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02 settembre, 2024

Chung e gli olandesi a Rimini.

La serie dei Concerti Sinfonici della 75ma Sagra Musicale Malatestiana è stata aperta ieri sera, nella monumentale cornice del Teatro Galli, dalla prestigiosa Concertgebouworkest diretta da Myung-whun Chung.

Ad aprire il programma è stata eseguita l’Ouverture del Freischütz di Carl Maria vonWeber, un’opera che deve essere assai cara al Maestro coreano, che ne diresse l’ultima apparizione alla Scala, nell’ottobre del 2017.

Si tratta di una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, incentrato sulla lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nell’arcano scenario della natura, a sua volta splendente, maestosa oppure oscura e minacciosa.

Inizia con un cupo motivo in DO (prima dalla tonica, poi dalla dominante) caratterizzato da ottave ascendenti e successiva discesa, che apre la strada alla seducente melodia in DO maggiore dei quattro corni, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne. Essa si chiude però in modo minore, su un sinistro tremolo degli archi, con rintocchi di timpano e di contrabbassi in pizzicato, che annunciano la presenza rabbrividente di Samiel, il demonio rappresentante (non cantante!) del male.

Compare quindi un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto.

Dopo che i corni hanno fatto risentire i loro squilli, modulando dal DO minore, che aveva occupato la scena, alla relativa MIb maggiore, ecco che, su un tremolo degli archi, è il clarinetto che presenta un dolce motivo, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce il tema che rappresenta il bene, impersonato dalla pia Agathe, e la sua nobile aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max.

Ma ecco tornare il DO minore, con il truce motivo di Caspar, poi ricomparire Agathe, ora in SOL maggiore, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora al DO minore dei motivi di Max e Caspar, e poi ancora alla sinistra presenza di Samiel.

Dopo un drammatico, interminabile silenzio, una colossale esplosione di DO maggiore dà inizio alla coda, che è ovviamente occupata dal motivo di Agathe, adesso in forma enfatica e trionfale, poi ancora ripreso a chiudere in gloria.

Strepitosa invero, e accolta da un uragano di applausi, l’esecuzione dei tulipani, che Chung ha guidato con il suo proverbiale (apparentemente distaccato) atteggiamento ascetico.

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Avrebbe dovuto toccare ad András Schiff di sedersi alla tastiera per interpretare quello che è comunemente ritenuto il più difficile dei cinque concerti beethoveniani: l’Op.58, in SOL maggiore. Purtroppo, il pianista ungherese ha dovuto dare forfait per improvvisa indisposizione, e così il suo posto è stato preso da un conterraneo del Direttore, il trentenne Seong-Jin Cho, vincitore nel 2015 del più prestigioso concorso pianistico del pianeta, quello intitolato a Chopin

E lui non ha mancato di dare la sua impronta fin dalle cinque battute con le quali si apre – nel silenzio generale – questo autentico capolavoro.

Per poi farsi un pisolino mentre l’orchestra suona da sola (per 68 battute!) i temi principali dell’esposizione.

Da qui però il simpatico quanto riservato Seong ha avuto modo di inebriarci con il suo tocco delizioso, facendo sgorgare dallo strumento mirabili cascatelle di note, culminate nella massacrante cadenza dell’iniziale Allegro moderato. Quasi espressionista la resa del centrale Andante con moto, e nuovamente liquido il conclusivo Rondò, che Chung ha accompagnato evitando eccessiva enfasi.   

Gran trionfo per lui, che ringrazia suonando, anzi sognando, un (Kinder) Schumann!

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Chiusura davvero in bellezza con Brahms e la sua ultima Sinfonia, l’Op. 90. Che Chung cesella da par suo, coniugando la severità del burbero amburghese con il suo confuciano distacco.

Ovazioni per il Maestro e per tutta la splendida Orchestra, che ci mandano a nanna (…) con un altro Brahms: la prima Danza magiara! 


02 ottobre, 2020

laVerdi 20-21. Concerto n°2

Sempre Flor sul podio dell’Auditorium per questo terzo appuntamento (secondo in abbonamento) del primo trimestre dell’anno scolastico della stagione concertistica 20-21.

Concerto dedicato alla memoria di Alfonso Ajello,

prestigioso Notaio in Milano (ma di origini partenopee) e soprattutto socio fondatore e già vicepresidente della Fondazione, scomparso prematuramente lo scorso aprile.

