allorquando ricatta Lucrezia minacciando di ucciderla, dopo lo stupro, e di uccidere quindi un suo servo gettandone poi il cadavere nudo sopra di lei per rovinarle, anche da morta, la reputazione, e salvando la propria presentandosi come il giustiziere di una fedifraga e del suo abietto stallone.

Questo particolare invero disgustoso non è per nulla ripreso nel libretto, dove invece il principe sembra quasi genuinamente apprezzare e lodare le virtù di Lucrezia, allorquando cade nella trappola tesagli da Giunio – geloso non tanto della donna ma di Collatino, che dall’onestà della moglie poteva trarre vantaggi politici su di lui – che ne stuzzica l’orgoglio sostenendo che quella donna è casta solo perché nessuno attenta alla sua virtù. Ben sa, Giunio, che le lodi di Tarquinio a Lucrezia nascondono il suo inconscio desiderio di possedere – finalmente, dopo una moltitudine di puttane, professioniste o dilettanti! – una donna vera, sana, forte, oltre che avvenente, che vive ispirandosi a - e praticando - princìpi di onestà e fedeltà… insomma, un essere quasi introvabile in quel mondo piuttosto depravato, e quindi preda massimamente appetibile.

Ma anche quando Tarquinio penetra nella stanza da letto di Lucrezia e la sveglia con un bacio, cerca dapprima di conquistarla con le antiche e in fin dei conti naturali e persino legittime armi della seduzione, blandendo la donna con frasi poetiche ed ammalianti,  che farebbero cascare qualunque altra ai suoi piedi.

È certo il suo smisurato ego che lo spinge ad immaginare di poter raggiungere l’obiettivo in forza delle sue virili qualità positive, e non in forza della… forza. Ma poi, di fronte alla fermezza e alle resistenze di Lucrezia, nel suo animo di superbo subentra l’inevitabile senso di frustrazione da fallimento e da respingimento, e lo stupro è l’atto estremo e disperato che rimane da compiere ad un uomo irreparabilmente sconfitto, umiliato e distrutto precisamente sul terreno dell’orgoglio e dell’amor proprio.

Qui in Duncan-Britten i cori commentano la scena dello stupro con cristiana compassione, invocando la Vergine perché aiuti l’umanità a ritrovare Dio, anzi le tre distinte persone della Trinità. Ma insuperabile, nel suo lucido, laico e crudo realismo, è il commento di Shakespeare, che coglie in pieno il tragico senso dell’odioso atto, un atto che umilia la vittima e, letteralmente, impoverisce il carnefice:

But she hath lost a dearer thing than life,
And he hath won what he would lose again:
This forced league doth force a further strife;
This momentary joy breeds months of pain;
This hot desire converts to cold disdain:
Pure Chastity is rifled of her store,
And Lust, the thief, far poorer than before.

Quanto a Giunio (che Duncan-Britten accreditano come romano doc, mentre era in realtà etrusco, nipote del Superbo…) qui ci appare come un cinico e ambiguo arrampicatore: geloso di Collatino (per via di Lucrezia) ordisce una trama che gli farà prendere due piccioni con una fava: creare difficoltà per il rivale (mettendone in cattiva luce la moglie) e contemporaneamente avere il pretesto (lo stupro da parte di Tarquinio) per guidare Roma alla sollevazione contro l’etrusco e divenire di tale sollevazione il principale beneficiario.

Il povero Collatino è quello che ci fa la figura più grama, come capita a tutte le persone normali, oneste e con la testa sulle spalle: perchè verrà alla fine tradito persino dalla sua stessa moglie che, pur di attestare pubblicamente e orgogliosamente la sua rettitudine, si toglierà la vita, lasciando lui, che l’aveva già magnanimamente compresa e assolta da ogni colpa, in brache di tela.  
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Della musica si può dire che – se non proprio un capolavoro – è comunque di altissimo pregio e profondità. A partire dal motto di sei pesanti accordi – di durata decrescente - di tutta l’orchestra, che aprono l’opera, sulla triade di DO minore, ma che sono resi atrocemente dissonanti dal REb che si aggiunge in viola, violini, arpa e oboe:


È proprio l’annuncio di una tragedia, e questo motto si ripete, diversamente armonizzato, per altre cinque volte nel corso dell’introduzione, ad intercalare i racconti dei cori, che ci informano della situazione politica di Roma, passata sotto il potere etrusco con Tarquinio il Superbo. Particolarmente cruda la quarta apparizione, caratterizzata dalla presenza di un tritono (DO-SOLb) sul racconto delle malefatte dell’etrusco ai danni della famiglia di Re Servio, di cui Tarquinio sposò due figlie, ammazzando la prima e facendo della seconda la sua complice nel regicidio, che portò all’instaurazione del suo governo del terrore. La quinta apparizione (sul LAb) introduce la chiosa filosofica del coro femminile: È un assioma tra i re usare una minaccia straniera per nascondere il male interno (allude alle guerre inventate da Tarquinio per consolidare il suo potere… nulla di nuovo sotto il sole!)

