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30 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (4)


L’ultimo atto del Ring scaligero – introdotto come gli altri dalla sempre interessante presentazione di Elisabetta Fava – vedeva all’opera due nuovi interpreti, rispetto a quelli della recentissima rappresentazione nella stagione 2012-13 (che aveva anche registrato la defezione di Barenboim alle prime recite). Precisamente un nuovo Siegfried (Andreas Schager a rimpiazzare Ryan) e (in questo secondo ciclo) una nuova Waltraute+Norna2 (Marina Prudenskaya, al posto della Meier).

Dirò che mentre la seconda si è discretamente difesa, mostrando una voce solida e un passabile portamento, il primo è riuscito a far rimpiangere il pur non eccelso Ryan: vibrato sgradevole e difficoltà di intonazione, con calate evidenti, che sono progressivamente emerse con l’andar del tempo, fino al silenzio (almeno alle mie orecchie) sul LA dell’ultimo verso del suo racconto (der schönen Brünnhilde Arm!)

Dagli altri interpreti solo conferme positive: in particolare la Theorin, che ha retto bene, senza ricorrere ad urli, ma anche Grochowski e, nella limitatezza della parte, Kränzle. Pure Petrenko e Samuil, che certo stanno un gradino sotto, non hanno del tutto demeritato, così come la Nekrasova (più una regina-vittoria che una Norna, smile!) e le tre ninfe acquatiche.

Orchestra forse un poco stanca, soprattutto nella sezione critica (ottoni) dove in mezzo a splendide ondate sonore sono emersi qua e là fastidiosi spernacchiamenti. Il coro di Casoni (i maschi ovviamente) ha fatto la dovuta caciara in quel second’atto che è una chiara parodia del GrandOpéra.

Barenboim non ci ha risparmiato qualche elastico nei tempi e qualche eccessivo fracasso a danno delle voci, ma la sua consuetudine con la… materia garantisce sempre prestazioni di rilievo.

Alla fine (pur essendo passata mezzanotte) un interminabile trionfo, non solo alla serata singola ma, credo proprio, a tutto il ciclo. 
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A proposito di bilanci, lascio ora agli esperti di prassi  interpretativa di spiegarci come e quantunque Barenboim abbia seguito un approccio tradizionalista o moderno, se abbia fatto riferimento piuttosto a Knappertsbusch che a Boulez, se abbia cercato di germanizzare il suono degli scaligeri o di italianizzare Wagner; e se questo Ring nel suo complesso sia da incorniciare fra le reliquie più sacre o da archiviare in solaio con altre suppellettili dismesse… Personalmente ascoltare l’intero ciclo in tempi adeguati – anche a dispetto di regìe insignificanti e di cast non più che dignitosi – mi ha gratificato a sufficienza; perciò, almeno una-tantum, dirò: grazie Scala!

28 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (3)


Un gran temporale (più adatto per la verità allo scenario della Walküre…) scatenatosi su Milano a metà pomeriggio – proprio durante la consueta ed efficace presentazione di Elisabetta Fava - ha introdotto la seconda giornata del Ring scaligero.

Essendo stato dato lo scorso novembre, nel quadro della quadriennale programmazione, del Siegfried si aveva un ricordo ancora abbastanza a fuoco e la presenza dello stesso cast di allora (Uccellino escluso) ha anche permesso di fare qualche confronto a distanza.

Ovviamente le bizzarrìe della regìa sono rimaste tutte al loro posto e non mette conto rigirare il coltello nella piaga. Meglio – a mio personale giudizio – le cose sono andate sul fronte della musica, pur con qualche evidente scompenso.

Barenboim ha un filino esagerato con i tempi, estremizzando lentezze e vivacità: già nella scena della riforgiatura di Nothung e soprattutto poi nel viaggio di Siegfried attraverso il fuoco, dove il tempo era proprio quello di uno che corre all’impazzata per non… scottarsi (smile!) L’orchestra ha avuto qualche sbandamento, come ad esempio nel Preludio del terzo atto, dove per un po’ la voce di tube e fagotti è sembrata scomparire. Poi mi chiedo come mai il corno di Siegfried (parlo del momento topico del second’atto) fosse dislocato al Cordusio invece che in prossimità della scena: si vedeva Siegfried soffiare poderosamente nel suo strumento al proscenio, mentre il suono pareva arrivare dall’aldilà… Come già nella precedente edizione (sarà colpa di Cassiers o di Barenboim?) l’interprete dell’Uccellino, invece che in alto (che so, in uno dei palchi, oppure appesa a qualche trespolo) era dislocata in buca, ottenendo l’effetto comico di un volatile che canta in un pozzo… Alla conclusione del primo atto manca del tutto l’effetto-sorpresa della Nothung che infrange l’incudine: qui per responsabilità soprattutto del regista, ma forse un po’ anche del maestro, che scatena le trombe e poi tutta l’orchestra, coprendo del tutto il RE dello Schwert di Siegfried. Ma anche poco prima lo straordinario effetto delle linee di Siegfried e Mime era stato rovinato dall’assurda postura richiesta al nano, fatto appendere braccia e gambe ad una sbarra orizzontale: la sua voce proprio non si sentiva.

Per il resto buone notizie: Ryan – a parte un paio di calate – ha confermato la sua capacità di tenuta fino in fondo (forse ha dato tutto sapendo che nella Götterdämmerung verrà sostituito!); la Theorin è decisamente più in palla di quanto non fosse al suo debutto lo scorso novembre (lo si era già notato fin dal recente Crepuscolo, oltre che dalla recentissima Walküre); anche la Larsson è stata un’Erda più accettabile, anche se non indimenticabile, rispetto a 7 mesi fa. Note assolutamente positive per Kränzle, credo il migliore nel complesso (e di certo non mi aspetto di essere smentito domani) ma anche per il solido veterano Stensvold, di sicuro il più convincente (tutto è relativo…) dei tre Wotan passati di qui in altrettante serate. Così dicasi di Bronder, un Mime efficace nel canto e nella recitazione (a dispetto di… Cassiers). Senza infamia, ma con poca lode Tsymbalyuk, un Fafner che non fa paura (smile!) Mari Eriksmoen ha fatto bene la sua parte ornitologica, e non è certo colpa sua se doveva cantare da una fossa invece che da una fronda.     

