XIV

da prevosto a leone
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16 novembre, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.7

Finalmente Emmanuel Tjeknavorian arriva sul podio dell'Auditorium da Direttore Musicale! Dopo aver diretto (15 settembre scorso) il Concerto inaugurale alla Scala, si cimenta oggi con un programma di impaginazione tradizionale.

Pubblico foltissimo e con nutrita rappresentanza di teen-agers, il che fa sempre bene al morale, ecco!

Concerto aperto da un brevissimo, ma notissimo, brano di Hector Berlioz, la Marche hongroise, nota anche come Marcia di Rákóczi, valoroso nobile magiaro che capeggiò, all’inizio del 1700, i moti di ribellione contro gli Asburgo.

La storia della composizione è abbastanza bizzarra, come lo stesso Autore ebbe a ricordare assai coloritamente nelle sue Mémoirs (secondo volume, Terza lettera a Humbert Ferrand). Vi troviamo un riferimento dettagliatissimo a questo brano: esso viene composto in un battibaleno a Vienna, nel febbraio del 1846, alla vigilia della partenza per la tappa ungherese del tour del compositore nei territori dell’Impero asburgico.

Dunque, arrivato dopo incredibili peripezie (esondazioni del Danubio, avventuroso viaggio in carrozza e rischi di annegamento) nella capitale magiara (Pest, ai tempi non ancora gemellata con Buda...) il compositore ha in programma un concerto al locale Teatro, e non gli par vero di infilarci, come bis di chiusura (fa sempre le cose in grande, il nostro!) la sua freschissima trascrizione del motivo musicale più popolare laggiù (come poteva essere in Francia la Marsigliese…) 

Alla vigilia però emergono serie preoccupazioni: il timore che l’iniziativa possa essere fraintesa e contestata dal pubblico perché accusata di lesa-maestà… Il caporedattore di un influente giornale di Pest si fa consegnare la partitura e ne trae un giudizio non proprio lusinghiero, criticando in particolare l’assenza di passaggi in fortissimo, come si attenderebbe il pubblico ungherese, patriottico come pochi.

Berlioz non si perde d’animo, rinforza l’orchestrina del Teatro con strumentisti della Filarmonica e chiude il concerto con la Rákóczi. Miracolo! La marcia ha un successo di portata storica, il pubblico va addirittura in delirio, la interrompe più volte con manifestazioni di giubilo, in un fracasso da stadio! Berlioz deve ripeterla e alla fine viene letteralmente portato in trionfo, promosso sul campo eroe nazionale. Persino un vecchio e malandato patriota corre ad abbracciarlo, lodando la Francia e i suoi sentimenti rivoluzionari!

E non per nulla la Rácóczy, ricordo di una sua grandiosa impresa, venne poi infilata da Berlioz alla fine della Prima Parte de La damnation de Faust, appositamente ri-ambientata in Ungheria!

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Il vulcanico Tjek la dirige con piglio davvero garibaldino, meritandosi applausi calorosi. L’unico appunto che mi sento di fare non ha nulla di musicale, ma di… logistico: quando il concerto è aperto da un breve brano orchestrale seguito da uno con il pianoforte, di norma la tastiera è già messa in posizione, con il coperchio ovviamente abbassato, così da evitare un intervallo supplementare. Purtroppo, ieri ciò non è avvenuto (sono certo che si poteva trovare comunque il modo di non sacrificare due violini e due celli). 

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Un poco più che ragazzino (22 anni) che però è già affermatissimo in giro per il mondo, il viennese (come Tjeknavorian, con il quale fa regolarmente coppia anche in concerti cameristici) Kiron Atom Telian, si siede alla tastiera per suonarci un altro celebre brano, il Primo Concerto di Chopin.

La sua è stata una prestazione davvero stupefacente: dopo aver pazientemente atteso che l’Orchestra sciorinasse i temi dell’Allegro maestoso, lui ha attaccato lo strumento quasi con ferocia, scolpendone mirabilmente le prime due battute; poi è stato tutto un crescendo di passione e ispirazione. Nella centrale Romance ci ha dato una lezione di puro rubato chopiniano, portandoci come in un sogno metafisico. Nel Rondo finale poi ha tirato fuori tutta la sua tecnica trascendentale, sempre ben assecondato dall’Orchestra, che il Tjek ha gestito con discrezione, scatenandola solo nei tutti dove la tastiera tace.

