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26 settembre, 2020

La contagiata Traviata scaligera

Ieri sera alla Scala penultima recita della Traviata contagiata. La mia seconda esperienza scaligera del post-lockdown è stata - dal punto di vista ambientale - ancor più deprimente della prima: perchè, oltre alla negativa impressione che ti fa una sala semideserta, ho potuto anche fare l’esperienza di un intervallo. Che tristezza il foyer popolato da fantasmi che si aggirano tenendosi a distanza, e soprattutto che atmosfera spettrale, con le mascherine che non solo celano i volti, ma mettono la sordina alle voci, così pare di stare in un istituto per muti...  

La rappresentazione di un’opera in forma di concerto è una rarità in Scala (in passato è accaduto più che altro in casi di contrattempi organizzativi) e va lodata comunque l’organizzazione che ha predisposto un semi-scenico più che accettabile. Poi i frac dei maschi e gli abiti da ricevimento delle cantanti (firmati D&G) erano abbastanza coerenti con parecchi degli ambienti presenti nel libretto.

Certo, le regole di distanziamento hanno reso alcune scene piuttosto paradossali: il povero Alfredo, per dire, è dovuto restarsene impotente a due metri dalla sua Violetta morente (è andata meglio a Mehta che, alla fine, con la scusa di farsi sorreggere dalla Rebeka, ne ha approfittato per quasi abbracciarla e baciarla!)

Ecco, Mehta, uomo dalle nove vite: cammina a stento, ma quando si siede sullo sgabello del podio pare abbia 30 anni, tanto secco, preciso ed efficace è rimasto il suo gesto. La sua è stata una direzione apparentemente rilassata, senza grandi slanci retorici, un Verdi suonato à-la-Mozart potrei dire con una battuta. (Teniamo presente che l’orchestra è praticamente confinata in fondo all’enorme scena del Piermarini, il podio del Direttore è ben al di là del proscenio nella configurazione con buca, e tutti suonano sullo stesso piano, niente rialzi come nella configurazione per concerto; ciò che arriva in sala... ve lo lascio immaginare.)

Con Mehta trionfa l’altro giovanissimo della compagnia, tale Leo Nucci, un tipo che promette bene e farà carriera di sicuro! Lui poi, oltre a cantare come 50 anni fa, sa ancora correre con la leggerezza di un levriero...   

Marina Rebeka merita un voto più che discreto: 18 mesi fa non aveva proprio fatto un figurone, ma oggi devo dire che è progredita (non solo per il famigerato MIb) e il pubblico l’ha gratificata - con Leo e Zubin - di applausi a scena aperta e ovazioni finali... con sordina!

Dell‘Alfredo del carioca Atalia Ayans mi limito a dire che potrà sempre far meglio... Tutti gli altri al loro posto, ecco. Il coro di Casoni era relegato al lati e al fondo della caverna, quindi bravi ad aver fatto arrivare i suoni fino alla platea (e spero anche più su...)

Che dire, in conclusione: accontentarsi, dati i tempi che corrono, è come minimo doveroso... ma è dura davvero!

14 settembre, 2019

Scala: un Rigoletto accademico.


Ieri sera alla Scala terz’ultima recita dell’ultima (per la stagione) puntata del Progetto Accademia, con il Rigoletto di Nucci-Oren (i due tutor che Pereira ha affiancato per l‘occasione ai giovani accademici).

Teatro pieno se non strapieno (la sesta di Rigoletto-Nucci batte anche la prima di Elisir di parecchie decine di posti...) per questa decima consecutiva (!) ripresa dello spettacolo di Gilbert Deflo, dopo il debutto nell’ormai giurassico 1994: altro che museo! Personalmente ho visto solo 3 di queste 10 riprese e devo dire che non mi sono per nulla annoiato, pur ricordando quasi nei dettagli tutto ciò che scorre in scena: l’interesse (come è naturale, credo, trattandosi di teatro musicale) è per ciò che arriva alle orecchie e l’occhio non se la prende troppo se l’eccipiente è sempre lo stesso.

Nulla scrivo quindi della (lodevole, come ormai assodato da decenni) regìa, e passo direttamente ai suoni. Tenendo ovviamente presente che il grosso degli interpreti è rappresentato da allievi dell’Accademia, e non da navigati frequentatori di buca e palco della Scala.

Le due eccezioni (i fuori-quota, haha!) devono aver fatto un buon lavoro sui giovani, a giudicare dai confortanti risultati dell’impresa. E arrivo quasi a dire che gli allievi abbiano superato i maestri... Perchè Nucci sarà sempre (per altri 500 Rigoletti) un Rigoletto carismatico, però ormai declama più che cantare e le note di arrivo di intervalli ascendenti le prende con un semitono, minimo, di avvicinamento: il che è francamente tipico di schiamazzi da osteria e lascia una sgradevole impressione (per la cronaca: niente bis vendicativo... meglio così). Quanto ad Oren, ora che ha passato abbondantemente i 60, non emette più grugniti da scimpanzè, nè prende il podio come un tappeto elastico, però la sua concertazione mi è parsa un tantino approssimativa, ecco.

Gli allievi sono tutti da elogiare, se non altro per non essersi fatti attanagliare dall’emozione: è evidente che debbano ancora studiare assai per aspirare a salire in SerieA. In particolare i due deuteragonisti Rodrigo Porras Garulo e Francesca Manzo sembrano promettere bene: lui ha una voce da lirico che forse si adatta meglio a un certo Rossini; lei pure tende a volte a pigolare, ma ha anche staccato un paio di acuti non disprezzabili. Gli altri, così come il coro di Salvo Sgrò, non hanno affatto sfigurato.

Bene anche l’Orchestra, che Oren ha gestito con prudenza, salvo pochi sconfinamenti nel fracasso gratuito.