In definitiva, che dire? Personalmente l’emozione che provo ascoltando musica come questa potrebbe essere rovinata solo da interpretazioni davvero sciagurate; in questo caso Wagner è stato messo in condizione di fare in pieno il suo dovere!


Oggi riposo – per gli addetti – e maratona cinematografica per i… paganti.

26 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (2)


Dopo l’Allegro maestoso del Rheingold, eccoci al secondo movimento della Ring-Sinfonie: l’Andante mosso della Walküre (i paralleli sono del compianto Teodoro Celli).

Prima dello spettacolo, la presentazione dei contenuti condotta da Elisabetta Fava presso la Fondazione Cariplo: un bigino dell’opera fatto però con intelligenza e soprattutto mettendo sempre in risalto i contenuti più profondi delle vicende (pseudo)mitologiche che ne sono alla base, e la loro declinazione in termini musicali.
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L’apertura di Barenboim è drammatica davvero, anche se le folate dei secondi violini e delle viole (tremolo in corda doppia) sembrano coprire un po’ troppo le semiminime staccate dei violoncelli che evocano la corsa a balzelloni di Siegmund in mezzo alla tempesta.  

Simon O’Neill ha (guarda caso) sempre la stessa voce di due anni fa e gli manca la laurea di Heldentenor: però il suo Siegmund parrebbe migliorato, almeno quanto ad accuratezza di esposizione. La sua cassa toracica è sufficientemente ampia da permettergli un’apnea di 10 secondi sul SOL di Wälse senza scoppiare, né risentirne per il resto dell’opera (ok, ok, muore alla fine del second’atto…) Le sue due arie (Wagner non si offenderà…) non sono propriamente un modello di riferimento, ma l’importante è che trasmettano all’ascoltatore le dovute emozioni.

Waltraud Meier, che ormai veleggia verso i 60, è ancora e sempre una Sieglinde di tutto rispetto, anche se la voce si assottiglia e giù in basso fatica a passare. In ogni caso il duetto d’amore che i due ci propongono resta (certo, grazie al mago Wagner) una delle cose più emozionanti che si vivano a teatro; e Barenboim lo chiude da par suo con un autentico orgasmo orchestrale, prima dello schianto sul LA-SOL che mescola insieme passione e schiavitù.

Nel primo atto compare ovviamente anche lo sbifido Hunding, del quale per la verità Mikhail Petrenko non dà un’interpretazione indimenticabile, avendo una voce non abbastanza truce (in senso estetico, dico). Cosa del resto già emersa (e che fatalmente tornerà) con Hagen.

Irene Theorin si presenta subito con i suoi Hojotohò piuttosto, ehm, selvaggi (smile!) ma in fin dei conti appropriati alle caratteristiche del personaggio, ancora abbastanza goliardiche, prima della drammatica esperienza di vita che la rivolterà come un calzino.

Arriva anche il Wotan di René Pape (che sapremo più tardi essere in condizioni non perfette): fatta salva la sua maestrìa e professionalità, la voce non è proprio quella che ci si aspetterebbe.

Ekaterina Gubanova è la pedante (ma, purtroppo per Wotan, con tutte le ragioni di questo mondo) Fricka. Il loro colloquio-scontro nella prima scena è musicalmente porto in modo eccellente. L’unica critica che mi sento di fare (ma credo sia da indirizzare a Cassiers) è nella piattezza esteriore con cui i personaggi esternano i rispettivi stati d’animo che dovrebbero, per così dire, incrociarsi; all’inizio un Wotan spavaldo e sorridente e una Fricka infuriata; alla fine, Wotan disperato e Fricka trionfante. E in mezzo il progressivo trasmutare degli stati d’animo dei due coniugi. Invece qui assistiamo ad una scena monocorde, dove Wotan sembra già corrucciato fin dall’inizio e Fricka sembra ancora di cattivo umore alla fine, dopo aver cantato quella cosa straordinaria che comincia con Deiner ew’gen Gattin heilige Ehre…        

Da incorniciare invece (voce di Pape a parte, che non ha potuto esplodere come si deve il suo cruccio) la seconda scena, che purtroppo si presta ad essere considerata (soprattutto dallo spettatore superficiale) come un insopportabile mattone: ieri ne è uscito qualcosa di veramente emozionante, grazie anche a Barenboim e alla meticolosità con cui ha fatto emergere di volta in volta dall’orchestra i motivi che accompagnano il drammatico racconto di Wotan e ne evocano mirabilmente lo stato d’animo dissociato.

Dopo la movimentata terza scena, dove la Meier interpreta egregiamente i sensi di colpa di Sieglinde e le sue funeste previsioni, ecco l’incontro di Brünnhilde con Siegmund, un’altra delle pietre miliari dell’opera, culminante nel prodigioso mutamento di registro nella mente della Valchiria. Barenboim qui fa uscire dai violini tutta l’inebriante carica di entusiasmo, ebbrezza, amore e sollecitudine che ha invaso corpo e anima di Brünnhilde, musica che lascia sempre senza fiato e ti fa salire un groppo in gola.

Purtroppo la regìa rovina abbastanza la scena della morte di Siegmund, con quella stupida esagerazione del colpo di grazia che Hunding assesta ad uno che è già morto… Per fortuna salva tutto la musica: straordinario, all’inizio, l’intervento dei violoncelli ad esporre il tema della Primavera, prima dell’udirsi dei corni di Hunding.

La cavalcata che apre l’atto conclusivo è sempre un kolossal, ma forse ieri lo è stato un po’ meno del dovuto, chissà: mi è parso che le sezioni più pesanti (tromboni e tuba) fossero appunto meno pesanti del dovuto. Non strabilianti nemmeno le otto sorelline di Brünnhilde, piuttosto vocianti che cantanti.

Ma in fondo le preziosità vengono dopo, a cominciare dal momento dell’annunciazione che Brünnhilde fa a Sieglinde della prossima maternità, dove Theorin e Meier si sono superate, sull’apparire del tema di Siegfried e di quello della (cosiddetta quanto millantata) Redenzione.