Grande entusiasmo per questa coppia cinquantenne (28+22) di musicisti e in particolare per il mingherlino Kiron, che non ci ha lasciato senza un bis, e già che c’era ne ha fatti due, completandoci così una salutare indigestione di Chopin: Studio oceanico e Mazurka in SI minore! 

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La serata si è chiusa nel nome di Brahms-il-progressivo. Così ebbe a definirlo un compositore – Arnold Schönberg - che dai primi anni del ‘900 aveva, a detta di tutti, preso strade letteralmente agli antipodi di quelle percorse dall’ottocentesco, burbero amburghese.

Nel 1935 Schönberg, di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita, forse per prendersi un po’ di… vacanze dai suoi viaggi musicali piuttosto, ehm, faticosi… si divertì ad orchestrare il Primo Quartetto con pianoforte di Brahms.

Togliendo di mezzo, per prima cosa, proprio il pianoforte!

A parte gli scherzi, la scelta di Schönberg ha un senso ben preciso, proprio relativamente all’attributo di progressista da lui affibbiato a Brahms. Poiché il Quartetto in questione è un’opera nella quale un Brahms ancora giovane (28 anni) introduce elementi di grande modernità e innovazioni al limite del… consentito, quanto a rispetto delle forme codificate.

Così nel primo movimento la forma-sonata è interpretata con libertà al limite della dissacrazione: tre temi, ardite concatenazioni tonali, sezioni assai poco equilibrate (esposizione pletorica, sviluppo e coda finale limitati quasi al solo primo tema…); l’Intermezzo è una specie di Scherzo-con-Trio, dove il da-capo dello Scherzo viene seguito da una reminiscenza del Trio per concludere il movimento; nell’Andante con moto, dopo le dolci melodie che lo aprono e lo chiuderanno, ecco un’imprevedibile irruzione di un motivo in ritmo puntato, dal piglio maschio e militaresco; e anche lo scatenato Rondo finale è di struttura assai eterodossa.

E poi, Brahms comincia qui ad impiegare quella che diventerà una caratteristica peculiare delle sue composizioni: la perenne rielaborazione di micro-strutture sonore, sottoposte ad una specie di continua variazione, per creare figurazioni nuove ma allo stesso tempo richiamanti quelle originali: insomma, un continuo sviluppo!

Schönberg non cambia una sola nota di Brahms, ma si permette invece di intervenire su agogica e dinamica, oltre ovviamente (avendo a disposizione un’intera compagine tardoromantica) a distribuire alle diverse sezioni dell’orchestra le frasi musicali e l’accompagnamento in modo assai libero.

In questa fulminante presentazione dell’originale e della sua… copia il Direttore e violinista Joshua Weilerstein arriva a definire il risultato ottenuto da Schönberg come la Sinfonia n°0 di Brahms! E in effetti anche chi ha dimestichezza con il Quartetto fatica quasi a riconoscerlo, in questa lussureggiante veste di cui lo ricopre l’orchestratore!

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Il Tjek ha tutta la partitura in testa e l’ha diretta con il suo gesto signorile (proprio viennese verrebbe da dire…) trascinando l’Orchestra, evidentemente sempre più in sintonia con lui, ad una prestazione davvero maiuscola, accolta da ripetute chiamate con battimani ritmati. E venerdi prossino il nostro torna con un programma che più romantico non si può!

03 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. 14

Tutto romantico il contenuto del 14° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, diretto (graditissimo ritorno, questo) da Oleg Caetani.

Si comincia con Chopin e il suo Primo Concerto per pianoforte e orchestra (in realtà il secondo in ordine cronologico di composizione) suonato – al posto del titolare Alexander Godjiev - da un altro dei giovanissimi (22 anni) fenomeni del concertismo di oggi, Elia Cecino (ecco come il ragazzino lo interpretava un anno fa al Teatro Malibran di Venezia con l’Orchestra della Fenice diretta da Frizza).

Il Concerto è francamente piuttosto... pretenzioso, ecco: basti pensare che il solista deve starsene lì a girarsi i pollici per ben più di 4 minuti (tanto dura l’introduzione orchestrale, che in realtà presenta nella loro completezza i temi che verranno poi suonati dal pianoforte!) prima di… entrare in partita. E poi quell’iniziale Allegro maestoso è davvero un movimento prolisso e ipertrofico (circa 20 minuti!)   