Successo calorosissimo (un po’ meno per Oren) non sai se dettato da... superficialità di un pubblico di turisti o da comprensibile atteggiamento incoraggiante verso questi giovani virgulti. Pereira - conti alla mano - credo stia gongolando.

12 gennaio, 2019

Alla Scala sempre la stessa Traviata


È dal 1990 che La traviata che si rappresenta alla Scala è sempre la stessa: sì, certo, quella di Verdi. Ma io mi riferisco alla messa in scena da Liliana Cavani. Per dir la verità un’eccezione (ma proprio unica) si è registrata negli ultimi tempi: fu a SantAmbrogio del 2013 con la produzione del genio Tcherniakov (Gatti sul podio e Lissner alla soprintendenza). Poi già nel 2017 tornò quella che era stata impiegata in ben altre 8 stagioni (91-92-95-97-01-02-07-08) dopo quella dell’esordio.

Delle due l’una: o nei magazzini del teatro sono andate a fuoco le scene (ma anche i testi della sceneggiatura) del regista russo, oppure mi sa proprio che quella del 2013-14 non fosse una produzione destinata ad entrare nella storia...
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Ecco, sistemati rapidamente l’epicedio per Tcherniakov e l’epinicio per Cavani, vengo al sodo, cioè alla parte strettamente musicale della serata. Che ha avuto per protagonista Myung-Whun Chung, già da come si è presentato con il Preludio, attaccato con un ppppp quasi impossibile, e poi caratterizzato (in ciò farà il paio con l’altro preludio) da sapienti incertezze di agogica che sembravano descrivere l’instabilità fisica (e pure psichica) della protagonista.

La quale è Marina Rebeka da Riga, che mi è parsa progredire nel corso dei quattro quadri dell’opera, dopo un avvio non proprio impeccabile, compreso l’attacco del primo Sempre libera. Forse (e senza forse) erano per lei gli isolati ma chiari buh piovuti dalla seconda galleria all’uscita dopo il primo atto: certo, se motivati solo dall’assenza del famigerato MIb finale, allora sarebbe da buare il buatore. Non particolarmente memorabile anche l’interpretazione, un po’ carente di... carisma; tutto sommato una Violetta appena discreta, che però, come detto, è cresciuta via via e ha finito per meritarsi i consensi arrivati alla fine. Adesso, passata quasi indenne dalla rottura del ghiaccio, c’è da aspettarsi che possa solo migliorare ancora.   

Francesco Meli è invece un Alfredo ben centrato sul personaggio. Mi pare stia ultimamente un po’ esagerando con l’impiego della mezza-voce, voce che per il resto è sempre un piacere ascoltare.

Leo Nucci ormai ha l’età di... nonno Germont! Ma è un nonno che canta ancora come e meglio del figlio (cioè di Germont-padre, sia chiaro, non vorrei offendere Meli). Efficace anche (come sempre, del resto) la sua interpretazione, efficacia già manifestatasi all’entrata in scena, proterva e minacciosa. Così come il progressivo... ammorbidimento, fino al conclusivo mea-culpa.

Tutti gli altri - la Flora di Chiara Isotton, Douphol di Costantino Finucci, Grenvil di Alessandro Spina e Obigny di Antonio Di Matteo - su standard più che dignitosi, come quelli degli accademici Caterina Piva (Annina), Riccardo Della Sciucca (Gastone), Sergei Arbkin (Giuseppe) e Jorge Martiniz (domestico).

Tutto sommato, una compagnia bene assortita cui ha... tenuto compagnia il solito splendido coro di Bruno Casoni (anche qui dopo una partenza non centratissima).

Durante la recita applausi a scena aperta sempre piuttosto contenuti; alla fine e alle singole uscite invece il consenso è cresciuto e i protagonisti - compresa l’immarcescibile Liliana Cavani - hanno avuto la loro buona dose di applausi.  Per il Direttore, anche ovazioni e bravo! (pienamente meritati).

Che dire, questa è una di quelle proposte dove i rischi superano di gran lunga le speranze di successo; quando invece il successo (pur contenuto) arriva... la scommessa è vinta.

21 febbraio, 2018

Un Simone di routine alla Scala (gentilonizzata)


Ieri sera: Piazza Scala transennata come neanche a SantAmbrogio. Poliziotti adibiti a maschere-aggiunte cui mostrare il tagliando d’ingresso per poter avvicinarsi al teatro. Ohibò, ci si chiedeva: timori di attentato dinamitardo dell’ISIS? Minacce nucleari dei nord-coreani contro il direttore sud-coreano? Ma no, tutto a posto: c’è solo Gentiloni che, essendo capitato per caso a Milano per sostenere la candidatura di tale Gori a Governatore longobardo, si è fatto invitare dal tenutario-pro-tempore del teatro (tale Sala) nel Palco Reale, così, tanto per vedere l’effetto che fa.

Per la verità il nostro PM è sempre schivo e modesto, e pochi si sono accorti del suo ingresso alla chetichella nel suddetto Palco Reale (ci mancava pure che Chung attaccasse, per par-condicio, Fratelli d’Italia!) Così qualche adepto zelante ha pensato bene di fargli uno spot-tino elettorale. Quando, verso la fine, la regìa di Tiezzi (copiando il DonGiovanni di Carsen) prevede di collocare in quel palco privilegiato il Capitano che declama le sue tre righe di testo, ecco che un occhio-di-bue illumina a giorno il Capitano e, con lui, il  Premier! Evabbè, tanto qui la par-condicio è comunque salva, dato che il nostro è ben visto da (quasi) tutto  l’arco inciucionale costituzionale...
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In questi ultimi anni il corsaro Boccanegra ha infestato veleggiato nel vasto mare del Piermarini con frequenza pari almeno a quella registrata negli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso: ben quattro incursioni negli ultimi 8 anni (10-14-16-18). Si tratta della terza ripresa della produzione di Federico Tiezzi, che ha visto sul podio Barenboim, Ranzani e queste ultime due volte Chung. Quanto al protagonista, Domingo si è baritonizzato per le prime tre edizioni, Nucci ha cantato di sua natura nelle ultime tre. 