E poi con la lunghissima scena conclusiva, costellata da momenti di musica uno più sbudellante dell’altro. Pape, di cui nel secondo intervallo era stata annunciata un’indisposizione, ha probabilmente tenuto tirato il freno per evitare guai (efficace il triplice Leb’wohl, un poco meno il colossale Wer meines Speeres Spitze fürchtet) tuttavia il suo mestiere gli ha consentito di portare fino in fondo e in modo più che onorevole il suo compito, ben assecondato da Barenboim che ha illuminato l’Incantesimo del fuoco con fantasmagorici bagliori (magari fin troppo accesi, nei due ottavini).

Un interminabile tripudio ha salutato la (prima!) giornata: certo dovuto anche all’eccezionalità dell’avvenimento (di Ring-come-a-Bayreuth la Scala ne fa uno al secolo…) ma credo anche all’obiettiva qualità – non ineguagliabile, sia chiaro – della performance.  
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Adesso una pausa (come a Bayreuth…) con Luchino Visconti e il suo memorabile Ludwig.
  

25 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (1)


Dopo il primo, andato in scena dal 17 al 22, ecco al via il secondo ciclo del Ring scaligero.

Nell’ambito delle varie iniziative collaterali e di supporto all’offerta teatrale, le quattro giornate sono precedute da conferenze introduttive, ospitate nella prestigiosa sala dell’Auditorium Giacomo Manzù presso il Centro Congressi Fondazione Cariplo, a due passi dal teatro. A tenerle, accompagnandosi al pianoforte, è Elisabetta Fava, che ieri in meno di un’ora ha percorso le quattro scene del Rheingold con grande chiarezza ed efficacia: un’iniziativa davvero lodevole.

In teatro (il Piermarini presentava qualche posto vuoto) le cose sono andate discretamente bene: non certo per merito della regìa di Cassiers, di cui si sapeva e si era visto tutto, quindi al riguardo nessuna sorpresa, solo la persistente considerazione: la classica montagna (di quattrini!) che partorisce un topolino.   

Accettabile nella media la prestazione musicale: sopra la media Barenboim (cui magari avrei chiesto più… fretta) e l’orchestra, cui l’allenamento intensivo pare abbia giovato assai, e la coppia Johannes Martin Kränzle (Alberich) e Stephan Rügamer (Loge). Nella media il Wotan di Michael Volle (dopo una falsa-partenza…) la Fricka di Ekaterina Gubanova e il Fasolt di Iain Paterson. Un po’ sotto tutti/e gli/le altri/e.
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Dovendo rivedere (o meglio… risentire) il film di questa vigilia, citerei la cupa immobilità dell’attacco dei contrabbassi prima dell’arrivo delle ondate degli otto corni, che sono tanto mirabilmente vergate in partitura, quanto sempre difficili da rendere al meglio: dopo le prime due esposizioni disgiunte del tema (corni 8 e 7) abbiamo l’accavallarsi (a canone) delle onde, con quattro corni (da 8 a 5) che espongono le quattro battute del motivo (i primi 7 armonici naturali, tutte note della triade fondamentale di MIb, dalla tonica alla mediante due ottave sopra) sfalsati fra loro di due battute; quindi gli altri quattro corni (da 4 a 1) che cominciano ad entrare una battuta e mezza dopo il corno 5 e sfalsati fra loro di una sola battuta; infine la mutazione del tema (con la salita alla dominante superiore) per prima nel corno 8 (poi nel 4, nel 6, poi 3, 7, quindi 2, 5 e 1) e la successiva discesa. Ecco, essendo otto linee a canone, ma tutte costituite dalle note della triade, è persino difficile percepire – con tutto il rispetto per gli strumentisti! – se le successive entrate vengano eseguite precisamente come scritte… e anche ieri sera l’orecchio (il mio, quanto meno) non ne è rimasto pienamente appagato.    

Da incorniciare invece tutta la prima scena, con punte di grande emozione nella serenata di Flosshilde (Wie deine Anmuth mein Aug’ erfreut…) e nella blasfema quanto drammatica esternazione di Alberich (Erzwäng’ ich nicht Liebe…) fino all’impressionante So verfluch’ ich die Liebe! che segna la fine all’Eden e l’inizio della tragedia dell’umanità.

Qualche disagio all’entrata di Wotan (Vollendet das ewige Werk) chiusa da un affrettato e stentato hehrer herrlicher Bau! E anche Fricka non (mi) ha emozionato più di tanto, in quella perla che è herrliche Wohnung, wonniger Hausrath. I due si sono ripresi nel seguito, in specie Wotan, che ha acquisito più… autorevolezza (smile!)

Impressionante invece l’entrata dei giganti, dove timpani e tuba hanno letteralmente fatto tremare il teatro! Ben esposte le ansie amorose di Fasolt, un po’ meno le brutali maniere di Fafner.

Fantastica, proprio da sbudellamento, l’introduzione degli archi al racconto di Loge (So weit Leben und Weben) ed altrettanto mirabile la chiusa, con il fiorire di Freia e la stupefacente cadenza dell’oboe.

Dopo una parte finale non proprio brillantissima della seconda scena, efficace la transizione verso Nibelheim, dove abbiamo ritrovato un Alberich davvero convincente e un Mime piuttosto insipido. Efficacissimi i ritorni del trionfo di Alberich e musicalmente riuscite le sue due trasmutazioni, fino alla cattura, con il tema dell’anello che si avvita su se stesso…

La scena conclusiva ha – per sua natura – qualche momento di… caduta di tensione, dopo la liquidazione di Alberich e la sua drammatica (e splendidamente resa) maledizione. Da incorniciare però il meraviglioso ritorno – a canone – del tema delle Goldnen Äpfel che introduce l’aria (per così dire) di Froh, Wie liebliche Luft, che personalmente avrei gradito un po’ meno… letargica (smile!)

Sempre emozionante il momento dell’apparizione di Erda (qui era meglio chiudere gli occhi, causa Cassiers, che la trasforma in uno spaventapasseri…); un po’ tirato via l’Hedà-Hedò di Donner (fra l’altro non mi è parso di udire il singolo colpo di martello che lo chiude) e un filino coperto dagli ottoni lo sfavillare delle sei arpe che accompagnano la vista del ponte-arcobaleno.