Altro tema ricorrente è quello esposto nell’introduzione del primo atto, in un Solenne DO maggiore (con venature di minore) da entrambi i cori che ci giustificano la loro presenza: Mentre noi staremo qui come due osservatori tra quella scena e il pubblico presente, guarderemo queste umane passioni e questi anni con occhi che un tempo hanno pianto con le lacrime di Cristo.


Queste stesse identiche parole le riascolteremo nell’introduzione del secondo atto, cantate sulle stesse note, semplicemente trasposte in LA maggiore. Note che ritorneranno proprio all’epilogo, e nuovamente in DO, allorquando i due cori si congederanno così: Da quando Tempo e Vita hanno avuto inizio, il grande amore è sempre stato profanato dal fato o dall’uomo. Ora, con parole stanche e con queste scarne note tentiamo di decorare di canto la tragedia umana.

Meticolosa la cura di Britten nell’evocare suoni di natura: l’arpa che simula i grilli, il contrabbasso a imitare i rospi, nell’afa serotina che opprime l’accampamento romano.

Peculiare il breve motivo con cui viene inizialmente dipinta Lucrezia. È Tarquinio ad esporlo, mostrando un interesse sospetto per la virtuosa moglie di Collatino, allorquando raccoglie l’invito di quest’ultimo a brindare per chiudere il battibecco sorto fra i tre generali riguardo la fedeltà delle donne (la sera precedente alcuni di loro avevano fatto una visita a Roma per sincerarsi del comportamento delle mogli, con risultati invero sconfortanti, Lucrezia esclusa):


La melodia ondeggiante (una specie di gruppetto dilatato) esprime efficacemente la nobiltà e la bellezza austera della figura della donna casta e fedele, ma anche il brivido di concupiscenza che ha invaso l’animo dell’etrusco! 

E qui nasce un motivo che ricorrerà precisamente altre tre volte nell’opera, il cui incipit è inconfondibile: FA-SOLb/RE-SI). Lo si ode ora nel canto del coro maschile, che sottolinea come la gelosia si stia impadronendo dell’anima di Giunio: Oh, my God, with what agility does jealousy jump into a small heart and fit till it fills it, then breaks that heart (Oh mio Dio, con quale agilità la gelosia si tuffa in un piccolo cuore e lo pervade e lo riempie fino a spezzarlo). Qui il motivo, contrappuntato dall’arpa che storpia il tema di Lucrezia, è seguito dall’imprecazione di Giunio sul nome e sul tema della donna. 

Analoga sequenza troviamo verso la fine dell’Interludio del primo atto (un brano davvero straordinario, che accompagna la corsa sfrenata di Tarquinio verso Roma) al momento in cui il principe etrusco, che sta galoppando a briglia sciolta, si trova la strada sbarrata dal Tevere e decide finalmente di guadarlo: Now stallion and rider wake the sleep of water disturbing its cool dream with hot flank and shoulder. Tarquinius knows no fear! He is across! He’s heading here! (Il principe arde di desiderio e quindi osa! Ora stallone e cavaliere destano le acque dormienti, disturbandone i freddi sogni con i fianchi e le spalle palpitanti. Tarquinio non conosce la paura! Ha attraversato il fiume! Si sta dirigendo qui!) È quello stesso motivo che si ripresenta, sovrapponendosi allo sciacquìo dei flutti attraverso i quali cavallo e cavaliere si slanciano, che invece è evocato dal tema di Lucrezia, che ribolle in tutta l’orchestra, prima che il coro maschile invochi drammaticamente il nome della donna:


Tanto agitata e a volte scomposta era la musica nel campo romano, quanto è serena e quasi eterea quella che si ode in casa di Lucrezia, come nell’introduzione della seconda scena, atto primo, affidata all’arpa:


E tale rimane per la prima parte della scena, eccezion fatta per una comprensibile agitazione che subentra allorquando Lucrezia crede di sentire un rumore alla porta… Mirabile il momento della piegatura delle lenzuola, con la voce del coro femminile che la descrive mentre Bianca e Lucia cantano dolci frasi musicali sull’unica sillaba Ah! Infine torna un’atmosfera agitata quando i cori annunciano l’approssimarsi di Tarquinio (il cui passaggio attraverso la città è accompagnato da mute di cani abbaianti e fa svegliare anzitempo i galli!)