A parte Nucci, nel cast il decano di queste quattro programmazioni è Ernesto Panariello (Pietro) sempre sul pezzo dal 2010; lo segue Fabio Sartori (Adorno) che torna dopo il 2010 e il 2014; con lui i due accademici Luigi Albani (Capitano) e Barbara Lavarian (Ancella) già in pista nel 2014 e 2016; infine Krassimira Stoyanova (Amelia) e Dmitri Belosselskiy (Fiesco) tornano dopo il 2016. Esordiente il Paolo di Dalibor Jenis. Insomma, una squadra, almeno sulla carta, sufficientemente rodata. 

E ieri sera, alla quinta delle otto recite della stagione, l’affiatamento fra tutti (coro di Casoni e orchestra inclusi) ha prodotto un dignitoso risultato, che un pubblico non oceanico ha accolto con unanimi, pur non esagitati, applausi.

08 novembre, 2017

Il Nabucco di Abbado (D.) recidivo alla Scala


A quasi 5 anni dalla sua prima apparizione, è tornato in Scala a far danni - mia convinzione - il Nabucco firmato da Daniele Abbado. Per quanto riguarda i danni, confermo ogni mio rilievo alla regìa, mosso in quella occasione: una regìa che sa di documentario rievocante la sofferenza del popolo ebraico vittima della Shoah, ma che poi, per non cadere nel grottesco (poichè coerentemente Nabucco dovrebbe allora vestire i panni di Hitler) si sposta su scenari di conflitti di natura sindacale (Nabucco = padrone delle ferriere) che con le vicende dell’Olocausto (e con il soggetto originale) ci stanno come i cavoli a merenda: caso più unico che raro di incoerenza al quadrato!

Insomma: un pessimo servizio fatto a Verdi e al pubblico, ecco. Un po’ come quel Mosè di Rossini che Vick anni orsono impiegò al ROF come colonna sonora per la sua lecture sulla storia della nascita dello Stato di Israele. Con la differenza che la storia presentata da Vick era, almeno, rispettosa fino in fondo delle vicende passate in Palestina nella prima metà del secolo scorso. 
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Ieri sera era la quinta delle otto recite in programma ed ha visto l’arrivo, nel ruolo di Abigaille, della partenopea Anna Pirozzi, a dare il cambio alla viennese Martina Serafin: dico subito che si è trattato, per me, di un discreto ritorno al Piermarini dopo i Foscari della stagione scorsa; in un ruolo che lei d’altronde conosce ormai come le proprie tasche, essendo stato il suo trampolino di lancio anni fa con Muti. Ma la dimestichezza con la parte è condizione necessaria, purtroppo non sufficiente per raggiungere l’eccellenza: e la parte di Abigaille, che Verdi magistralmente ricolma di spettacolari quanto enormi intervalli (con cadute di una e persino di due ottave!) mette purtroppo in difficoltà la Pirozzi sulle note gravi, per cui da acuti sicuri e squillanti si piomba spesso nel... vuoto. Comunque una prestazione, la sua, meritevole di ampia sufficienza.

Più che dignitosa la prova di Annalisa Stroppa, voce morbida e penetrante, espressione sempre adeguata al personaggio della principessa assira che l'amore per il giovane ebreo porta alla repentina conversione. E Ismaele è stato degnamente impersonato da Stefano La Colla, che ha mostrato timbro squillante e buona intonazione. A cavallo fra sufficienza e insufficienza Mikhail Petrenko, uno Zaccaria che sarebbe perfetto nella presenza fisica e scenica, ma la cui voce ahilui manca di ogni caratteristica necessaria al ruolo: profondità, potenza e autorevolezza. Onorevoli le prove dei tre comprimari, Giovanni Furlanetto in testa. Il Coro di Casoni non si discute di certo, però mi pare non abbia toccato i vertici che gli conosciamo.                    

Di questi tempi è di attualità discettare di aspettativa di vita e di età pensionabile: ebbene, oltre al recidivo Leo Nucci (che già era in età da pensione 5 anni orsono) questa produzione vede sul podio un tale che ha 11 anni più del Nabucco! Evidentemente il mestiere di Kapellmeister (come quello di baritono verdiano) non è fra quelli definiti usuranti (!) A parte le facili battute, a me che sono appena appena meno maturo di Nucci la cosa non può che far piacere, soprattutto quando posso constatare che a 75 e 86 anni ancora si può essere autorevoli interpreti di Verdi alla Scala, invece che ospiti di Verdi in piazza Buonarroti...

Il baritono di Castiglione dei Pepoli sciorina ancora una delle sue penetranti e coinvolgenti interpretazioni, facendosi perdonare le inevitabili pecche legate all’anagrafe (acuti un filino urlati...) ma rendendo al meglio (parlo ovviamente della parte musicale, quella del personaggio di Daniele Abbado lasciamola perdere) le mutazioni che intervengono nella mente e nella personalità del condottiero assiro.