Grandiosa l’entrata della tromba sulla Spada e strappalacrime il lamento finale delle Figlie del Reno. Un pochino in ombra la tubette nella poderosa cadenza finale, sovrastate dal peso degli altri ottoni.    
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In definitiva: un promettente primo movimento di questa colossale sinfonia che va sotto il nome di Ring.

Pubblico generosissimo di applausi e bravi! per tutti.

23 giugno, 2013

In attesa del Ring in 6 giorni


Lunedi 24 inizia il secondo dei due cicli completi del Ring che la Scala ha programmato per il bicentenario: sei giorni di full-immersion, con conferenze introduttive e film a contorno dei quattro appuntamenti.

Si è nel frattempo conclusa l’iniziativa OroWagner della Provincia di Milano, presso lo Spazio Oberdan, dove è andato in onda un programma di Lieder (wagneriani e non) cantati da Sabina Willeit con Giorgio Fasciolo al pianoforte. Quirino Principe ha introdotto e via via presentato il programma, esibendosi anche come recitante in un melologo.

In realtà la serata avrebbe potuto intitolarsi Wagner-nonsoloteatro o anche il-Wagner-dal-volto-umano (smile!) avendo come oggetto – nella prima parte - composizioni assolutamente minori (almeno dal punto di vista della diffusione fra il vasto pubblico) del genio di Lipsia, materiale composto principalmente nei duri anni parigini.

L’idea di Principe – originale e per nulla disprezzabile - era quella di accostare a Wagner altri compositori, presentando alcuni testi musicati sia dall’uno che dagli altri.

Così abbiamo potuto apprezzare il diverso approccio a Goethe di Wagner (1830) e Schubert (1814) sull’oggetto Gretchen am Spinnrade (dal Faust); ma anche del Verdi del 1838, che musicò quelle stesse strofe di Goethe tradotte da Luigi Balestra col titolo Perduta ho la pace.  

Principe ha poi recitato (sempre su testo dal Faust di Goethe) Ach, neige, du Schmerzenreiche, un melòlogo per il quale il diciottenne Wagner scrisse l’accompagnamento. Poi due canti del 1838-1839: Der Tannenbaum (di Scheurlin) e Dors, mon enfant (di anonimo). A seguire una poesia di Pierre de Ronsard (Mignonne) come musicata da Wagner nel 1839 e dalla compositrice francese Cécile Chaminade 55 anni dopo.

Poi ancora un faccia-a-faccia, stavolta fra Wagner e Saint-Saëns, avente come oggetto L’attente di Victor Hugo. Quindi un testo di Jean Reboul (Tout n’est qu’images fugitives) musicato da Wagner nel 1840 e quindi un nuovo confronto (Wagner-Schumann, 1840) sulla base di Le deux Grenadiers (Die beiden Grenadiere) di Heine, con tanto di riferimento alla Marsigliese.

In chiusura una cosa importante, come i Wesendonck-Lieder che meritano alla Willeit calorosi applausi, per i suoi buoni mezzi vocali e per la notevole sensibilità sfoggiata verso i contenuti di tutti i canti da lei interpretati.

Ma ora, silenzio… il Ginnungagap si sta spalancando sotto i nostri piedi.

23 maggio, 2013

Un vuoto Crepuscolo alla Scala


Ieri seconda recita della giornata conclusiva del Ring in un Piermarini per nulla affollato. Fra gli assenti anche i due principali responsabili dello spettacolo: direttore e regista.

Non c’è Barenboim, per un malanno alla schiena, che si sta curando a casa sua, cioè a Berlino. Così alla Scala lo si vede – adesso che è Direttore musicale – meno di quando era soltanto Maestro scaligero… Del resto, inutile domandarsi a chi lui sia più legato, se alla Scala o alla Staatskapelle Berlin: dovendo dirigere un ciclo completo del Ring a Londra, per i PROMS, che orchestra ha scelto secondo voi come partner? Scopritelo qui.

Al suo posto un… Bignamini tedesco: il 52enne Karl-Heinz Steffens è infatti un suonatore di clarinetto (come il più giovane collega de laVerdi) passato al podio. Ha del miracoloso come sia riuscito a tenere insieme un’orchestra ormai orfana di tutori e a proporci un Crepuscolo più che dignitoso!

Anche la compagnia di canto non è stata per nulla male: alla Theorin la (pur breve) convivenza con Siegfried (smile!) deve aver fatto bene, poiché l’ho trovata decisamente migliorata rispetto a quando era ancora… nubile (cioè alla seconda giornata dello scorso novembre). Ryan ha la voce che ha ma per lo meno regge l’urto con sicurezza e non è cosa da poco. Sempre affidabile Kränzle pur nella fugacità della sua apparizione notturna. Anche la Meier, che ormai a Brünnhilde aveva rinunciato da anni, e che deve accontentarsi di fare la nonna (oh, pardon: la Norna) in aggiunta alla sua omonima walchiria, ha mostrato che la classe non è acqua, anche se la voce non è più quella di una volta. Petrenko non sarebbe neanche un Hagen malvagio, se avesse una voce da… Hagen e non da Figaro (!)

Note meno entusiasmanti dai fratelli ghibichunghi: Grochowski piuttosto deboluccio e Samuil decisamente sotto il livello della sufficienza. Anche le altre cinque femmine (due Norne e tre Figlie) non mi sono parse proprio entusiasmanti.

I cori di Casoni hanno fatto più che dignitosamente la loro parte, in particolare cantando con la dovuta sguaiatezza le loro esternazioni del second’atto.
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L’altro assente ingiustificato era Cassiers: perché di regìa non s’è vista manco l’ombra (forse è meglio così, dati i precedenti, smile!) Per tutte le 4 ore e mezza (nette) di spettacolo la scena è rimasta praticamente deserta (gli allestimenti minimalisti di Wieland al confronto erano dei caravanserragli). Solo proiezioni di immagini mutanti scelte random dal computer e qualche nastro che scende dall’alto e poi risale. Una quinta che a volte scherma lo sfondo, dotata di porticina (per ricordarci che c’è la reggia con la sua entrata!) Elementi prismatici trasparenti che vanno e vengono per servire da tavolo o da tribunetta per il coro, e recanti all’interno spezzoni di immagini di quel bizzarro bassorilievo di Lambeaux (già comparso nel Siegfried) che poi alla fine appare in tutto il suo ridicolo splendore (!)