Certo, poi Chopin sapeva proporre temi e melodie accattivanti… che percorrono il Concerto da cima a fondo... E il fantastico Elia ce le ha proposte in maniera davvero trascendentale: non parlo solo e tanto della tecnica sopraffina (che già non è poco…) ma della sensibilità interpretativa, che testimonia grande attenzione e scavo della partitura, nella scelta delle dinamiche e dei proverbiali rubati.

Per lui un gran trionfo, ricambiato non con uno, ma con due encore: lo Chopin della Mazurka Op.24 (la stessa del bis del citato concerto alla Fenice) e questo Shostakovich.
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Ecco poi la poco eseguita Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia für Frauenchor und Orchester di Franz Liszt.

Nel foyer dell’Auditorium è esposta parte della collezione privata di edizioni storiche della Commedia, di proprietà del Presidente Emerito Gianni Cervetti. Vi sono esposti 7 esemplari, che spaziano su più di 4 secoli, dal 1491 al 1921. Ad ammirarli c’era anche il venerabile Quirino Principe, presente al concerto.

Caetani, che fatica sempre di più a camminare ma sul podio è ancora un leone, ha introdotto l’opera ricordando una sua indiretta relazione con l’Autore: il suo trisnonno Michelangelo Caetani conobbe a Roma Liszt (che era là durante gli Anni di pellegrinaggio) ed ebbe, con il figlio Onorato, una lunga relazione di amicizia con il compositore!  

Liszt era praticamente allergico alla musica-pura, per lui i suoni dovevano essere necessariamente associati alle reazioni emotive dell’animo umano di fronte a qualsivoglia oggetto o fenomeno o concetto. Così gran parte della sua produzione (pianistica e orchestrale) è ispirata a oggetti, luoghi da lui visitati, opere letterarie, personaggi storici o mitologici e via discorrendo. Fanno forse eccezione i due Concerti per pianoforte, che non hanno né sottotitoli, né programmi esterni appiccicati.

Liszt era stato attratto da Dante fin dal 1848 e aveva composto, prima della Sinfonia, una Dante-sonata poi ripresa in altre opere con diversi titoli (es.: Anni di pellegrinaggio). Come la Sinfonia-Faust, anche la Dante altro non è se non un poema sinfonica con struttura che rimanda alla sinfonia. La Dante fu composta negli anni 1855-56 e l’Autore la dedicò a colui che pochi anni dopo diventerà suo genero, per tramite di Cosima. Con Wagner Liszt aveva già un sodalizio artistico, culminato nella coraggiosa decisione (1850) dell’allora Kapellmeister di Weimar di mettere in scena l’ultima opera dell’esule, colà rifugiatosi provvisoriamente – sulla strada per Zurigo - perchè inseguito da un mandato di cattura da Dresda come complice nella rivoluzione del 48-49: il Lohengrin.

Erano tempi in cui Wagner, lasciato Siegfried a riposarsi dalle fatiche della vittoria sul drago Fafner, si stava dedicando anima (e corpo !?) alla conquista della bella Mathilde, che gli dava ispirazione e carica adrenalinica per costruire quel po’-po’ di monumento chiamato Tristan. E proprio Wagner si permise di cercar di dissuadere Liszt dal musicare Dante (il Paradiso, soprattutto) impresa da lui giudicata tanto velleitaria quanto disperata.

Ma Liszt. che quanto ad autostima e velleitarismo non era secondo a nessuno, non si fermò di fronte a nulla e portò a termine l’ardua impresa, limitandosi modestamente e per rispetto divino a non musicare come Paradiso un ultimo movimento della sua Sinfonia a programma, ma appendendo al Purgatorio un Magnificat con coro femminile. Poi, non contento, preparò anche 22 battute di un secondo finale (Halleluja) da eseguirsi - ma non lo fa nessuno - ad-libitum 

Il movimento iniziale (Inferno) ha una struttura lontanamente parente della forma-sonata; ma presenta tratti che lo apparentano alla fantasia. La tonalità prevalente è RE minore, ma con innumerevoli divagazioni e modulazioni.

Si apre in tempo Lento con un tema introduttivo, reiterato tre volte, sulle cui ricorrenze Liszt ha scritto in calce i tre versi danteschi: Per me si va nella città dolente; per me si va nell’eterno dolore e per me si va tra la perduta gente! Poi compare uno stentoreo motivo che farà da motto ricorrente sulle cui note leggiamo invece: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate!

[Lodevole al proposito l’idea di proiettare sui due schermi ai lati del palco quei versi, proprio in corrispondenza dell’esecuzione delle note sotto le quali Liszt li vergò sul suo manoscritto. Un modo intelligente per spiegare la relazione fra suoni e parole anche a chi non ha sottomano la partitura.]