Quanto a Nello Santi, lui poveretto fatica persino a reggersi in piedi, e la salita sul podio così gli diventa la scalata del K2... Però, una volta installato al suo posto, guida orchestra e voci con l’autorità che gli viene da un’intera vita di studio e lavoro. I suoi tempi sono sempre sostenuti, ma mai sfociano nel greve o peggio nell’esasperante; il suono che ottiene dall’orchestra (compresa quella dietro le quinte) è nitido, tagliente, senza mai sconfinare in tratti bandistici o vuotamente retorici. La concertazione delle voci sempre pulita, gli attacchi precisi, dati con semplici ma evidentemente efficaci gesti della mano sinistra. Insomma, non siamo in presenza di una mummia ambulante, come ingenerosamente qualcuno lo ha voluto dipingere, tutt’altro!

Piermarini non esaurito, ma neanche semivuoto, e ben disposto all’applauso per l’intera compagnia. Una serata (parlo dei suoni) per me complessivamente positiva.

06 febbraio, 2013

Nabucco resta in brache di tela alla Scala


Secondo titolo verdiano nella stagione del centenario: dopo Falstaff (ultima opera del Maestro) ecco Nabucco, che se non è la prima, poco ci manca (ma fra qualche tempo è in programma anche Oberto, proprio la prima). Una produzione nuova affidata al duo Luisotti-Abbado (Daniele, oh…) che esordisce qui per trasferirsi poi a Londra, Chicago e Barcellona.

Ieri sera terza recita, in un Piermarini abbastanza affollato, ma dove si notava a colpo d’occhio l’enorme vuoto lasciato dal bandito Isotta Paolo (smile!) (In un primo momento avevo pensato – dati i tempi piuttosto duri - di approfittarne, chiedendo a Lissner di girare a me il pass dello sgradito, ma nel frattempo un manichino ambulante con rassicurante sorriso a 64 denti mi ha garantito il rimborso dell’IMU e l’eliminazione di ogni altra tassa, più in omaggio un DVD con la Strepponi che fa il bunga-bunga, e allora ho deciso di soprassedere e di continuare a pagarmi di tasca mia l’abbonamento, garantendomi così anche l’indipendenza di giudizio… ultra-smile!

Luisotti ha diretto con onesta pulizia e (per me) con grande attenzione a non farsi prendere la mano da eccessive enfasi (forse doveva farsi perdonare qualche critica di eccessiva foga che si era beccato l’altr’anno dirigendo qui Attila).

A mo’ di esempio, citerò l’Andante maestoso su D’Egitto là sui lidi, dove abbiamo un volgarotto cèccè/pùm-cèccè/pùm, scandito da archi, triangolo e corni su ogni semiminima delle battute in 4/4, che accompagna la prosaica linea melodica, ora esposta dal coro (Di lieto giorno un so-o-o-o-o-le) sottolineata in unisono da trombette, tromboni e fagotti:
 
Qui se non si dosano al meglio – come ha saputo fare Luisotti - gli ingredienti sonori (tutti, voci e strumenti, sono notati in piano…) c’è il rischio di ottenere l’effetto di una banda di paese della bassa che avanza verso la chiesa, seguita da un coro di contadini e contadine vestiti della festa e inalberanti effigi di Marie Vergini e Cristi Re!

Quindi, il maestro per me si merita un ottimo voto.

Il coro di Casoni mi è parso all’altezza, anche se proprio dopo il Va’ pensiero sono piovuti alcuni isolati buh dal loggione (peraltro compensati da lunghi applausi e bravi!)

Che dire dell’inossidabile Leo Nucci? Che - ahilui - forse si sta un tantino ossidando (smile!) La sua capacità di auto-gestione è sempre grandissima (anzi di certo aumenta con l’esperienza di decenni!) ma le pecche fatica sempre di più a coprirle, prima fra tutte l’intonazione spesso trovata a partire da un bel quarto di tono sotto, rispetto alla nota da scandire. E anche i non prescritti LAb acuti (duetto della terza parte e Oh prodi miei della quarta) non sono proprio stati delle meraviglie, diciamolo… Insomma, come gli accade da parecchio tempo ormai: per lui gran successo ma… alla carriera. A proposito di carriere, in aprile a Londra la parte sarà sostenuta – indovina? – dal Topone!

Vitalij Kowaljow sarebbe uno Zaccaria rispettabile se avesse più voce là dove la si richiede ad un basso (smile!) Invece dal LA grave in giù (i SOL e un paio di FA# cui Verdi lo chiama) il nostro sembra proprio cantare immerso in un acquario.  

L’Ismaele di Aleksandrs Antonenko fatica a meritarsi la mia sufficienza (e dire che io sono proprio di bocca buona!) Potenza notevole, ma impiegata in modo rozzo e scriteriato (tutto l’opposto di come dovrebbe essere il mite Ismaele); intonazione sempre problematica, più che altro crescente (forse per paura di… calare).

Liudmyla Monastyrska è stata a mio giudizio la migliore della compagnia (ma si sa che tutto è relativo!): alla gran voce ha unito una sorprendente (per me, almeno) capacità di espressione e di portamento (fondamentali per questo personaggio di donna altera e spietata, ma alla fine distrutta e convertita) oltre a discreta fluidità nei ripidi saliscendi in cui Verdi la impegna.

Però, accipicchia, come si permette di prendersi certe libertà?! Nella cadenza (compresa la ripetizione) del celeberrimo cantabile della seconda parte (Anch’io dischiuso…) al verso Chi del perduto incanto mi torna un giorno sol troviamo questa unica battuta, che Verdi prescrive tutta in legato:

Viceversa la Monastyrska la stravolge letteralmente: inserisce una pausa (di respiro?) prima del LA acuto sul quale, in compenso, si ferma poi con una corona puntata. Ora, dato che il passaggio non è di quelli che richiedono doti di apnea alla Majorca, dovrei dedurre trattarsi di una scelta estetica dell’abbondante Liudmyla: dalla quale scelta, invero sconsiderata, modestamente mi dissocio in-toto.