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Uno dei moschettieri dell’Orchestra, l’estroverso Fausto Ghiazza, torna ad interpretare da solista (è come minimo la quinta volta che lo fa, ormai da quasi 20 anni!) il celeberrimo Concerto per clarinetto di Mozartuno dei brani prediletti proprio dal compianto Ajello.

Ben coadiuvato da Flor e dai colleghi, Ghiazza ci sciorina un’esecuzione coi fiocchi, senza la minima sbavatura, un Mozart leggero e trasparente che trascina il pubblico all’entusiasmo. Lui ricambia con un bis senza dedica, ma scommetto - stante la scelta fatta - che abbia pensato al suo ammiratore che l‘applaudiva da lassù... 

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Chiude la serata la poco eseguita Prima Sinfonia di Carl Maria vonWeber. É luogo comune ricordare la quasi contemporaneità di questo lavoro con l’Eroica beethoveniana, per metterne impietosamente in risalto la distanza siderale: tanto innovativa e dirompente è l’Op.55 del genio di Bonn, quanto ancora acerba e settecentesca (Mozart e Haydn vi si sentono chiaramente) è questa sinfonietta nella quale si intravede appena e con fatica ciò che Weber saprà invece esprimere (ma anni e anni più tardi, e soprattutto nel teatro) in fatto di rivoluzione romantica.  

L’Autore medesimo confessava che le bizzarrie formali da lui introdotte (soprattutto nel primo movimento) finivano per far somigliare la sinfonia ad una fantasia; e non è un caso che, dopo aver subito composto la seconda, Weber abbia definitivamente abbandonato il genere per dedicarsi al teatro e caso mai a quello strumento che gli era stato negato (dal suo... padrone) proprio per le due sinfonie: il clarinetto!

Flor ne ha comunque messo in risalto le qualità, sottolineando i diversi passaggi solistici (corno, flauto, cello, ma soprattutto l’oboe - ieri suonato da Emiliano Greci) e il risultato è tutto sommato da elogiare, cosa che il pubblico - pur distanziato - non ha mancato di fare. 


17 agosto, 2020

Epopea del Gruppetto

Cazzeggiando in attesa della seconda ondata (con tutti questi gruppi e gruppazzi in giro le avvisaglie lasciano ben sperare...) di che parliamo? Di Beatles, Rolling Stones, Litfiba, ...?

Beh, sempre di musica si tratta, ma in tutt’altra accezione. Il gruppetto qui considerato è quella figura musicale impiegata originariamente come abbellimento, costituita di norma da una quartina di note (non esplicitamente scritta, ma rappresentata da un segno) che si interpone fra due note della melodia, con un andamento sinusoidale ed occupando una parte del tempo di fatto rubata ad altre note della battuta.

Le due principali forme sono la diritta (o diretta) dove la quartina parte dalla nota superiore a quella che precede il segno (quindi prima scende e poi risale); e la rovesciata, dove la quartina parte dalla nota inferiore a quella che precede (quindi prima sale e poi ridiscende).

Ecco un paio di esempi presi da Beethoven e Wagner.

Gruppetto diritto: Romanza per violino in FA maggiore, Op.40

Gruppetto rovesciato: Rienzi, atto V, Du stärktest mich, du gabst mir hohe Kraft (è anche il tema fondamentale dell’Ouverture)

Ecco però come il gruppetto si evolve nel tempo, abbandonando il semplice segno per assumere i caratteri (e ritagliarsi il tempo!) delle altre note della melodia. Sempre Beethoven e Wagner:

Ex-Gruppetto diritto: Quinto concerto per pianoforte, Op.73

Ex-Gruppetto rovesciato: Götterdämmerung, Prologo, risveglio di Brünnhilde

Ecco un ulteriore, celebre esempio (Weber) di scrittura esplicita in sostituzione di un possibile impiego del gruppetto rovesciato: Der Freischütz, atto II, Süss entzückt entgegen him (è anche il tema fondamentale dell’Ouverture)

Ma è con Mahler che il piccolo segno di abbellimento acquisisce ulteriore articolazione, nell’intima struttura e nell’enfatica nobiltà:

Terza Sinfonia, finale

Come si nota, nel secondo caso la quartina è cresciuta a quintina... Cosa che si ripete più tardi:

Ottava Sinfonia, scena finale del Faust

E, a proposito di quintine, anche Bruckner non vuole esser da meno: ecco come presenta un enfatico Höhepunkt nel terzo tempo della sua monumentale Ottava:

Tornando a Mahler, nel Finale della Nona Sinfonia abbiamo un ulteriore esempio di gruppetto diritto esploso nelle quattro note:

É poi l’estrema perorazione dei quattro corni a suggellare grandiosamente l’epopea del nostro minuscolo segno:

21 settembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°1


Il Direttore Residente de laVerdi, Jader Bignamini, è chiamato ad inaugurare la stagione in abbonamento 2018-2019 con un programma di impaginazione quasi-tradizionale: Ouverture, Concerto solistico e (in luogo della classica Sinfonia) due Poemi sinfonici in qualche modo fra loro imparentati.

Dal punto di vista storico-geografico, andiamo dall’800 tedesco - primo romanticismo di Weber e pieno romanticismo di Schumann - al ‘900 italiano inoltrato - il tardo- (o decrepito-) romanticismo di Finzi e Respighi.

Ma a proposito di Finzi, proprio nel settembre di 80 anni fa il regime fascista emanava le famigerate leggi razziali, che rovinarono l’esistenza anche al compostore milanese, di famiglia ebrea. La ricorrenza viene celebrata in Auditorium con una mostra di documenti dell’epoca, patrocinata dalla Fondazione CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e inaugurata ieri pomeriggio, prima del concerto, dal Presidente de laVerdi, Gianni Cervetti. All’evento sono anche intervenuti il figlio di Finzi, Bruno (che con la famiglia si adopera per divulgare la conoscenza dell’opera del padre) e la Senatrice a vita Liliana Segre, che ha sottolineato la necessità di non dimenticare, un tema che costituisce il suo principale impegno all’interno del Parlamento.
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Si parte quindi con l’Ouverture dal Freischütz di Carl Maria von Weber, che torna a risuonare in Auditorium dopo più di 6 anni (allora sul podio la Xian): questa volta il pacchetto dei corni non mostra una sola sbavatura nell’attacco e poi tutta l’Orchestra risponde assai bene alle sollecitazioni del Direttore, meritandosi convinti applausi.
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Si passa poi al Concerto per violoncello di Schumann, interpretato dal persico-austriaco Kian Soltani. Un concerto ostico, difficile da suonare e (per noi ascoltatori) magari anche da digerire, ma questo 26enne che pare ancora un ragazzino lo ha sciorinato con perizia tecnica pari alla profondità di espressione. Perfetto l’affiatamento con Bignamini e massimo rispetto per la partitura, testimoniato dall’esecuzione dell’originale cadenza accompagnata.

Trionfo per lui, che ci regala il suo ormai abituale encore, una danza del fuoco persiana che ha composto lui stesso.
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Per la parte italiana del concerto anche la dislocazione dell’orchestra cambia: i violoncelli, prima relegati dietro le viole in omaggio alla tradizione crucca, tornano baldanzosamente al proscenio. La sei buccine (flicorni, per Respighi) si sistemano ai due lati della galleria dell’Auditorium (come fanno le trombe per il Tuba mirum verdiano, ecco...)

Nunquam di Aldo Finzi (sottotitolato Sinfonia Romana) è in realtà un breve poema sinfonico, che si rifà abbastanza scopertamente allo Strauss di fine ‘800 (il Don Juan in particolare). Pezzo che qualcuno potrebbe bollare di anacronismo (siamo nel 1937!) ma che mostra la grande perizia dell’ancora misconosciuto musicista nel trattamento dell’orchestra.

Per questa prima esecuzione da parte de laVerdi (che già 8 anni orsono ci aveva presentato un altro poema sinfonico di Finzi, L’Infinito) Bignamini deve aver curato ogni dettaglio e il risultato si è visto, anzi... sentito!
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Ha chiuso in bellezza il concerto I pini di Roma, che Bignamini diresse per la prima volta nel 2012 in occasione della tournée dell’Orchestra a Mosca e SanPietroburgo, e che avevamo ascoltato qui un paio d’anni fa da Ceccherini. Inutile dire dell’accoglienza trionfale riservata a Direttore e Orchestra dopo l’irrompere in Roma, dalla via Appia, dei legionari romani, scortati dal martellante accompagnamento delle buccine.