Lo scavo dei personaggi è bene esemplificato dall’entrata in scena di Gunther e Gutrune, in postura ed atteggiamento perfettamente tagliati per Siegmund e Sieglinde (del resto, a quei tempi, in mancanza di coniugi che potevano fare due fratelli?)

Visto che la scena era vuota, si è pensato bene di animarla con i soliti mimi, che qui seguono il povero Siegfried per tutto il primo atto: dapprima usando la colonna sonora del suo Rheinfahrt per inscenarci un balletto in stile Carrà… Poi per introdurre l’eroe alla reggia dei Ghibichunghi; e infine per fargli il lavoro sporco al momento di strappare a Brünnhilde l’anello (che poi qui è una specie di avambraccio posticcio, così lo si può distinguere chiaramente).      

Sulla scelta dei costumi… meglio non infierire. Per il resto… recita scolastica.
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Dato che il ciclo è stato presentato in 3 anni (che sforzo!) ammetto di essermi dimenticato le giornate precedenti: brutto segno, non per la mia memoria, sia chiaro, ma per la qualità degli allestimenti… Ecco perché, essendo allo stesso tempo cultore di Wagner e un poco masochista, ho deciso di assistere all’intero ciclo che andrà in onda a giugno. Così, per vedere l’effetto che fa

27 maggio, 2010

La sabbia del Reno alla Scala

Sì, perchè che di oro - in questo Reno scaligero – se ne setaccia proprio pochino.

Dico subito che una rappresentazione in forma di concerto o magari, come si usa oggi, semi-scenica, oppure con sole proiezioni didascaliche ad accompagnare voci e orchestra, avrebbe sortito risultati complessivamente migliori. A costi di un ordine di grandezza più bassi (questa antifona vale per Lissner e per Bondi allo stesso tempo).

A proposito di Bondi, il poetico ministro, col suo decreto che è la perfetta anticipazione della manovra 3montiana di macelleria sociale, è riuscito nell'impossibile impresa di far mostrare a tutto il mondo (la recita di ieri era diffusa sui circuiti internazionali) una Scala che pareva caduta in mano ad un manipolo di extraparlamentari d'altri tempi, con sipario alzato, alle 20 in punto, su uno striscione con la scritta Decreto infame e proclami declamati al megafono, fra scrosci di applausi intercalati a qualche timida contestazione. L'orchestra peraltro non ha intonato bandiera rossa, forse non tutti sono uniti in quel tipo di protesta, non certo Barenboim, che è arrivato a manifestazione sindacale chiusa.

A chi il Rheingold conosce a fondo, questo allestimento non solo non ha arrecato alcun valore aggiunto (né particolari emozioni) ma anzi ne ha parecchio tolto. A chi non lo conosce ha presentato un minestrone incomprensibile che temo avrà contribuito ad alimentare perplessità, se non disistima, verso Wagner. Bel risultato davvero! Tutti i buoni propositi espressi dal team di regìa, e pubblicati sul programma di sala e sul sito del teatro, sono stati accantonati. Magra consolazione: la stessa fine han fatto anche i propositi cattivi!

Meno male che almeno Barenboim – partitura sul leggìo - ha fatto qualcosa per tenere in piedi la baracca. In particolare evitando eccessive rumorosità che sarebbero state a dir poco deleterie, tenuto conto delle voci non certo potenti che cantavano sul palco. Ma con la conseguenza di propinarci un Rheingold piuttosto timido o – per usare un termine politically-correct – di stampo lirico. Tranne il piccolo Fasolt-Youn, quasi perfetto (il suo fratello Fafner-Riihonen ha voce inversamente proporzionale alla gigantesca mole) dal loggione si faticava a correttamente comprendere le parole di quasi tutti gli altri, e in Wagner ciò è particolarmente penalizzante. Ciò indipendentemente dalla bontà del canto e dell'interpretazione, buona in Loge-Rügamer e Mime-Ablinger, discreta in Wotan-Pape e Alberich-Kränzle, sufficiente poco più o poco meno in tutti gli altri/e.

Al maestro mi sento peraltro di rimproverare una esasperante lentezza nel tempo staccato per il Wie liebliche Luft di Froh-Jentzsch, invero insopportabile. Nelle transizioni alle scene 3 e 4 e poi nel finale, Barenboim ha ecceduto forse fin troppo col fracasso, ma bisogna pur capirlo, dopo interi quarti d'ora di un Wagner tenuto a livello cameristico, per non soffocare le voci!

L'orchestra ha discretamente suonato, anche se gli otto corni (ce n'era anche un nono di riserva) non hanno reso al meglio il dispiegarsi degli armonici al principiare del mondo e le tubette e il trombone contrabbasso han faticato a superare lo sbarramento sonoro nella cadenza conclusiva, un RE bemolle terrificante, quanto informe. Impeccabili davvero gli strumentini, oboe e clarinetto su tutti.

In totale, un altro mezzo passo falso in questa stagione scaligera di sedicenti produzioni da far storia. Peraltro salutato da un pubblico (folto, ma non da esaurimento) con grandi applausi, anche per gli inutili, anzi disturbanti quanto incolpevoli danzatori, salvo stentorei buh per la sola povera Fricka-Soffel, trasformata - suo malgrado per l'occasione - in parafulmine di tutte le critiche. Cassiers non si è fatto vivo, forse è già tornato nelle Fiandre, dopo aver incassato l'ultima rata della lauta quanto immeritata parcella.

25 maggio, 2010

Le note di regia del Rheingold di Cassiers

Il sito del Teatro ha da qualche giorno completato la pubblicazione di materiale (parte del programma di sala) a corredo e supporto della rappresentazione.

Oltre al libretto, nella nuovissima traduzione del professor Franco Serpa (con tutto il rispetto, ce n'era proprio bisogno, dato che apporta piccole e poco significative modifiche a quella - quasi perfetta, celebre e di pubblico dominio - del grande Guido Manacorda?) vengono presentati due articoli relativi alla concezione del Ring (e in particolare del Rheingold) del regista Guy Cassiers.

