XIV

da prevosto a leone
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01 aprile, 2019

La Manon italiana


Ieri sera al Piermarini è andata in scena la prima di Manon Lescaut, che Riccardo Chailly ci ha proposto nella stesura originale del 1893 (Torino). Fra altre di scarsa entità, le differenze principali rispetto alle versioni successive riguardano la chiusura dell’atto primo e - in misura minore - l’aria finale di Manon.

Sulla prima mi sono già dilungato nel precedente post e non posso che confermare - all’ascolto dal vivo - come Puccini (con Illica) avesse avuto mille buone ragioni per buttare nel cestino questo finale originario, rimpiazzandolo con quello che (attenzione!) mai più verrà rimesso in discussione. Ergo, si è proposta al pubblico una Skoda-ante-caduta-del-muro al posto di una venuta dopo. Evabbè, siamo in tempi di ristrettezze e austerità, che ci vogliamo fare...

La seconda novità riguarda Sola... perduta, abbandonata. L’aria fu da Puccini continuamente rimaneggiata, fin quasi sul letto di morte... (e nel 1909 addirittura cassata del tutto per essere subito ripristinata). Qui l’originale si differenzia dalla versione tradizionalmente eseguita per alcune ripetizioni di versi e battute al centro dell’aria e poi per un breve postludio strumentale, per dar tempo a Des Grieux di tornare da Manon dopo la sua infruttuosa esplorazione: credo che pochi riescano ad avvertire al volo queste differenze.

Insomma, tutta l’enfasi data a questa proposta filologica del Direttore mi pare un filino fuori luogo, e morta lì.
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A parte le sue discutibili iniziative, Chailly ha mostrato ancora una volta di padroneggiare come pochi questo Puccini sinfonico, che da buon seguace wagneriano impiega l’orchestra proprio come fosse un personaggio dell’opera. La sua è una direzione secca, nervosa, dove non si risparmiano esplosioni di fortissimo (come da partitura) affiancate da momenti (vedi ovviamente il second’atto) di raffinata e leziosa souplesse. E l’Orchestra ha risposto assai bene, impiegando al meglio la pucciniana tavolozza dei colori.

Sempre apprezzabile il Coro di Bruno Casoni, che ha una parte non proibitiva (ma in compenso si è dovuto studiare la caotica scena finale del primo atto).

Quanto alle voci, bene la Maria José Siri, voce corposa e dal timbro caldo e morbido anche negli acuti, cui fa difetto qualche decibel nei centri e gravi. Ma tutto sommato al soprano uruguagio va la palma del migliore-in-campo.  

Marcelo Álvarez è stato (per me) un più che discreto Des Grieux, salvo qualche incertezza iniziale, ma per il resto sfoggiando buona proiezione di voce e acuti squillanti. Fatico francamente a comprendere le contestazioni di cui è stato fatto segno alla fine.

Su livelli apprezzabili le prestazioni del Lescaut di Massimo Cavalletti e del Geronte di Carlo Lepore, che accomuno con il bravissimo Marco Ciaponi (Edmondo) in un elogio senza riserve.

Alla fine, tranne i buh un po’ troppo severi (secondo me) per Álvarez (e qualcuno isolato anche per il Direttore) applausi per tutti.
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Ma in fatto di buh, chi ne è stato subissato è David Pountney con il suo team di regìa (Leslie Travers alle scene, Marie-Jeanne Lecca ai costumi e Fabrice Kebour alle luci, più Denni Sayers per le coreografie, del second’atto, per lo più). Team già protagonista meno di un anno fa di una Francesca da Rimini non proprio esaltante.

Beh, devo dire che a me la messinscena non è per nulla dispiaciuta. Per spiegarci l’inafferrabile personalità di Manon il regista ce la mostra da subito (ben prima quindi del suo arrivo) abbigliata in modo pacchiano e sdraiata su un carretto americano (dove morirà quattro atti più tardi). Quindi impiega delle controfigure per evocare un’immagine di Manon tutta pudicizia e innocenza (abbigliamento da educanda): Des Grieux, al primo incontro, si rivolge ad una delle controfigure e lei sembra cantare (ma è la Siri ovviamente a farlo) Manon Lescaut mi chiamo... Insomma, da un lato la ragazzina innocente e timida, dall’altro una donna di (annacquo) non difficili costumi!

Ah, dimenticavo di premettere che l’ambientazione è nell’800 di Puccini (o pure prima) e quindi i mezzi di trasporto sono i treni, mica le carrozze: siamo alla stazione di Amiens e su uno di essi arrivano Lescaut, Geronte e la Manon-controfigura, e uno dei quali sequestrano per fuggire (!) i due amanti alla fine del primo atto.

Ma in un Orient-express è ambientato anche il second’atto, con un paio di vagoni adibiti a boudoir di Manon e a sala da ballo, dove la nostra eroina si mostra quasi nelle vesti di una maitresse di postriboli di lusso itineranti (ci sta?) Geronte da parte sua circola armato di macchina fotografica, forse per pubblicare le foto del suo locale su qualche sito... ehm, ci siamo capiti.

Treno abbinato (per far economie) a nave per il terz’atto: nei vagoncini Manon e prostitute assortite, che dopo l’appello salgono direttamente a bordo, dove saranno raggiunte dall’aspirante-popolatore-di-americhe Des Grieux.

La stazione ferroviaria di Amiens in fatiscente abbandono fa da sfondo nel quarto atto alla landa di New-Orleans (ma a quei tempi i Vanderbilt non stavano ricoprendo l’America di nuovissime tracks e stazioni?) Mentre Manon muore lentamente sul suo carretto (portato da Amiens!) ecco Edmondo aggirarsi con movenze irridenti e poi Geronte passarle accanto con l’inseparabile macchina fotografica. Non so se il pubblico abbia buato Pountney anche per questo, ma direi che il richiamo qui è pertinente, visto che nella sua aria Manon (magari un po’ cripticamente) accenna a qualche brutto affare in cui si deve essere cacciata anche oltreoceano...