Ecco, un’apertura di stagione che promette bene!

18 ottobre, 2017

Chung esalta Weber alla Scala


Der Freischütz è arrivato ieri alla sua terza delle otto recite alla Scala, dove è tornato dopo quasi 20 anni di latitanza. Myung-Whun Chung, lo dico subito, è l’autentico artefice del successo di questa produzione.

Come per tutti i Singspiel (dal Ratto al Flauto, al Fidelio, e giù fino alla prima Carmen) anche qui nasce il problema di quanto parlato conservare, rispetto a quanto convenga buttare nel cestino. Mi pare che la scelta di questa produzione sia sostanzialmente equilibrata, conservando ciò che è assolutamente essenziale per la comprensione della vicenda, ed eliminando il superfluo. Al proposito è condivisibile la scelta (non è un’invenzione) di Chung riguardo l’inizio del terz’atto. Weber, forse con l’intenzione di creare uno stacco dopo l’infernale Wolfsschlucht che chiude l’atto secondo, ha previsto un’Entre Act brillante che anticipa quasi letteralmente lo Jägerchor che più tardi precederà il finale. Introduzione che è seguita da un lungo parlato, dove un paio di cacciatori si scambiano banali battute di carattere meteorologico (e queste per davvero sarebbero insopportabili) ma dove poi Caspar e Max discutono animatamente sulla distribuzione fra loro e l’impiego delle sette pallottole magiche fuse la notte precedente. Questa parte del dialogo è di fondamentale importanza per comprendere poi ciò che avverrà nel finale (la schioppettata di Max verso la bianca colomba che invece il diavolo Samiel indirizza a colpire Agathe, anzi... Caspar). Bene, Chung elimina l’Entre Act e l’intero parlato che segue, attaccando l’atto con la sublime melodia del violoncello solo che introduce la cavatina di Agathe. Quindi, per rimettere le cose a posto sul piano della comprensibiltà della vicenda successiva, piazza il breve incontro fra Caspar e Max subito prima dello Jägerchor.

La direzione del Maestro coreano è assolutamente di prima classe: forse, mi verrebbe da dire, fin troppo raffinata ed elegante anche in quei non pochi momenti in cui Weber – credo intenzionalmente – carica la musica (e i cori) di accenti piuttosto sbracati e colmi di rozzezza contadina. Ma in compenso il nitore e la trasparenza del suono sono precisamente da incorniciare!

Il Coro di Casoni, appunto, dà ancora una volta una prova della sua compattezza e del suo affiatamento, creando in modo brillante ed efficace sia le atmosfere villerecce che caratterizzano la vicenda, sia quelle da tregenda che accompagnano la spaventevole scena alla Gola del lupo.

Compagnia di canto bene assortita. Su tutti la Agathe di Julia Kleiter, davvero emozionante nelle sue due prove più impegnative: l’aria del second’atto e la cavatina che apre il terzo, lungamente applaudite. Con lei il convincente Caspar di Günther Groissböck, voce corposa e penetrante, perfettamente attagliata al sinistro personaggio.

Michael König è un dignitoso Max, a cui manca forse qualche decibel per meritare l’eccellenza. La voce è bella, squillante (la parte peraltro non mi pare proibitiva) ma appunto fatica a riempire il grande spazio scaligero. Sul suo piano metterei la Äennchen di Eva Liebau, le cui due fatiche solistiche (arietta del second’atto e romanza-aria del terzo) sono state superate onorevolmente, e quindi apprezzate dal pubblico.

Gli altri quattro comprimari (la cui presenza canora in scena è abbastanza sporadica) hanno pure ben meritato. Farei una menzione per Stephen Milling, imponente ed autorevole Eremita.

Alla fine il pubblico non oceanico ha riservato meritati applausi a tutti quanti.
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L’allestimento di Matthias Hartmann è improntato al minimalismo della scenografia (di Raimund Orfeo Voigt) accompagnato dalla bizzarrìa dei costumi della coppia Susanne Bisovsky e Josef Gerger. Efficaci le luci (a parte i profilati di neon, davvero ridicoli) di Marco Filibeck.