Discreta la prestazione di Veronica Simeoni (Fenena): voce bene impostata, anche abbastanza passante, e di timbro gradevole. Lodevole anche la sensibilità alle caratteristiche del personaggio di donna allo stesso tempo pia e coraggiosa.

Giuseppe Veneziano (Abdallo), Tatyana Ryaguzova (Anna) e il gran Sacerdote Ernesto Panariello: come da minimo sindacale.

Tirando le somme, una prestazione musicale appena dignitosa, che ai miei occhi mantiene quel livello di qualità (fossi Moody’s, oggi confermerei un rating Baa1) dopo la piccola risalita registrata già in occasione del Falstaff.
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Due impressioni sulla messinscena, che Daniele Abbado ha ripensato dopo quella di anni fa al Regio di Torino.

La sua concezione è diffusamente spiegata sul programma di sala, che ogni spettatore dovrebbe tassativamente leggere prima di assistere allo spettacolo, onde evitare di non capirci proprio nulla, tanta è la distanza fra i contenuti (testo e musica) dell’originale di Solera-Verdi che arrivano alle orecchie e ciò che dalla scena arriva agli occhi.

Sappiamo come Verdi avesse bisogno come l’aria di scenari di macro-conflitti a sfondo storico (o pseudo-storico, o biblico, nella fattispecie) da dipingere con grandi affreschi musicali, all’interno dei quali collocare i micro-conflitti delle personalità e degli affetti (amore, odio) dei singoli individui protagonisti dei suoi drammi. Ebbene, nella regìa di Abbado – sembra paradossale - manca proprio tutto, gli uni e gli altri (hai detto niente…)

Il conflitto, epico e anche mortale, fra due popoli e due etnìe -  basta leggere il libretto di Solera e ascoltare attentamente la musica di Verdi per capacitarsene (e lì gli ebrei non appaiono meno manichei e sanguinari degli assiri!) nell’allestimento di Abbado scompare, rimpiazzato da un non meglio definito scenario di disordine sociale, di continue sofferenze e di nichilistica rassegnazione di un unico e indistinto popolo. Per il quale il personaggio di Nabucodonosor non incarna il capo sanguinario e vanaglorioso di un altro e diverso popolo nemico mortale, ma una specie di proiezione delle proprie colpe secolari. Il che è un’interpretazione francamente forzata dell’ira del Nume sdegnato e del peccammo! che ascoltiamo in bocca agli ebrei nella prima scena.

Ma se guardiamo i costumi e le scene di Alison Chitty ci rendiamo subito conto che quell’unico popolo è il popolo ebraico ai tempi della Shoah: inequivocabili le lapidi disseminate in scena e le alte colonne laterali, che ci ricordano cimiteri ebraici e musei dell’Olocausto (che vedremo profanati all’arrivo di Nabucodonosor). Ma allora, accipicchia, se costui, invece di tale Adolf Hitler, è la proiezione dei sensi di colpa degli ebrei, dove andiamo a parare? Certo, mostrare il Führer nei panni del delirante despota assiro sarebbe stato demenziale, in quanto avrebbe comportato la finale farsa di un Ben Gurion che consacra un convertito Hitler come de’ regi il re!

Invece cosa vediamo noi in scena, all’arrivo di Nabucodonosor? Una situazione da sciopero selvaggio in una fabbrica occupata, nella quale fa il suo ingresso il titolare, il padrone, in elegante doppiopetto. Il quale sfida sprezzantemente gli scioperanti, prendendo a calci i volumi da loro deposti a terra, libri che dovrebbero rappresentare altrettante Bibbie, ma che nello scenario propostoci da Abbado dovremmo ipotizzare essere Das Kapital!   

E nel primo quadro della seconda parte, come spiegare il recitativo di Abigaille, che con una torcia dà fuoco a quelli che sembrano brandelli di quei libri della scena precedente? Forse la Bücherverbrennung del 1933? Mah…

E tutta l’opera prosegue su questa falsariga: uno scenario di indistinta sofferenza-insofferenza, mista a negativa rassegnazione. Ed è quindi fatale che l’unica scena che invece nel Nabucco originale evoca precisamente quella situazione e quello stato d’animo - il Va’ pensiero – finisca per perdere la gran parte della sua efficacia e del suo significato, immersa com’è in questa atmosfera uniformemente grigia (sì proprio grigia in tutti i colori di tutto ciò che sta in scena). Così come efficacia e significato perdono, ovviamente, tutte le scene che invece dovrebbero rappresentare la furia, l’ira, l’orgoglio, le manìe di grandezza e gli opposti integralismi religiosi. Il Nabucodonosor in canottiera sarà pure una metafora del famoso principio Il Re è nudo, ma diventa incoerente e incomprensibile in quello stesso scenario che Abbado gli ha costruito intorno.

Insomma, l’allestimento di Abbado ha il difetto – assai frequente nella prassi del Regietheater – di prendere una (piccola) parte o un solo aspetto del dramma originale per farne il tutto della messinscena. Così, in questo caso, ci viene nascosto il principale nocciolo drammatico di Nabucco, con la sua conclusione (tanto utopistica quanto storicamente inconsistente e ridicola) che sta nel prevalere del rapporto positivo fra individui (l’amore coniugale Fenena-Ismaele e soprattutto l’amore paterno Nabucco-Fenena) sul rapporto negativo fra politiche, imperialismi, ideologie e religioni guerrafondaie. Se si può indicare una morale della favola del Nabucco di Solera-Verdi, essa risiede nel fatto che la conversione di Nabucodonosor non è dovuta ai fulmini dell’immenso Jeovha, ma all’amore di un padre per la figlia; così come è l’amore fra Fenena e Ismaele a portare Abigaille a rinnegare il suo passato e la sua religione, rinunciando addirittura al supremo potere appena conquistato, di fronte alla constatazione che non c’è potere al mondo che possa surrogare la mancanza di amore.