Il primo, di Michael P. Steinberg, della Brown University nel Rhode Island, è intitolato Proiezione e interazione: verso una nuova concezione drammaturgica del Ring. Attribuisce alla regìa di Cassiers nientemeno che l'apertura di un nuovo fronte interpretativo del Ring, una quinta era nella messinscena del capolavoro wagneriano, dopo quelle da lui etichettate come 1.storia del mito (1876-1944, la conservazione delle idee originarie di Wagner che – secondo Steinberg – presentavano il mito come allegoria della storia della Germania imperiale contemporanea a Wagner) 2.mito (1951-1975, legata alle innovazioni di Wieland, che tendevano – sempre secondo Steinberg - a depurare la messinscena da ogni e qualunque riferimento storico, anche per far dimenticare la compromissione col nazismo) 3.storia (1976-1980, legata sostanzialmente alla regìa di Chéreau, che presentava un Ring profondamente calato nella storia tedesca, da Guglielmo a Weimar, depurandolo dei riferimenti ai miti) e 4.neo-mito (dal 1980 in poi, dove si recupera, secondo Steinberg, il mito, ma senza perdere i contributi che Chéreau aveva apportato in fatto di regìa dei personaggi, delle loro relazioni ed interazioni).

Ecco, il Ring di Cassiers, stando a Steinberg, introduce un paradigma del tutto nuovo. Ohibò, stiamo a sentire: si torna a Chéreau, ed alla sua concezione secondo cui nulla, nemmeno il mito, è fuori dalla storia. Ma invece di mostrare uno svolgersi storico determinato (anni 1870-1945) come fece il francese, ci presenta la storia dell'oggi (globalizzazione e suoi annessi-connessi) legata alla stratificazione dell'eredità storica da noi accumulata, che condiziona la nostra esistenza odierna e prepara quella futura.

Proiezione ed interazione sono gli strumenti che Cassiers usa per raggiungere il suo obiettivo. Proiezione intesa come meccanica riproduzione di immagini, o ombre, ma anche come esternazione di esperienze interiori. Il Ring proietta i suoi contenuti sul pubblico: Wagner fu maestro nella proiezione del suono (l'orchestra sprofondata e i suoi suoni che si amalgamano con le voci, prima di raggiungere l'orecchio dell'ascoltatore). Cassiers si propone di fare lo stesso con le immagini, impiegando le moderne tecnologie. L'interazione consiste nella reazione del pubblico alle proiezioni (sonore e visive) che lo colpiscono, e al suo coglierne – singolarmente e collettivamente – gli stimoli. E diversi soggetti e diversi pubblici – Milano e Berlino - potranno avere reazioni diverse.

In sostanza, queste tecniche consentono di mantenere una relazione costantemente oscillante fra passato e presente, fra un passato, da un lato, che è fissato e trascorso, ma sempre variabile nella sua ricostruzione, e un presente, dall'altro, che è sempre tormentato e carico di tensione in relazione alle scelte d'azione che presenta e agli esiti per il futuro che contiene.

Come pratico esempio di immanenza storica del Ring si cita la brama per l'oro, che sarebbe esplosa ai tempi di Wagner e che oggi permea la nostra società, con forme e manifestazioni sempre diverse…

L'altro contributo è dello studioso belga Erwin Jans, e reca il titolo: Il Ring: nella Twilight zone. Il Ring descrive in sostanza un mondo – proprio come il nostro! - in continua transizione, dove nessuno è al sicuro e dove ciascuno cerca il suo posto al sole, dove sistemi di potere si confrontano e rapporti di forza si modificano. Il tutto all'ombra di un fato inesorabile, che offusca la libertà. Abbiamo ancora un libero arbitrio? Siamo ancora capaci di scegliere le nostre azioni? Oppure esse sono decise altrove? Siamo ancora i fautori delle nostre vite? Le nostre azioni hanno qualche effetto? I nostri atti non sono forse strangolati in una rete fatale? La velocità e l'incomprensibilità che caratterizzano oggi gli sviluppi tecnologici, sociali ed economici possono essere definite, con assoluta serietà, "tragiche". Il mondo non è più nelle nostre mani. Il mondo ci accade.

Secondo Jans, Cassiers intende, con la sua messinscena, confrontarsi e proporci il confronto con la realtà dell'oggi, caratterizzata dai fenomeni di globalizzazione: la dichiarata fine della storia e della politica; il flusso di informazioni e immagini; il ruolo del linguaggio e della retorica; la virtualizzazione della realtà; la società dei consumi; la confusione ideologica; la minaccia del fanatismo e del fondamentalismo; la ricerca di sicurezza e spiritualità. In sostanza: il crepuscolo della società borghese.

Scrive ancora Jans: Nella visione di Guy Cassiers, il Ring racconta la crisi di identità e la collocazione incerta dell'individuo nel disorientante processo di globalizzazione. Poi va ancor più sul politico, laddove afferma testualmente: Il Ring è l'analisi critica della società capitalistica della metà dell'Ottocento e della sua classe media. Ma poi, prendendo atto dello spostamento di Wagner su posizioni, diciamo così, conservatrici, muove una velata critica, mutuata da G.B.Shaw, per la simpatia che Wagner sembrò mostrare per Wotan, più che per il rivoluzionario Siegfried…

Sempre più chiaramente: La messinscena di Guy Cassiers tiene in seria considerazione l'analisi sociale del Ring e la traspone all'inizio del XXI secolo, in un mondo in cui il capitalismo è divenuto globale e senza alternative.

Dopodichè si passa a proporre paralleli fra le vicende del Ring e la globalizzazione: il Walhall costruito con l'oro rubato ai Nibelunghi, così come le grandi fortune di oggi sono ottenute impoverendo milioni di individui: lavoro minorile, clandestini sottopagati, traffico di vite umane, e così via; ecco le mani invisibili che portano l'oro al Walhalla. Non mancano i riferimenti alle rivolte americane del 1992 e alle banlieu parigine del 2005, assimilati alla sete di vendetta di Alberich.

Ora Jans entra nel merito della regìa di Cassiers e pone l'accento sulla sua interdisciplinarietà: luci, coreografie, balletti, funzionali al progetto di decostruzione dei personaggi nelle componenti di corpo, immagine e voce. Dove ogni componente racconta una parte della storia, e dove sarà lo spettatore a ricomporre il quadro, secondo la sua personale percezione.