Un misto di kitsch e goliardia che ci può anche stare, data la natura del soggetto, che per la verità potrebbe prestarsi anche ad interpretazioni più profonde o magari intellettualoidi.

In definitiva, un ritorno alla Scala (almeno per quanto mi riguarda) assai gradito. 

10 ottobre, 2017

I tiratori tornano alla Scala


Alla Scala torna dopo quasi 20 anni di assenza Der Freischütz, unanimemente riconosciuta come il prototipo dell’opera romantica, tedesca ma non solo.

La prima apparizione dell’opera alla Scala risale al 1872 (50 anni dopo l’esordio tedesco) con il titolo Il franco cacciatore e con la traduzione dall’originale di Friedrich Kind fatta da Arrigo Boito (si noti l’esotico Freyschütz, di moda nell’800 e non solo in Italia):


Il titolo italiano non fu però farina del sacco di Boito, ma si trova già nella traduzione di Francesco Guidi (1843, Pergola di Firenze). Intanto: perchè franco? Escluso che vada inteso etnicamente, come francese, o francone (chè la vicenda si svolge in Boemia); ma neanche come schietto, o sincero (Max non pare proprio un tipo così irreprensibile). Si potrebbe allora interpretare come bravo, preciso, ma il nostro non sembra proprio tale, se deve ricorrere alla magìa per diventarlo. In realtà, se ci basiamo sul finale dell’opera, oltre che sulla traduzione letterale dal tedesco (dove frei sta per libero, ma viene usato nell’ambiente commerciale a significare franco-domicilio, porto-franco, etc.) il protagonista è franco nel senso di affrancato (sfuggito infatti all’esilio che gli aveva comminato il Principe). C’è poi chi – partendo dall’indizio delle pallottole magiche, frutto di diavoleria - azzarda che frei sia da interpretare come stregato, allucinato.

Poi: cacciatore non è certo la traduzione letterale di Schütz, che sta per tiratore (di doppietta) termine letteralmente più aderente al soggetto dell’opera, che tratta - più che di battute di caccia – di gare di tiro. Però da noi cacciatore è anche un termine militaresco, che denomina corpi di fanteria leggera esperti nel tiro, come ad esempio i bersaglieri...

E al proposito: il citato Francesco Guidi aveva precisamente tradotto il titolo come Il franco bersagliere (fantastico qui l’italianizzato De Weber: perchè non... Del Tessitore?):

 
E chissà se il Guidi, oltre ad impiegare un termine come da dizionario, abbia anche voluto rendere omaggio al corpo militare, formatosi proprio pochi anni prima.
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Quanto alla forma, l’opera è un classico Singspiel, con numeri musicali alternati a parlati, tipo Serraglio o Flauto o Fidelio, ecco. E quindi si ripropone il solito dilemma: quanto tagliare di ciò che non suona? Staremo a sentire (a proposito: Radio3 trasmette in diretta venerdi 13).

Sappiamo che Wagner fu un ammiratore entusiasta di Weber e in particolare del Freischütz, nei quali vedeva precisamente il creatore e la creazione di un teatro musicale autenticamente Deutsch... Tale fu la devozione che nel 1844 andò in Albione a riesumare le spoglie del Maestro morto lassù 18 anni prima, onde trasferirle in patria e dar loro una seconda, trionfale sepoltura! E gli rese poi omaggio improntando l’entrata del coro femminile della Wartburg nel Tannhäuser al Vivace con fuoco dell’aria di Agathe del second’atto.

Wagner è sinonimo di Leit-Motive e Weber ne fu certamente un pioniere, in specie con Euryanthe. Qui nel Freischütz c’è invece un piccolo ma significativo esempio di impiego reiterato di un motivo, poco più di un segno, di una traccia, quasi un’impronta che ricompare in momenti e contesti diversi e con diversi accenti: un piccolo tema con variazioni nascosto fra le pieghe di questo capolavoro.

Parto dalla coda, cioè dal terzo atto, e da quella celestiale aria di Agathe Und ob die Wolke sie verhülle, introdotta e poi accompagnata dalla calda melodia del violoncello. Ecco qui:

Le note riquadrate in rosso coprono un intervallo di nona (da dominante a sesta) con ricaduta sulla dominante: una cellula di una bellezza davvero sbudellante. E riappaiono più volte, nello strumento e nella voce, nel corso della cavatina.