In definitiva: un’operazione che non è né carne né pesce, equivoca e velleitaria al tempo stesso; un po’ come lanciare il sasso e… ritirare la mano.

19 giugno, 2012

L’onirica Luisa Miller di Martone-Noseda alla Scala


Ieri sera alla Scala settima (e terz’ultima) recita di Luisa Miller, con il (cosiddetto) primo cast, che però ha visto la prevedibile (date le vicissitudini recenti) sostituzione di Marcelo Álvarez con il suo secondo, Piero Pretti, annunciata da una speaker poco prima dell’inizio.

Opera bellissima, pur non potendosi definire capolavoro, nel soggetto come nella musica. Salvadore Cammarano costruì un mirabile libretto di dramma popolare che anticipa in qualche modo, quasi condensandoli, i contenuti della trilogia: un padre altolocato che ostacola l’amore del figlio per una diversa, ricorrendo anche all’inganno (Traviata); un altro padre, plebeo, che teme che la figlia venga sedotta da un potente (Rigoletto); un giovane innamorato che disprezza l’innamorata credendola traditrice (Trovatore). Prese spunto da Schiller, del quale Kabale und Liebe impiegò peraltro solo ciò che gli serviva (personaggi principali e canovaccio generale) ignorandone invece tutto il peso e in particolare i contenuti socio-politico-filosofici.

E Verdi ci mise tutta la dirompente carica – dei suoi anni di galera – per comporre questa grande opera romantica. La cui Sinfonia, dove si condensa l’essenza del dramma, contiene chiare tracce del romanticismo tedesco, come già a battuta 42, all’entrata del secondo motivo (o idea secondaria) che richiama quasi alla lettera (orchestrazione e tonalità incluse) un analogo inciso dall’Ouverture del Freischütz di Weber:
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In analogia al modello delle ouvertures mozartiane, la Sinfonia della Luisa, lungi dal presentarsi come un bigino dei temi delle arie principali dei tre atti che seguono, ne rappresenta la caratterizzazione profonda, con il suo unico tema (che non ricorre mai come specifico contenuto vocale di alcuna aria o coro o concertato, all’interno dell’opera) subito esposto con grande cipiglio, pur nel pianissimo, dai primi violini, che sembrano letteralmente evocare tre sussulti di un anima inquieta (gli anapesti che caratterizzano il tema e che vengono anticipati dagli altri archi):
Il tema, che trasuda agitazione e oscuri presentimenti, non solo comparirà esplicitamente nel terzo atto, a prefigurare l’epilogo tragico della vicenda, ma lo udiamo spesso e volentieri – magari in piccoli frammenti e in forme sottilmente derivate, o in motivi che ne presentano il ritmo inconfondibile - nei frangenti topici dell’opera, e sempre a metterne in risalto aspetti inquietanti o a preconizzare sventure, anche in  momenti apparentemente sereni e felici: insomma, è una specie di tema del destino di Luisa (ma non certo un Leit-Motiv, concetto che ancora doveva essere inventato, smile!)

Gli anapesti compaiono già nell’introduzione, sulla seconda frase di Luisa (Né giunge ancor) a sottolineare l’agitazione della ragazza che attende impazientemente l’amato:
 
E anche l’arrivo di Rodolfo sarà accompagnato da un marziale ritmo, proprio guidato da anapesti. Una variante del tema fa capolino poi sulle parole della protagonista (Iddio le avea in ciel) quando ricorda il suo incontro con Rodolfo e il relativo colpo di fulmine:
Invece è il ritmo del tema, con l’anapesto che lo caratterizza, a udirsi anche nel brillante T’amo d’amor ch’esprimere, che Luisa e Rodolfo cantano nel duetto dopo l’arrivo del giovane nella casa di lei:
E anche l’intervento di Miller (Non so qual voce infausta) che getta un’ombra sulla felicità dei due giovani, contiene i sinistri anapesti di cui il tema della sinfonia è pervaso. Poco dopo gli archi sottolineano l’entrata dello sbifido Wurm con figurazioni che, ancora una volta, derivano direttamente dal tema.   

Nel finale del primo atto, Miller rientra sconvolto dall’aver avuto conferma della vera identità di Rodolfo e del progettato matrimonio con la Duchessa, ed esprime la sua disperazione con poche parole, proprio su un frammento del tema del destino:
Subito dopo Rodolfo si ripresenta in casa di Luisa e le conferma, davanti a Miller, la sua promessa (Son io tuo sposo). È il clarinetto ad introdurre mestamente la sua esternazione, su un motivo che deriva dal tema principale della Sinfonia; poi appena prima del canto, espone la prima battuta del tema: qui è in MIb maggiore e non in DO minore, è vero, poiché la circostanza parrebbe fausta, ma il riferimento ritmico-melodico dell’intera frase del clarinetto non lascia presagire nulla di buono:
E poco dopo, infatti, quando Rodolfo canta A me soltanto e al cielo arcan tremendo è manifesto… (alludendo al delitto con cui suo padre conquistò la sua posizione) è ancora il clarinetto, con il fagotto, a sottolineare questa esternazione con terzine che rimuginano l’incipit del tema:
Immediatamente dopo, all’arrivo di Walter, un’altra forma derivata del tema – che ne contiene la cellula anapestica - ne accompagna la proterva pretesa di ristabilire l’ordine:
E ancora la udiamo nel successivo sfogo di Miller, offeso dal conte nell’onore della figlia. E anche il grandioso Deh! mi salva di Luisa altro non è se non una forma variata e dilatata della cellula del tema principale.