L’arrivo di Tarquinio crea peraltro in casa di Lucrezia un disagio solo momentaneo, presto dissipato dall’atteggiamento (apparentemente) innocente del principe che riceve (e restituisce) la buonanotte dalle donne (su una cullante melodia) e poi ne porge una speciale a Lucrezia, sussurrandone il nome sul suo inconfondibile tema:


Anche l’introduzione al second’atto è una specie di lezione di storia, che ci ragguaglia su ragioni e circostanze antropologiche e politiche che portarono gli etruschi a conquistare Roma. Violoncello e clarinetto basso espongono subito un tema cupo, ripreso poi e sviluppato da tutti gli strumenti e seguito da un martellante motivo caratterizzato da una terzina seguita da un inciso giambico.

Il primo tema comparirà poco dopo – sulle parole Now the she-wolf sleeps at night (Ora la lupa dorme di notte) - in bocca a Collatino, Giunio e alle due donne di casa:


Il motivo martellante invece supporterà la parola d’ordine Down with the Etruscans! (Abbasso gli Etruschi!) con cui i romani auspicheranno la fine del potere etrusco su Roma e il ritorno del governo della città ai suoi legittimi abitanti, cosa che avverrà precisamente poco dopo i fatti qui narrati e proprio ad opera dei due generali romani protagonisti del dramma:


La scena dello stupro è introdotta da una cullante melodia (Allegretto comodo, 3/4) che sottolinea il sonno sereno di Lucrezia, descrittoci dal coro femminile, e poi da un brano più mosso e misterioso, dove il coro maschile segue i passi furtivi di Tarquinio che si avvicina alla camera da letto della sua preda, concludendo il suo racconto con un accorato quanto inascoltato Back, Tarquinius! (Indietro, Tarquinio!)

Il quale Tarquinio ora è ai piedi del letto di Lucrezia e lì rimane per un po’, colpito dalla sua innocente bellezza e canta, in un celestiale MI maggiore, tutta la sua stupefatta ammirazione per la donna:


Mirabile l’intervento del coro femminile, che invita Lucrezia a continuare a dormire, mentre l’etrusco si prepara a svegliarla con un bacio. Bacio che lei contraccambia, convinta com’è, nel sonno, di essere fra le braccia del suo Collatino…

Qui subentra, al risveglio della donna, la scena (Allegro agitato) che si concluderà con lo stupro. Essa raggiunge un climax sulle parole di Tarquinio che paragona la furia del proprio sangue ad una piena del Tevere, che ribolle nelle quartine di semicrome degli archi. Al che Lucrezia domanda, enfaticamente: Is this the Prince of Rome?  Al che Tarquinio risponde: Io … sono il tuo Principe!


Tarquinio afferra Lucrezia fra le sue braccia e i cori si intromettono, cercando disperatamente di dissuaderlo dal suo proposito, ma l’inevitabile sta ormai arrivando, quando l’etrusco strappa le lenzuola dal letto e minaccia Lucrezia con la spada. Qui abbiamo una mirabile sospensione dell’azione, realizzata nientemeno che con un coro a cappella, dove Tarquinio, Lucrezia e i due cori sembrano accettare, estasiati quanto impotenti, l’ineluttabile epilogo che sta ormai per compiersi: Guardate come il centauro rampante ascende al cielo e serve il sole con tutto il suo seme di stelle. Ora il grande fiume sotterraneo scorre attraverso Lucrezia e Tarquinio ne è sommerso. 

Il motivo che lo sostiene è la terza apparizione di quello udito già due volte nel primo atto (FA-FA#/RE-SI):


L’Interludio che segue è macroscopicamente suddiviso in due parti: dapprima l’agitatissima evocazione dello stupro (La virtù assalita dal peccato…)  e poi la pietosa (e già ricordata) invocazione dei cori alla misericordia cristiana.

Nella prima parte della seconda scena (il mattino su Roma) incontriamo eteree atmosfere musicali (che Britten aveva già introdotto nel Peter Grimes) che contrastano fortemente con quelle della scena precedente e dell’interludio: il lungo duetto fra Bianca e Lucia, rallegrato ulteriormente dall’arrivo dei fiori in gran quantità, rappresenta uno squarcio di serenità e quasi di beatitudine - portate dalla Natura – che presto lascerà il posto nuovamente allo sconforto e all’agitazione, al momento dell’arrivo di Lucrezia, uscita dalla sua camera.