Andando a ritroso al primo atto, ecco che ritroviamo quelle cinque note (tonalità a parte) a costituire l’incipit del 
Walzer, n°3, come certificato di seguito:

Certo, mentre con Agathe eravamo in un sognante adagio, qui manca ogni indicazione agogica, così il walzer può essere attaccato con diverso piglio: abbastanza letargico per essere abbordabile da due solerti bambinette allieve di pianoforte nel Baden-Württemberg; oppure come un comodo Ländler dal compaesano Rafael Kubelik; o anche come una rincorsa di bersaglieri (toh!) dietro un indiavolato Carlos Kleiber! Sentiremo poi Chung...

Ma non finisce qui, perchè, con tempo ancora più lesto (Molto vivace) quella cellula era apparsa ancor prima, proprio alla fine del primo coro Victoria, Victoria! (qui Sinopoli a 59”):



Sì, va bene, qui la terzina iniziale è sull’arpeggio di dominante e non di tonica... ma di fatto è la stessa cellula (che appena dopo viene precisamente replicata) degli altri due riferimenti. 

Un discorso a parte merita l’Ouverture, che è una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, la lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nello scenario della natura, a sua volta splendente o minacciosa. Seguiamola dalla bacchetta del grande Giulini (che diresse l’opera alla Scala nel lontano 1955) qui con la New Philharmonia nel 1970.

Inizia con un cupo motivo in DO (prima dalla tonica, poi dalla dominante) caratterizzato da ottave ascendenti e successiva discesa, che apre la strada (1’04”) alla seducente melodia dei corni, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne. La mirabile melodia si chiude però (2’39”) in DO minore, su un sinistro tremolo degli archi, con rintocchi di timpano e di contrabbassi in pizzicato, che annunciano la presenza rabbrividente di Samiel, il demonio rappresentante (non cantante!) del male.

A 3’39” compare quindi un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita (4’09”) dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto.

Dopo che (4’48”) i corni hanno fatto risentire i loro squilli, modulando da DO minore alla relativa MIb maggiore, ecco che, su un tremolo degli archi (4’55”) è il clarinetto che presenta un dolce motivo, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce (5’33”) il tema che rappresenta il bene, impersonato da Agathe, e la sua aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max.

Ma ecco tornare (6’02”) il truce motivo di Caspar, poi (6’57”) ricomparire Agathe, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora ai motivi di Max (7’38”) e Caspar (7’55”) e poi (8’19”) ancora alla sinistra presenza di Samiel.

A 915 una colossale esplosione di DO maggiore dà inizio alla coda, che è ovviamente occupata (936) dal motivo di Agathe, ripreso ancora (1011) a chiudere in gloria.
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A parte queste spigolature, si tratta di un’opera che non ha perso la sua carica di vitalità e il fascino che continua ad esercitare sull’ascoltatore. Grazie - a dispetto di un libretto non entusiasmante - alla bellezza e all’ispirazione delle melodie (le arie di Agathe da sole meritano un monumento) che la percorrono da cima a fondo, agli squarci altamente drammatici che la caratterizzano (la gola del lupo...), alla grandiosità dei cori e alla lussureggiante orchestrazione (la scelta dei timbri, in particolare) ancor oggi esempio e riferimento assoluti.

Insomma, la grande musica c’è, quindi ci sono tutte le premesse per potersi godere anche un dignitoso spettacolo.

08 giugno, 2012

Orchestraverdi – concerto n°36


Corposo il programma del terz’ultimo concerto della stagione de laVerdi, in un Auditorium non proprio affollatissimo. E dal palinsesto ultra-classico: Ouverture, Concerto solista e Sinfonia; e tutto nel segno dell’ottocento, classico e romantico.

Difficile pensare a qualcosa di più romantico, nel senso proprio del termine, del weberiano Freischütz, la cui Ouverture apre la serata.
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È una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, la lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nello scenario della natura, a sua volta splendente o minacciosa.