Nel secondo atto ancora udiamo negli archi la cellula anapestica del tema del destino: dapprima quando Wurm si appresta a dettare la falsa confessione a Luisa; poi sull’esternazione della ragazza (A brani, a brani o perfido); e quindi quando il medesimo Wurm notifica a Walter il procedere dell’intrigo. Ed essa torna poco dopo, durante l’incontro fra Federica e Luisa, quasi a condizionarne l’andamento, sotto la pressione delle minacce di Walter e Wurm alla poveretta.

E allorquando Rodolfo entra in possesso della (falsa) confessione di Luisa, è ancora una variante del tema a sottolinearne la tremenda agitazione:

E un’altra volta si affaccia subito dopo il mancato duello Rodolfo-Wurm, all’accorrere di armigeri e famigliari e quindi ancora nel drammatico dialogo di Rodolfo col padre.

Il terzo atto poi, fin dalle primissime battute, è sinistramente illuminato da questo tema del destino, che ormai si avvia al suo compimento:
Essendo qui notato con valori dimezzati, rispetto alla Sinfonia, e soprattutto a causa del metronomo  (ridotto quasi ad un quarto: 69 rispetto a 252) e nonostante l’abbreviazione del secondo dei tre sussulti (una semiminima invece di 2, per comprimerlo nel tempo di 3/4) il tema suona assai più lento che nella sua iniziale proposizione, con quasi il doppio di durata (matematicamente l’intera cellula tematica qui prende 5,22 secondi, nella sinfonia 3,33).

Interessante è proprio la manipolazione del secondo inciso, che rende la melodia, per così dire, zoppicante, asimmetrica, conferendole un carattere ansioso e caricandola di ulteriore tragicità; quindi pienamente adatta a sottolineare il canto di Laura e del coro Come in un giorno solo, come ha potuto il duolo stampar su quella fronte così funeste impronte? e il successivo invito di Laura Ah! l’infelice ignori qual rito nuzial s’appresta. Ma nel frattempo l’inciso anapestico, nel clarinetto, aveva anche infettato l’esternazione di Luisa A questo labbro più non s’appresserà terreno cibo! (chiaro riferimento al suo proposito suicida) e poco dopo tornerà, negli archi bassi, a sottolineare il presentimento di Miller: Il cor mi serra non so qual rio presagio!...

Il tema del destino torna – e per l’ultima volta, ormai - sulle drammatiche parole di Miller (che in realtà sta leggendo il proposito suicida che la figlia ha scritto per Rodolfo) Havvi dimora, in cui né inganno può, né giuro aver possanza alcuna...

Anche qui il tema è sottilmente variato rispetto all’originale: ora è il terzo sussulto ad essere compresso in una semiminima (invece di 2) quasi ad evocare l’improvviso precipitare della situazione. Il metronomo (80) fa sì che la durata della cellula tematica (6 semiminime) sia un poco inferiore a quella delle battute introduttive dell’atto (4,5 secondi contro 5,22).

La successiva progressione, che vede la cellula ripetuta sei volte, partendo da gradi sempre più alti (LA-SIb-DOb-REb-MIb-FA) mirabilmente esprime la crescente costernazione del padre alla lettura del messaggio della figlia a Rodolfo, costernazione che sfocia nel tremendo LAb di tutta l’orchestra, mentre il foglio cade di mano  a Miller, che mormora Sotto al mio piè il suol vacilla!...      

Poi, nel tragico duetto fra Rodolfo e Luisa, già posseduti dal veleno, sarà ancora l’inciso anapestico a comparire più volte. Compiutosi il destino, con lui se ne andranno anche i segni musicali che ne hanno accompagnato il materializzarsi.
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L’ambientazione pensata da Mario Martone è – parole sue – di stampo fiabesco-onirico. E ciò si giustificherebbe con le pesanti modifiche ambientali che Cammarano apportò al dramma di Schiller. Insomma, portandoci il libretto - da una città della Germania - in una malga del Tirolo e venendo a mancare il personaggio della madre di Luisa, ecco che la vicenda – secondo il regista – perde ogni carattere di realismo e diventa un sogno. Dove però – sono sempre parole di Martone – tutto ciò che accade sembra proprio reale… (smile!)   

Altra perla del regista (ascoltata nel video accessibile dal sito web del Teatro): l’assenza di costumi d’epoca mette il cantante in rapporto diretto con se stesso e con lo spettatore. Quindi abiti moderni, perché interpreti e spettatori possano vivere meglio la vicenda, evitando di farsi quattro risate al cospetto di gente abbigliata in modo bizzarro. Peccato però che lo strumento usato da Luisa per scrivere la confessione dettatale da Wurm non sia – come sarebbe coerente con la vision registica – Winword, ma una bella e lunga penna d’oca (stra-smile!)

Il letto è il protagonista-centrale dell’allestimento martoniano. Se leggiamo il libretto, scopriremo che effettivamente il letto vi compare, una volta sola. Ma è un letto assai particolare, come ci spiega Luisa poco prima della fine: La tomba è un letto sparso di fiori… Immagine invero poetica uscita dalla fervida penna del buon Cammarano. Ora, innalzare questo pezzo d’arredamento a simbolo dell’intero allestimento può spiegarsi solo in coerenza con la visione onirica del regista, chè – di solito almeno – è proprio a letto che si sogna. Ma ciò che invece lo spettatore capisce è che il letto, oltre ad essere lo strumento per sognare, è anche l’obiettivo (freudiano?) dei sogni di taluni (e talune).

Così rappresenta dapprima le aspirazioni (innocenti?) di Luisa: tutto candido e ricoperto di fiori (quindi sarebbe la tomba?) accoglie l’incontro fra i due innamorati. Poi quelle dello sbifido Wurm, che smania (più che sognare) per portarvici Luisa, impeditone però da Miller, che ricopre il letto con il lenzuolone bianco (la purezza della figlia?) per far capire al bavoso che quel posto lui se lo deve scordare.     