Per farla breve, un’idea registica non peggiore di molte altre che si vedono in giro, Scala compresa. Ma al povero Pountney, oltre ai buh, è pure toccato - all’uscita da solo con il suo team - di finire, fino al collo, nella trappola della buca del suggeritore... così impara (!)

03 maggio, 2018

Dante-D’Annunzio secondo Zandonai alla Scala



La Francesca da Rimini è arrivata ieri a 2/3 (6 delle 9 recite) del suo cammino, in questo ritorno alla Scala dopo solo 59 anni (!) Piermarini piuttosto depresso (parlo delle praterie in platea e palchi) e pure freddino (come il clima esterno, del resto).

Opera bella e interessante (però, attenzione, il termine capolavoro riserviamolo ad altre...) che mertiterebbe maggior attenzione da parte dei teatri, musica che raccoglie l’eredità dell’800, aprendosi contemporaneamente al nuovo: Debussy, Strauss, Ravel e ovviamente Wagner, ma anche la seconda scuola di Vienna, occhieggiano da ogni lato.

Zandonai, se osserviamo la sua partitura, ci pare quasi voler assumere un atteggiamento didascalico riguardo all’impiego della tavolozza dei suoni. Ecco che scopriamo lunghi passaggi privi (salvo che per clarinetti e corno inglese) di accidenti in chiave (quelli che da sempre implicano e indicano una precisa tonalità di riferimento) e altri passaggi per i quali il compositore ha esplicitamente usato quei tradizionali accidenti.

Si può grossolanamente affermare che i passaggi del primo tipo siano quelli più prosaici, o caratterizzati da crudo realismo o situazioni drammatiche (esempi tipici: la battaglia del second’atto, il primo quadro del quarto, il finale tragico) mentre quelli del secondo tipo attengano alle oasi di serenità, di atmosfere elegiache e - manco a dirlo - di trasporto amoroso fra i due protagonisti. E val la pena, questi, di elencarli: dapprima il Largo, calmissimo che chiude il primo atto (con la viola pomposa, il piffero e il liuto a creare la mirabile atmosfera sospesa dall’innamoramento) dove troviamo i due diesis del RE maggiore; la prima scena (Francesca e ancelle) e la seconda parte della terza scena (arriva la primavera!) del terz’atto (un diesis per il SOL prevalente); sempre nel terz’atto la parte centrale della quarta scena (i primi approcci dei due amanti, REb maggiore); e la chiusura dell’atto (la lettura galeotta, Largo molto, SI maggiore); nel secondo quadro dell’atto conclusivo ecco il RE minore della prima scena (le donne di Francesca che ne vegliano il sonno); poi la seconda parte della seconda scena (Francesca e Biancofiore, SOL minore); ancora RE minore per la chiusa di detta scena; infine ecco il Largo molto, nel celestiale MI maggiore (Ti trarrò dov’è l’oblio) della suprema esaltazione amorosa, prima del tragico epilogo.     

Insomma, possiamo arguire che per Zandonai la musica moderna si attagliasse meglio ad evocare atmosfere non troppo elevate, o cupe se non truci, mentre quella antica fosse la più adatta a supportare le situazioni più nobili e i momenti più idilliaci!
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Fabio Luisi ha diretto senza infamia (beh, qualche ululato alla fine lo ha avuto) e senza lode, con una certa monotonia di approccio, senza particolari slanci che la partitura pur contemplerebbe. L’Orchestra su standard accettabili, ma credo che questa sia una partitura facile, il che significa difficile da valorizzare adeguatamente. Sempre grande il coro di Casoni, meritatamente ovazionato al termine del suo impegno (fine atto secondo).

Cast dignitoso, con Maria José Siri in bella evidenza, pur con qualche menda nelle note gravi, compensata da una pregevole presenza scenica. Bene anche lo sciancato Gabriele Viviani, che non ha trasformato la protervia del personaggio in protervia canora, al contrario. Con lui il fratellino terribile Luciano Ganci, bella voce squillante e intonata. Non così il fratello rubacuori Marcelo Puente, spesso ingolato e in difficoltà sul fiato. Tutti gli altri li accomuno salomonicamente in una sufficienza ampia.

Come detto, prestazione complessiva non più che dignitosa e - se tanto mi dà tanto - se ci son voluti 59 anni per ricordarsi dello Zandonai targato Olivero-DelMonaco-Gavazzeni, mi sa che ne passeranno il doppio per rispolverare questo di Siri-Puente-Luisi...
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L’allestimento di David Pountney è un minestrone che mescola Dante e D’Annunzio un tanto al kilo... La scena di Leslie Travers ha una base praticamente fissa sulla quale si innestano di volta in volta appendici diverse ma sempre ottenute componendo tubi-innocenti e scale metalliche (perfetta ricostruzione del castello di Gradara, hahaha!) I costumi di Marie-Jeanne Lecca sono indifferentemente medievali e novecenteschi, così come le armi impiegate, che vanno dalle balestre al cannone Bertha, dalle frecce alle machine-pistole...

Un po’ meglio vanno le cose sul piano dei movimenti di singoli e masse, ma in generale mi sembra si tratti di un approccio velleitario e poco rispettoso dell’originale. Non infierisco su alcune trovate cervellotiche, come il giullare fatto secco con un paio di colpi di revolver o il doppio omicidio finale, che avviene... per procura.

Insomma, si poteva fare - oltre che pretendere - assai di meglio.