È la melodia dei corni, da battuta 10, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne:


Poi ascoltiamo un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto:

   
Su un tremolo degli archi, adesso è il clarinetto che presenta un dolce motivo, in MIb, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce il tema che rappresenta il bene, impersonato da Agathe, e la sua aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max:



Tornano il truce motivo di Caspar, poi ricompare Agathe, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora ai motivi di Max e Caspar, prima della coda finale, che è ovviamente occupata dal motivo di Agathe, a chiudere nel glorioso DO maggiore.
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Trascinante l’esecuzione di Xian dell’Orchestra, a dispetto del non impeccabile esordio dei corni.


Il bravissimo Roberto Cominati (che ha recentemente inciso l’integrale pianistico di Ravel!) torna all’Auditorium, dove è quasi di casa, per proporci un autentico monumento della classicità su tastiera: il Quarto di Beethoven.

Di cui dà una lettura, appunto, classica, senza sconfinare il romanticherie fuori-luogo. Qualche piccola sbavatura nell’iniziale Allegro moderato nulla toglie al valore della sua esecuzione, ben sostenuta da Xian, che toglie le briglie all’orchestra giusto nei momenti più caldi del finale Rondo. Rimarchevole la resa delle atmosfere quasi impressioniste dell’Andante con moto.

Gran trionfo per Cominati, che ci regala un focoso bis con DeFalla.


In chiusura, un classico dell’epoca romantica, Johannes Brahms, con la sua Quarta.
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Il cui tema principale (con cui la sinfonia si apre) è abilmente costruito manipolando due semplicissime serie di terze (maggiori e minori). La prima discendente per due ottave dalla dominante: SI-SOL-MI-DO-LA-FA#-RE#-SI, in cui Brahms inserisce due rivolti, MI-DO e RE#-SI, ottenendo una melodia, per così dire, a dente-di-sega (diagonale-verticale-diagonale-verticale) che torna al SI di partenza. La seconda ascendente: MI-SOL-SI-RE-FA-LA-DO, in cui il MI e il RE sono raddoppiati e rivoltati un’ottava sotto, ottenendo un altro dente-di-sega (verticale-diagonale-verticale-diagonale):

Insomma, un esempio di come una melodia che suona come ispirata si possa ottenere con semplici interventi su una serie di suoni banalotta e di per sé abbastanza priva di attrattive.  

Poi viene l’Andante moderato, che si articola su due motivi; il primo è quello piuttosto crepuscolare, esposto inizialmente dai corni, col supporto degli strumentini:


Il secondo, più avanti, affidato inizialmente ai violoncelli, davvero brahmsiano fino all’osso:

Il terzo movimento, Allegro giocoso, è di fatto uno scherzo senza trio. In questo, che fu l’ultimo movimento di sinfonia composto da Brahms, entra anche – per la prima e ultima volta in tutta la sua produzione sinfonica - il triangolo.

L’incipit della ciaccona che chiude la sinfonia (e che Brahms aveva già fatto balenare verso la fine dell’Allegro giocoso) è ispirato da quello che conclude la bachiana Cantata Nach dir Herr verlanget mich (BWV150) e precisamente da quello del basso (fagotto e continuo):


Dalla melodia principale (Meine Tage in den Leiden) Brahms prende spunto per lo sviluppo delle innumerevoli variazioni di cui è ricco questo ultimo movimento. In una delle quali, prima del conclusivo Più allegro, ricompare ciclicamente la prima sezione (ampliata) del tema che aveva aperto l’opera, con una sequenza di terze discendenti, che qui ha la seguente struttura: MI-DO-LA-FA#-RE#-SI-SOL-MI-DO-LA-FA#-RE#... con il dente della sega ottenuto rivoltando il SOL e innalzandolo di un’altra ottava:

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Esecuzione che mi permetto di definire straordinaria. Xian tiene tempi praticamente perfetti; nell’iniziale Allegro chiede agli archi l’attacco delle frasi quasi con timidezza, impercettibilmente ritardati; e gli strumentini da parte loro fanno mirabilie. Nell’Andante corni e violoncelli meritano la lode. Splendida la compattezza di tutte le sezioni nell’Allegro giocoso e grandiosa la perorazione della conclusiva passacaglia. Davvero una prova maiuscola, che si merita ovazioni a non finire.


Il penultimo appuntamento (ma dal punto di vista concertistico sarà l’ultimo, poi… Chénier!) vedrà ancora sul podio Zhang Xian con una full-immersion di Ciajkovski.