Adesso stiamo scendendo giù nei gironi infernali, da dove arrivano sordi rumori e lamenti: sono i movimenti convulsi dei condannati, che prima arrivano da lontano e poi sono sempre più pesanti e vicini. Il vento infernale, con successive folate sempre più forti ci accompagna nella discesa finchè il motto, sempre più protervo, fra turbini di vento, ci ricorda che lì non c’è proprio scampo alcuno.

E scampo non ci fu e non ci sarà per qualcuno che ora incontriamo, in un’atmosfera fattasi improvvisamente più rarefatta (arpa e pianoforte). Il clarinetto prima e poi il corno inglese ci svelano l’identità dei personaggi che ci stanno di fronte: la partitura reca i versi Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria. Sì, sono precisamente Paolo e Francesca.

Ecco quindi che un accorato tema in Andante amoroso si dispiega nobilmente, con successive volute e passando alle diverse sezioni dell’orchestra, fino a spegnersi su una lunga coda chiusa, indovinate? dal motto che nega ogni speranza! E infatti, dopo una marziale, sommessa introduzione di timpani, fagotti e corno, in partitura leggiamo un’indicazione perentoria di Liszt: ciò che segue deve suonare come un blasfemo e irridente sghignazzo! Ed è infatti un crescendo tumultuoso quello che ora ascoltiamo, riportandoci… all’inferno di quel luogo.

Ci avviamo ora all’uscita, accolti sulla soglia - c’era da aspettarselo - dal protervo sigillo del motto!  

Usciti dagli inferi, eccoci ai piedi del monte Purgatorio. Liszt interpreta il secondo cantico dantesco come un lento ma sicuro viaggio verso la totale redenzione dai peccati dell’Uomo, un lungo e faticoso, ma nobile, preludio all’accesso al trascendente.

Si suddivide in tre parti: 1. l’uscita dall’Inferno e il ritrovarsi nella Natura; 2. Il percorso lungo le diverse cornici del Purgatorio; 3. La visione del Paradiso (Magnificat). Le due sezioni esterne presentano musica serena ed estatica, mentre quella centrale è caratterizzata dall’evocazione delle difficoltà e dei sacrifici che i confinati in Purgatorio devono affrontare per meritarsi il Paradiso.

La prima sezione del movimento evoca il respirare nuovamente a pieni polmoni, ammirando l’eterno spettacolo della Natura. È un motivo che si innalza sereno e sognante, esposto dagli strumentini due volte, dapprima in RE e poi in MIb maggiore.      

Ma ora ci si deve incamminare lungo l’ardua scalata del Purgatorio, se vogliamo arrivare al… Paradiso. Ecco quindi che tutta la lunga sezione centrale del movimento è caratterizzata da motivi che evocano: fatica, dolore, privazioni, al fine di espiare i peccati e guadagnare il premio più alto. Non a caso ritroviamo, camuffati ma riconoscibili, anche motivi che vengono dall’Inferno, poiché rappresentano peccati che – se pur non irrimediabili – devono essere dolorosamente riconosciuti per poter ambire al perdono divino. Sono atmosfere che ritroveremo più avanti anche nel Parsifal, che per certi aspetti è debitore di questa musica.

Un solenne passaggio dal chiaro sapore Berlioz-iano ci preannuncia l’arrivo sulla sommità del monte, nel Paradiso terrestre, dove il maestoso e beatificante Magnificat (in SI maggiore) ci fa intravedere… l’Indescrivibile.

E, per il Magnificat, Caetani ha deciso di impiegare (appropriatamente, direi) in aggiunta al Coro femminile (I Giovani di Milano), anche il Coro di voci bianche, diretti entrambi da Maria Teresa Tramontin. [Anziché starsene fuori scena, come prescritto da Liszt, il Coro ha cantato dalla balconata dell’Auditorium, ottenendo un mirabile effetto di suoni che arrivano dal… Paradiso.]

Un’esecuzione davvero con i fiocchi, accolta trionfalmente, che certo ha contribuito a far conoscere al pubblico quest’opera un po’ reietta, ma che merita – pur non potendosi definire un capolavoro – di trovare il suo posto nei repertori delle grandi orchestre.

