Dopo l’Allegro maestoso del Rheingold, eccoci al secondo movimento della Ring-Sinfonie: l’Andante mosso della Walküre (i paralleli
sono del compianto Teodoro Celli).
Prima dello spettacolo, la
presentazione dei contenuti condotta da Elisabetta
Fava presso la Fondazione Cariplo: un bigino
dell’opera fatto però con intelligenza e soprattutto mettendo sempre in risalto
i contenuti più profondi delle vicende (pseudo)mitologiche che ne sono alla
base, e la loro declinazione in termini musicali.
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L’apertura di Barenboim è
drammatica davvero, anche se le folate dei secondi violini e delle viole (tremolo in corda doppia) sembrano
coprire un po’ troppo le semiminime staccate
dei violoncelli che evocano la corsa a balzelloni di Siegmund in mezzo alla
tempesta.
Simon O’Neill ha (guarda caso) sempre la stessa voce di due anni
fa e gli manca la laurea di Heldentenor:
però il suo Siegmund parrebbe migliorato, almeno quanto ad accuratezza di
esposizione. La sua cassa toracica è sufficientemente ampia da permettergli
un’apnea di 10 secondi sul SOL di Wälse senza scoppiare, né risentirne per il
resto dell’opera (ok, ok, muore alla fine del second’atto…) Le sue due arie (Wagner non si offenderà…) non sono
propriamente un modello di riferimento, ma l’importante è che trasmettano
all’ascoltatore le dovute emozioni.
Waltraud Meier, che ormai veleggia verso i 60, è ancora e sempre
una Sieglinde di tutto rispetto, anche se la voce si assottiglia e giù in basso
fatica a passare. In ogni caso il
duetto d’amore che i due ci propongono resta (certo, grazie al mago Wagner) una
delle cose più emozionanti che si vivano a teatro; e Barenboim lo chiude da par
suo con un autentico orgasmo orchestrale, prima dello schianto sul LA-SOL che
mescola insieme passione e schiavitù.
Nel primo atto compare ovviamente anche lo sbifido Hunding, del quale
per la verità Mikhail Petrenko non dà
un’interpretazione indimenticabile, avendo una voce non abbastanza truce (in
senso estetico, dico). Cosa del resto già emersa (e che fatalmente tornerà) con
Hagen.
Irene Theorin si presenta subito con i suoi Hojotohò piuttosto, ehm, selvaggi (smile!) ma in fin dei conti appropriati alle caratteristiche del
personaggio, ancora abbastanza goliardiche, prima della drammatica esperienza
di vita che la rivolterà come un calzino.
Arriva anche il Wotan di René
Pape (che sapremo più tardi essere in condizioni non perfette): fatta salva
la sua maestrìa e professionalità, la voce non è proprio quella che ci si aspetterebbe.
Ekaterina Gubanova è la pedante (ma, purtroppo per Wotan, con tutte le
ragioni di questo mondo) Fricka. Il loro colloquio-scontro nella prima scena è
musicalmente porto in modo eccellente. L’unica critica che mi sento di fare (ma
credo sia da indirizzare a Cassiers) è nella piattezza esteriore con cui i
personaggi esternano i rispettivi stati d’animo che dovrebbero, per così dire,
incrociarsi; all’inizio un Wotan spavaldo e sorridente e una Fricka infuriata;
alla fine, Wotan disperato e Fricka trionfante. E in mezzo il progressivo
trasmutare degli stati d’animo dei due coniugi. Invece qui assistiamo ad una
scena monocorde, dove Wotan sembra già corrucciato fin dall’inizio e Fricka
sembra ancora di cattivo umore alla fine, dopo aver cantato quella cosa
straordinaria che comincia con Deiner
ew’gen Gattin heilige Ehre…
Da incorniciare invece (voce di Pape a parte, che non ha potuto
esplodere come si deve il suo cruccio) la seconda scena, che purtroppo si
presta ad essere considerata (soprattutto dallo spettatore superficiale) come
un insopportabile mattone: ieri ne è
uscito qualcosa di veramente emozionante, grazie anche a Barenboim e alla
meticolosità con cui ha fatto emergere di volta in volta dall’orchestra i
motivi che accompagnano il drammatico racconto di Wotan e ne evocano
mirabilmente lo stato d’animo dissociato.
Dopo la movimentata terza scena, dove la Meier interpreta egregiamente
i sensi di colpa di Sieglinde e le sue funeste previsioni, ecco l’incontro di
Brünnhilde con Siegmund, un’altra delle pietre miliari dell’opera, culminante
nel prodigioso mutamento di registro nella mente della Valchiria. Barenboim qui
fa uscire dai violini tutta l’inebriante carica di entusiasmo, ebbrezza, amore
e sollecitudine che ha invaso corpo e
anima di Brünnhilde, musica che lascia sempre senza fiato e ti fa salire un
groppo in gola.
Purtroppo la regìa rovina abbastanza la scena della morte di Siegmund,
con quella stupida esagerazione del colpo di grazia che Hunding assesta ad uno
che è già morto… Per fortuna salva tutto la musica: straordinario, all’inizio,
l’intervento dei violoncelli ad esporre il tema della Primavera, prima
dell’udirsi dei corni di Hunding.
La cavalcata che apre l’atto conclusivo è sempre un kolossal, ma forse ieri lo è stato un
po’ meno del dovuto, chissà: mi è parso che le sezioni più pesanti (tromboni e tuba) fossero appunto meno pesanti del dovuto. Non
strabilianti nemmeno le otto sorelline di Brünnhilde, piuttosto vocianti che
cantanti.
Ma in fondo le preziosità vengono dopo, a cominciare dal momento
dell’annunciazione che Brünnhilde fa a Sieglinde della prossima maternità, dove
Theorin e Meier si sono superate, sull’apparire del tema di Siegfried e di
quello della (cosiddetta quanto millantata) Redenzione.
E poi con la lunghissima scena conclusiva, costellata da momenti di
musica uno più sbudellante dell’altro. Pape, di cui nel secondo intervallo era
stata annunciata un’indisposizione, ha probabilmente tenuto tirato il freno per
evitare guai (efficace il triplice Leb’wohl,
un poco meno il colossale Wer meines
Speeres Spitze fürchtet) tuttavia il suo mestiere gli ha consentito di
portare fino in fondo e in modo più che onorevole il suo compito, ben
assecondato da Barenboim che ha illuminato l’Incantesimo del fuoco con fantasmagorici bagliori (magari fin
troppo accesi, nei due ottavini).
Un interminabile tripudio ha salutato la (prima!) giornata: certo
dovuto anche all’eccezionalità dell’avvenimento (di Ring-come-a-Bayreuth la Scala ne fa uno al secolo…) ma credo anche
all’obiettiva qualità – non ineguagliabile, sia chiaro – della performance.
Adesso una pausa (come a Bayreuth…) con Luchino Visconti e
il suo memorabile Ludwig.
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