Infine Jans riassume i significati delle quattro scene del Rheingold. Nella prima le ninfe rappresentano, per Alberich, una realtà virtuale, come quella delle webcam, che può solo creare frustrazione. Nella seconda abbiamo la rappresentazione della decadenza del mondo degli dèi: L'identità degli dei si è disintegrata in pure idee da un lato (i cantanti) e potere fisico, animale dall'altro (i danzatori). Questa scissione della loro identità condurrà alla fine alla morte degli dei, che sembrano figure di sogno catturate fra la vita e la morte. I Giganti sono rappresentati da enormi ombre, anche questa una manipolazione della realtà, che serve a minacciare ed intimorire la controparte. Nella terza scena abbiamo il regno del Grande Fratello. La quarta scena vede il mondo che cade a pezzi, mentre gli dèi salgono al Wahlall sopra un arcobaleno costituito da una grande massa di numeri e lettere proiettati in continuo movimento, stretti l'un l'altro e che richiamano la Borsa e i corsi azionari.

Conclude Jans con considerazioni già lette e udite, del tipo: ambizione, brama di potere, avarizia, amore, desiderio, invidia, disperazione, lealtà… il Ring abbraccia tutto lo spettro delle emozioni umane. E con richiami a moderni fenomeni di alienazione, frustrazione, individuazione di nemici cui imputare le proprie sfortune, ricerca di redentori cui affidare il proprio futuro, etc.

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Che dire? Tante idee, alcune interessanti, altre stantìe, altre banali. E soprattutto si tratta di vedere poi all'atto pratico se e come il Konzept sia stato realizzato sulla scena. Le reazioni – da quelle dei soloni della critica a quelle degli amatori in forum e blog – non sembrano, ad oggi, entusiaste.

06 maggio, 2010

Aspettando che inizi il Ring alla Scala

Una interessante conferenza del professor Franco Serpa – nell'ambito dell'iniziativa Prima delle Prime – ha introdotto il tema del Ring, il cui nuovo ciclo (2010-2013) prenderà inizio – scioperi/Bondi permettendo – il 13 maggio alla Scala con Das Rheingold.

Serpa è uno dei nostri massimi esperti wagneriani (e non solo). Può ben vantarsi di aver assistito, nel lontano 1950, al primo ciclo nibelungico in lingua originale, quello di sua-denazificata-maestà Wilhelm Furtwängler, prodotto dalla Scala. Prima di parlarci del Rheingold ha ricapitolato la genesi del Ring all'interno della parabola esistenziale ed artistica di Wagner e nella prospettiva storica e della civiltà europea di metà '800. Io conservo ancora, come una reliquia, il suo saggio sul Ring comparso più di 20 anni fa sulla mai abbastanza rimpianta rivista Musica&Dossier, scritto che ha non poco contribuito a spingermi a studiare, oltre che ascoltare, questa che è da considerare la più straordinaria realizzazione dell'ingegno umano nel campo musicale.

Se posso permettermi un modesto appunto alla sua presentazione del Rheingold – è sempre eccitante, perché temerario, prendersi lo sfizio di muovere un appunto ad un accademico di S.Cecilia! – questo riguarda la luce in cui Serpa ha inquadrato il personaggio chiave (quello che dà il nome all'intero ciclo): Alberich. Che dal professore è stato definito come l'incarnazione del male, un essere congenitamente malvagio. Ecco, qui io mi permetto di dissentire: Alberich diventa malvagio, questo certamente, ma solo dopo che gli è stato fatto un torto (da tre stupidelle note come Le Figlie del Reno) anzi il più gran torto che si possa fare ad un essere vivente, negargli l'amore. Ed è precisamente la prospettiva disperante di dover vivere senza amore - Erzwäng' ich nicht Liebe… - che convince il nano, perso per perso, a maledirlo e ad impossessarsi dell'oro - doch listig erzwäng' ich mir Lust? - con tutto ciò che ne consegue.

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Sistemato (smile!) Serpa, veniamo ad un protagonista chiave della rappresentazione: il regista. Guy Cassiers – con qualche anno in più sulle spalle – sembra ripetere l'esperienza che nel 1976 fece tale Patrice Chéreau (allora trentenne): essendo grande esperto di teatro di prosa, ma poco o nulla conoscendo di teatro musicale e di Wagner e di Ring in particolare, viene chiamato alla messa in scena di un'edizione importante (Bayreuth mi perdonerà l'affronto, se lo paragono alla Scala) dell'Anello. Peraltro Cassiers ha il vantaggio non indifferente di arrivare dopo mille esperienze fatte da altri; essendo – fino a prova contraria – intelligente è da sperare che da esse prenda il grano e butti il loglio, non viceversa!

In web sono disponibili alcuni documenti che testimoniano dell'approccio generale e della preparazione di questo Rheingold. Qui una serie di filmati, girati nelle ultime settimane. Due di questi (1-4) sono – con traduzione italiana - pubblicati sul sito del Teatro. Qui invece (è un pdf di 5Mega, attenzione!) un documento (in tedesco) con alcune considerazioni, diciamo così, filosofiche del nostro. Si può fare qualche illazione, qualche considerazione di prima mano? Vediamo un po'.

Dalla stessa locandina del Teatro, dai vari filmati, e dalle dichiarazioni del regista che li accompagnano si evince, intanto, un aspetto non proprio marginale: la presenza di una coreografia, quindi l'impiego di danzatori ad accompagnare alcune scene del dramma. Come giustificano Cassiers (filmato n°5) e un suo coreografo (filmato n°3) questa scelta piuttosto azzardata? Con la volontà di meglio chiarire allo spettatore ciò che si nasconde nella personalità dei vari protagonisti, spiegandone i reconditi segreti attraverso il movimento di danzatori. È legittimo sollevare seri dubbi su questa trovata? Per me purtroppo sì. Perché? Ma perché in Wagner, e nel Ring in particolare, quel compito che Cassiers intende affidare ai danzatori è invece affidato – e in modo insuperabile – alla musica! È ascoltando questa, i leit-motive che ne emanano, che noi comprendiamo, ricordiamo, anticipiamo fatti, cogliamo sentimenti, sensazioni, collegamenti e relazioni. Quei danzatori, invece, non finiranno per caso per distrarre la nostra attenzione proprio da ciò che è più importante e prezioso?