29 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°9


Il nono appuntamento della stagione principale vede il ritorno in Auditorium di un direttore e un solista che già vi hanno messo piede in passato: l’uzbeko Aziz Shokhakimov e il russo-italico Boris Petrushansky. Per offrirci un interessante programma romantico, di un romanticismo che però si estende dall’800 alla metà del ‘900.

Si comincia con il Primo Concerto uscito dalla penna del compositore più rappresentativo (almeno in campo pianistico) del romanticismo ottocentesco, Fryderyk Chopin. Parlare di capolavoro per questo... lavoro sarebbe eccessivo, personalmente lo colloco fra le cose interessanti e soprattutto godibili. Come quelli di Schumann, per dire, o di Grieg, ecco.

Solista e direttore sembrano assai ben affiatati (fecero già coppia qui anche tre anni fa, allora per Rachmaninov): Petrushansky con la tastiera ci va in guanti di velluto, e non solo nella Romanza, mentre Shokhakimov con l’orchestra non risparmia i decibel, ma questo contrasto ci sta assai bene. Il pubblico è da pochi-ma-buoni ed apprezza molto, così il canuto Boris ci regala un altro Chopin, quello del celeberrimo Walzer op.64-2.
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Secondo e ultimo brano in programma una Suite dal balletto in tre atti Zolushka (Cenerentola per gli amici...) di Sergei Prokofiev. Composto durante la guerra, su commissione del Kirov di Leningrado e presentato a fine 1945, il balletto marca un vero e proprio ritorno di Prokofiev al romanticismo in stile-Ciajkovski: sia per combattere con ottimismo i dolori e le miserie del conflitto, sia (chissà) per accattivarsi un establishment che ogni tanto gli faceva (come gli farà ben presto, ahilui) brutti scherzi... I tre atti ripercorrono la leggenda di Perrault (originata a sua volta da antichissime leggende egiziane). Dai 50 numeri del balletto Prokofiev ricavò, ancora durante la composizione, tre estratti per pianoforte (3, 10, 6 pezzi) e poi, nel 1946, tre diverse Suites (di 8, 7, 8 numeri) la prima della quale viene eseguita in questo concerto.

Come spesso accade in casi come questi - e come è abbastanza logico che sia, a pensarci bene, visto che si tratta di musica da eseguirsi senza la danza - la sequenza dei brani della Suite non rispetta rigorosamente quella della trama del balletto. Data la natura del soggetto, è musica accattivante, anche se piuttosto... datata: il confronto con Romeo&Giulietta è al proposito piuttosto impari. Tuttavia ciò non ha impedito al balletto di avere (anche tuttora) un buon successo di pubblico.

Successo che non è mancato ieri: per il Direttore, che con gli anni sembra mettere... la testa a posto; e ovviamente per l’Orchestra, davvero impeccabile nel domare questa partitura per nulla facile.

25 settembre, 2019

Cartoline illustrate


Saluti da Valldemossa...




11 marzo, 2017

2017 con laVerdi – 11


Il bravissimo Stanislav Kochanovsky torna gradito ospite sul podio de laVerdi per dirigere un concerto dall’impaginazione abbastanza inusuale: un romantico che di più non si potrebbe e un... romantico piuttosto particolare. La Fondazione si unisce al generale compianto per la scomparsa del venerabile Alberto Zedda, ricordando una sua lontana (1999) collaborazione, che ebbe come oggetto la rossiniana Adelaide.   

Il 27enne moscovita Philipp Kopachevsky (che fa pure rima – ma anche coppia! - con Kochanovsky...) è uno degli astri nascenti (anzi, ormai abbondantemente in orbita!) del pianismo internazionale; qui ci propone una pietra miliare del concertismo romantico, il Primo di Chopin

Come mostrano anche le registrazioni pubblicate su Youtube, è già da qualce anno che i due russi si esibiscono in questo concerto, ed anche ieri sera hanno confermato alla grande il loro affiatamento, sciorinando una maiuscola prestazione. Il solista poi sembra aver interiorizzato al meglio lo spirito chopiniano (e non solo per l’impiego del rubato...) che pervade anche i due bis generosamente concessi.
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Béla Bartók è un romantico, non solo nella formazione musicale (Liszt su tutti) ma anche nella ricerca delle radici della musica popolare della sua gente, e persino nell’affrontare le sofferenze che la vita gli ha procurato (abbandono della patria, difficoltà economiche, malattie).

E proprio il Concerto per Orchestra (1942-43) è una delle ultime composizioni di un Bartók ridotto piuttosto male (morirà pochi mesi dopo la prima esecuzione con la Boston di Koussevitzky) ma dalla quale non traspare per nulla la precarietà delle condizioni materiali e psicologiche del compositore, anzi ci si ritrova una grande vitalità e un incrollabile ottimismo.