La quale, dopo aver ordinato di spedire un messaggero a richiamare a casa il marito, esplode in un violento monologo, che culmina nella disperata esternazione incentrata sul proprio nome, cantato precisamente sul motivo esposto nel primo atto dal suo stupratore (qui un semitono più alto):


Ecco poi il lungo lamento della donna, che contempla con amarezza i fiori (solo loro sono casti…) prima di tornare nelle sue stanze.

Dopo l’intermezzo dedicato ai ricordi che Bianca esterna dei tempi della fanciullezza di Lucrezia si arriva alla scena finale del dramma, con il ritorno a casa di Collatino, accompagnato da Giunio, che aveva sospettato tutto fin dalla sera precedente. Efficacissimo il Poco adagio e dolente che sostiene l’amaro incontro dei due sposi, tutto pervaso dal suono mesto del corno inglese, una parte che non sfigura rispetto a quella del Tristan.

Ora abbiamo la confessione di Lucrezia (sì, confessione, perché lei si sente in qualche modo colpevole…) in un’atmosfera greve, illuminata dalla quarta ed ultima apparizione di quel motivo (FA-SOLb/RE-SI) già udito in precedenza, sulle parole Oh, my love, our love was too rare for life to tolerate or fate forbear from soiling. For me this shame, for you this sorrow (Oh, amore mio, il nostro amore era troppo prezioso perché la vita lo tollerasse o il fato gli impedisse di insozzarsi. A me questa vergogna, a te questo dolore).

Dopo il magnanimo perdono di Collatino (propenso a riconoscere alla moglie tutte le attenuanti) ecco il  momento drammatico del suicidio della donna, che pronuncia, dopo essersi piantata un pugnale in petto, le parole della sua liberazione: Ora sarò casta per sempre: solo la morte potrà stuprarmi. Guarda come il mio sangue lascivo lava via la mia vergogna!

L’orchestra ne sottolinea così gli ultimi rantoli:



Ora le voci di Collatino e Giunio cantano insieme, ma concetti diversi: il marito piange la sposa perduta, l’altro generale comincia subito ad approfittare delle circostanze, aizzando i romani contro gli stupratori etruschi.

Si aggiungono poi le voci delle due donne e infine quelle dei cori, a formare un sestetto che piange sulle pene e il dolore che gli uomini si danno per inseguire chimere.

Alla fine sono i cori che traggono la morale cristiana, prima del loro definitivo commiato dal pubblico.  
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Lo spettacolo di ieri sera - in un teatro con molti, davvero troppi posti vuoti – si merita un incondizionato elogio. Praticamente perfetto in tutte le sue componenti, a cominciare dall’allestimento di Abbado, dove l’austerità di scene e costumi si coniuga perfettamente con il sapiente impiego di luci (tutto di Gianni Carluccio) e con le immagini di Luca Scarzella.

I due cori interagiscono anche fisicamente con l’azione, e ciò è fatto sempre in modo appropriato e nel pieno rispetto del testo. I movimenti dei personaggi sono sempre misurati, proprio da tragedia greca, ed assecondano alla perfezione lo spirito, oltre che la lettera, della partitura.

Le otto voci sono tutte da lodare, a partire dalla Lucretia di Kirstin Chavez, vero contralto di grande potenza ed espressività; per continuare con Gordon Gietz che ha cantato assai efficacemente la parte del Coro maschile. Un filino debole, a tratti, la voce di Susannah Glanville (Coro femminile); bravissime le due donne di casa, in particolare Gabriella Sborgi (Bianca) mentre Laura Catrani (Lucia) ha forse ecceduto in qualche forzatura, sulle note alte. Anche i tre maschi mi son parsi all’altezza, in particolare il Tarquinius di Jacques Imbrailo; ma Joshua Bloom (Collatinus) e Philip Smith (Junius) non hanno affatto demeritato.

Gli strumentisti (in pratica le prime parti, guidate da Yehezkel Yerushalmi) del Maggio (erano 13 anziché 12, avendo separato, e posto ai due estremi della buca, la parte dei timpani dal resto delle percussioni) hanno confermato il loro altissimo livello, dovendo in pratica suonare tutte parti solistiche.      

Jonathan Webb (che ha anche accompagnato al pianoforte i recitativi) ha diretto da par suo e con grande sensibilità questa difficile partitura, di cui ha saputo rendere con precisione e cura ogni singolo dettaglio.

Alla fine grandi manifestazioni di consenso da parte del pur ristretto pubblico (pochi ma buoni, vien da dire…). Personalmente consiglio gli appassionati di approfittare della recita di domenica 7 a Reggio e di quelle prossime a Firenze per godersi uno spettacolo davvero eccellente.