Quanto all'impostazione concettuale, da ciò che si vede e legge in alcuni spezzoni dei filmati e nel documento pubblicato sul sito della Staatsoper, sembrerebbe di evincere l'intendimento di Cassiers di presentarci – a partire dal Rheingold – un Ring con forte carattere attualizzante, per così dire. Così fanno pensare i riferimenti ai moderni processi di globalizzazione, alla spersonalizzazione delle relazioni, agli egoismi regionali ed etnici, alla ricerca di spazi virtuali in cui rifugiarci, all'affidarsi a capipopolo, alla speranza in improbabili redentori… tutte manifestazioni della nostra attuale (in)civiltà. Ora, che nel Ring si possa trovare tutto ciò è quasi pacifico… tutto sta a vedere però quale strada deciderà di percorrere il regista: ci vorrà mostrare, attraverso riferimenti all'attualità, i caratteri universali del Ring o al contrario – speriamo di no – deriverà, da quei caratteri universali, dei particolari legati alla nostra attualità? In altri termini, userà il particolare per rappresentarci l'universale, oppure ci farà perdere quest'ultimo, mostrandocene una minima, parziale e soggettiva materializzazione?

Sul fronte musicale abbiamo pochi indizi. Uno è del tutto tranquillizzante (o almeno dovrebbe): si chiama Daniel Barenboim. Pochi come lui conoscono il Ring fin nei minimi dettagli e possiamo sperare che ripeta la prestazione del Tristan di un paio d'anni fa. Se devo manifestare un po' di sorpresa dall'ascolto degli spezzoni di musica che sentiamo nei filmati, questa riguarda (video n°2) il tempo che Barenboim fa prendere a Fricka-Kammerloher per la frase Um des Gatten Treue besorgt. Una cosa insopportabilmente lenta! Spero proprio che sia solo l'effetto-prima-prova. Bella sonorità e gran portamento invece nel Folge mir, Frau di Pape, proprio all'inizio dello stesso video.

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Oggi pomeriggio, come mobilitazione anti-Bondi, una specie di lodevole sciopero-alla-rovescia, una prova aperta al pubblico. Divisa in due: alle 14 le prime due scene e alle 19 le altre due. Ho seguito la prima parte (adesso vado in Auditorium per laVerdi). Che dire?

Qualcosa dell'orchestra, che mi è parsa ben messa, soprattutto nella sezione ottoni, che sappiamo essere allo stesso tempo il suo tallone d'achille e la punta di diamante di Wagner. Barenboim ha fatto ripetere più volte l'incipit degli otto corni, ma insomma direi che come partenza non c'è male. Sui cantanti non esprimo alcun giudizio, chè immagino non si impegnino al massimo nemmeno ad una generale, figuriamoci ad una prima prova d'insieme.

Su regìa, scene e costumi invece penso si possa non dico giudicare, ma almeno riferire (ripeto: prime due scene!) Innanzitutto la regìa è di quelle che non fanno danni, quindi nemmeno suscitano entusiasmi (oggi spesso i secondi si accompagnano ai primi). Figlie del Reno in nero lungo, scalze a sguazzare in una bassa piscinetta (recuperata per caso dal Tannhäuser?) e Alberich con abito anonimo, ma con stivali per non bagnarsi troppo. Gratuite ed eccessive le moine delle ninfe, ma nulla di grave. Fondale con immagine marina più che fluviale, con acqua appena increspata (Wagner scrive che si deve vedere il Reno muoversi da destra a sinistra, figuriamoci!) Poi appare una lama di luce e il fondo si indora, ma non troppo, prima di rabbuiarsi dopo l'impresa di Alberich. Un paio di telecamere pendono dall'alto e ogni tanto qualche personaggio vi si avvicina e il suo primo piano è proiettato sul fondo (?!?)

Nella transizione compaiono i danzatori, che accompagnano la salita all'Olimpo con movenze francamente mediocri. Nella seconda scena, fondo fermo fin quasi alla fine, un ambiente a metà fra Cappadocia e Colorado; poi si zooma su una cosa che dovrebbe richiamare la wagneriana gola sulfurea, ma sembra un calanco e basta. Personaggi quasi sempre impalati, tranne Loge, che si muove e contorce come si addice alla sua stramba personalità. A che serva un mimo-ballerino che a sua volta lo scimmiotta, lo sapranno soltanto regista e coreografo. Così come abbastanza cervellotiche sono le silhouette proiettate sullo sfondo. Sospiro di sollievo nel sentire che il tempo di Fricka (Um des Gatten Treue besorgt) non è assolutamente quello del filmato.

Non è colpa sua, ma Youn nella parte di un gigante (Fasolt) è proprio una presa in giro: meno male che ha una voce strepitosa a dir poco! Il suo fratellone Fafner è letteralmente il doppio di lui (per questo non faticherà a farlo secco alla fine, smile!) I personaggi entrano ed escono sempre salendo e scendendo dal/al piano di sotto. Plausibile per la fuga di giganti e Freia, come per la discesa finale di Wotan-Loge. Gratuito per gli ingressi: a che servono le quinte laterali? Dopo la perdita di Freia, l'invecchiamento degli dèi è simulato da accasciamenti e dall'intervento di mimi-danzatori che si aggiungono al mucchio. Mah!

Un'ultima notazione sui costumi. Fricka e Freia (ma sono solo sorelle o anche gemelle?) son vestite identiche. Wotan (con lancia di ordinanza) in giacca e jeans, come Loge. Fasolt in jeans e Fafner in smoking (si deve capire subito che sarà lui a godersela, alla fine). Froh anche lui in casual e Donner senza martello ma con l'impermeabile: sì perché lui è il dio del tuono (smile!)

Ecco, è tutto qui: nessuna particolare ambientazione, né moderna, né vichinga… Si intravede alla fine della prova – Barenboim ci fa sentire per ben tre volte le 18 incudini - un po' della terza scena, dove probabilmente compare molta tecnologia, in onore alla produttività nibelungica, ma vedremo.

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Ultima informazione: venerdi 7, ore 21, sul Canale 5 FD, la RAI trasmette proprio un Rheingold diretto da Barenboim: è una registrazione dal vivo del 1991 a Bayreuth (pubblicata in CD da Teldec).