Letto che può venire benissimo a proposito nel caso di Federica, la cui caratterizzazione mi è parsa convincente: lei è una donna che ha avuto tutte le ricchezze immaginabili e desiderabili, ma le è purtroppo sempre mancato un manico. Ora che è tornata libera – ma evidentemente con qualche annetto in più sul groppone sui glutei (mi riferisco al personaggio, non all’odierna interprete, per carità) – altro non cerca che un maschio con cui finalmente usare il letto (che non per nulla viene ricoperto di lenzuolone e cuscini rosso-scarlatto) in modo piacevole e… sanguigno; e meglio ancora se quel maschio è uno che già eccitava le sue fantasie fin da quando frequentavano insieme le elementari; e di fronte al quale la bellona non esita a mettersi in desabillé per rinfrescargli la memoria.

Un altro pezzo d’arredamento (talvolta usato come alcova per imprese erotiche) – una poltrona, smile! - fa anche da scenario dell’odioso ricatto del vile verme Wurm (ma sì, mettiamoci pure una Stabreim!) ai danni della povera Luisa. Pochi dubbi che il tristo figuro abbia una voglia matta di scoparsela seduta (in poltrona) stante, ma qui pare che il regista esageri un filino, propinandoci una motivazione proprio hard-core della giusta indignazione della pudibonda ragazza, che sbotta: A brani, a brani, o perfido, il cor tu m’hai squarciato!

In casa Walter vengono portati in scena anche alcuni spezzoni di un’aula parlamentare, sui cui scranni prendono posto i rappresentanti della casta di quei tempi. La cosa sarebbe più plausibile se si rappresentasse il dramma di Schiller, tutto intriso di significati politici, mentre (almeno stando a Cammarano) nella Luisa dovremmo trovarci in una malga del Tirolo dell’inizio del 1600… smile! Ma vuoi vedere che si tratta invece di un trucco come un altro che il regista si è inventato per insinuare che i parlamenti di oggi non sono per nulla più democratici delle corti assolute di 400 anni fa? Nel primo atto gli scranni circondano il lettone rosso dove la provocante Federica cerca invano di soddisfare le sue smanie con il ritroso Rodolfo. Parrebbe quindi un’apologia, o una velata satira, dell’attuale camera dei deputati, trasformata tempo fa da un nostro ex-PM in luogo di supporto alle sue simpatiche burlesque.   

Il letto torna poi completamente bianco nel terzo atto, allorquando Luisa vi sogna effettivamente la tomba, sogno che non tarderà a materializzarsi.

Insomma, un’ambientazione – quella di Martone - fra l’intelligente e il bizzarro, che non mi sentirei di censurare totalmente, ma che vanifica almeno in buona parte gli sforzi con cui il librettista aveva cercato di poetizzare la vicenda. 
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Leo Nucci è il trionfatore di questo allestimento: la sua voce non sarà più perfetta, ma francamente il suo Miller è ancora di livello eccellente. Strepitosa, vocalmente, la sua salita al LAb dell’onor, anche se drammaticamente fa un poco scadere la nobile figura del vecchio padre a vanesio personaggio da tenorino in calore…

Elena Mosuc – accolta da ovazioni - non mi è troppo piaciuta: la sua incarnazione del tormentato personaggio di Luisa è convincente nel suo lato intimista, dove ascoltiamo una bella voce e acuti in mezzo-forte benissimo eseguiti; invece piuttosto volgarotta quando si tratta di far venir fuori la grinta: qui il canto, soprattutto in alto, tende assai verso il bercio. Insomma, una prestazione decorosa, ma non entusiasmante, nonostante la facilità con cui la Mosuc sale al REb sovracuto, che arriva al termine di una parte già di per sé faticosa e costellata da DO in abbondanza.

Conferma le sue doti Piero Pretti, che già si era fatto apprezzare nelle recite precedenti, compresa quella in cui era stato catapultato in scena di punto in bianco, dopo la rottura di Álvarez. Voce chiara e piuttosto leggera, ma abbastanza appropriata a scolpire la natura di questo personaggio pieno dei classici complessi da figlio-di-papà. Per lui consensi unanimi del pubblico.

Lo sbifido Wurm è benissimo impersonato da Kwangchul Youn, che in Verdi, come in Wagner, è ormai una sicurezza. Martone lo gratifica anche di un chiaro handicap fisico, così, tanto per infierire.  

Vitalij Kowaljow è un più che discreto Walter, peraltro un poco, diciamo così, sbiadito, almeno per come immagino il ruolo del conte, ricco di psicologiche contraddizioni.

Daniela Barcellona è una Federica professionalmente impeccabile, scenicamente perfetta (per come il regista immagina questo personaggio). La sua è una parte relativamente facile, e lei mostra di padroneggiarla assai bene, meritandosi grandi applausi.     

Valeria Tornatore (Laura) e Jihan Shin (un contadino) si sono guadagnati, come si suol dire - e specialmente la prima, più impegnata - la pagnotta.  

In bella evidenza il coro di Mario Casoni (che il redattore delle locandine web deve avere in uggia, visto che lo ignora regolarmente…)  

Da ultimo, Gianandrea Noseda. Si è letto di qualche contestazione nelle precedenti recite (evidentemente anche lui fatica a sfatare il vecchio adagio nemo propheta in patria…) Ieri invece solo applausi, compresi i miei (che sono di parte, essendo suo concittadino). Però, fossi in lui, qualche esagerazione nei fracassi me la sarei risparmiata…

In definitiva, uno spettacolo dignitoso, ma siamo sempre lì: dalla Scala non ci si dovrebbe aspettare di più?