La struttura in 5 movimenti richiama di lontano le Suite o i Concertini barocchi, dove gli strumenti dell’orchestra assumono di volta in volta il ruolo di veri e propri solisti. Così accade per l’arpa, già nell’Introduzione, poi alle 5 coppie di fiati dell’Allegretto scherzando; quindi all’ottavino (Elegia) e persino all’esecutore ai timpani, che nell’Intermezzo interrotto deve suonare un passaggio che copre l’intera scala cromatica (SOL-DO-FA-SIb-MIb-LAb-DO-FA-MIb-REb-MI-RE#-SOL#-LA-RE-SOL) agendo in tempo reale sui pedali di accordatura.

Impeccabile l’esecuzione, accolta con calore, se non proprio con entusiasmo, da un pubblico abbastanza folto, a dispetto del programma che non è fra i più attraenti.

31 ottobre, 2012

Abbado ritorna a casa… accompagnato


Dopo più di due anni dalla mancata Seconda, il divino Claudio si è finalmente presentato sul palco del Piermarini per offrirci la Sesta di Mahler. Chissà se nel frattempo Milano si è ricoperta di una foresta d'alberi (così, a prima vista, sembrerebbero cresciuti di più i pilastri di calcestruzzo…) In ogni caso il pubblico ha dimenticato forfait e platani e gli ha riservato l'accoglienza che obiettivamente si merita: trionfale. Purtroppo gli è mancato l'applauso e l'abbraccio della sorella Luciana, scomparsa proprio due giorni fa.

Prima di Mahler abbiamo avuto l'ultimo successore di Abbado alla guida dei Musikanten scaligeri che si è cimentato nella sua originaria specialità, il pianoforte, eseguendo il Primo Concerto di Chopin. Ora, se Chopin è sinonimo di rubato, allora Barenboim ha fatto… la rapina del secolo (stra-smile!) Poi ha pure fatto un discorsetto per spiegare la mancanza di un… bis!

Ma torniamo ora al clou della serata e a Mahler: intanto, sul fronte della scelta interpretativa Abbado ha optato per la collocazione dell'Andante prima dello Scherzo, approccio che ultimamente pare essere una sua costante (diverso da quello delle prime esecuzioni di qualche lustro addietro…) e che sembrerebbe guidato dalla volontà di spogliare l'opera dalle troppe incrostazioni extra-musicali, rimettendola su un solido binario estetico più vicino al classicismo (o magari all'espressionismo…) che al tardo-romanticismo.
 
La sua è una direzione asciutta, quasi ieratica, scevra da facili gigionerie (anche dove la partitura potrebbe facilmente indurre il Direttore in… tentazione) che tende precisamente a fare emergere ciò che di assoluto (musicalmente ed esteticamente parlando) Mahler ha incorporato in quest'opera.

Il risultato è stato di alto livello, anche se l'ipertrofia dei mezzi (gli archi, massimamente – ho contato 16 contrabbassi e altrettanti violoncelli – mentre fiati e percussioni erano, triangoli a parte, nelle prescrizioni mahleriane o poco più) non mi pare abbia portato un proporzionale innalzamento della qualità del suono. Evidentemente Abbado, unendo le forze della sua Orchestra Mozart - in cui peraltro suonano fior di prime parti di fama internazionale - a quelle della Filarmonica da lui fondata 30 anni orsono, ha inteso dare all'evento un ulteriore carattere, come dire, celebrativo: festeggiando il ritorno in Scala con la sua prima e la sua più recente creatura. Con un equilibrio migliore mi aveva personalmente colpito, nella stessa sala del Piermarini, la prestazione di Harding con la LSO.

Comunque la festa non è certo mancata: pochi (troppo pochi!) attimi dopo il LA pizzicato degli archi, a chiudere la Tragica, sulla triade di LA minore delle trombe e sull'ultimo sommesso colpo di grancassa, un grazie maestro! piovuto dalla seconda galleria ha purtroppo rotto l'incantesimo, dando di fatto inizio al quinto movimento della sinfonia, suonato dalle sole percussioni: le mani degli spettatori e i piedi dei musicisti. Un movimento durato almeno quanto l'Andante, con il quale il suo pubblico ha voluto salutare e ringraziare un Maestro che a Milano ha davvero lasciato il segno.