È dal 1990 che La
traviata che si rappresenta alla Scala è sempre la stessa: sì,
certo, quella di Verdi. Ma io mi riferisco alla messa in scena da Liliana Cavani. Per dir la verità
un’eccezione (ma proprio unica) si è registrata negli ultimi tempi: fu a
SantAmbrogio del 2013 con la produzione del genio Tcherniakov (Gatti sul
podio e Lissner alla soprintendenza).
Poi già nel 2017 tornò quella che era stata impiegata in ben altre 8 stagioni
(91-92-95-97-01-02-07-08) dopo quella dell’esordio.
Delle due l’una: o nei magazzini del
teatro sono andate a fuoco le scene (ma anche i testi della sceneggiatura) del
regista russo, oppure mi sa proprio che quella del 2013-14 non fosse una
produzione destinata ad entrare nella storia...
___
Ecco, sistemati rapidamente l’epicedio
per Tcherniakov e l’epinicio per Cavani, vengo al sodo, cioè alla parte strettamente
musicale della serata. Che ha avuto per protagonista Myung-Whun Chung, già da come
si è presentato con il Preludio,
attaccato con un ppppp quasi
impossibile, e poi caratterizzato (in ciò farà il paio con l’altro preludio) da
sapienti incertezze di agogica che sembravano descrivere l’instabilità fisica
(e pure psichica) della protagonista.
La quale è Marina Rebeka da Riga, che mi è parsa progredire nel corso dei
quattro quadri dell’opera, dopo un avvio non proprio impeccabile, compreso l’attacco
del primo Sempre libera. Forse (e
senza forse) erano per lei gli isolati ma chiari buh piovuti dalla seconda galleria all’uscita dopo il primo atto:
certo, se motivati solo dall’assenza del famigerato MIb finale, allora sarebbe da buare il buatore. Non particolarmente
memorabile anche l’interpretazione, un po’ carente di... carisma; tutto sommato
una Violetta appena discreta, che però, come detto, è cresciuta via via e ha
finito per meritarsi i consensi arrivati alla fine. Adesso, passata quasi
indenne dalla rottura del ghiaccio, c’è da aspettarsi che possa solo migliorare
ancora.
Francesco Meli è invece un Alfredo
ben centrato sul personaggio. Mi pare stia ultimamente un po’ esagerando con l’impiego
della mezza-voce, voce che per il resto è sempre un piacere ascoltare.
Leo Nucci ormai ha l’età
di... nonno Germont! Ma è un nonno che canta ancora come e meglio del figlio
(cioè di Germont-padre, sia chiaro, non vorrei offendere Meli). Efficace anche (come
sempre, del resto) la sua interpretazione, efficacia già manifestatasi all’entrata
in scena, proterva e minacciosa. Così come il progressivo... ammorbidimento,
fino al conclusivo mea-culpa.
Tutti gli altri
- la Flora di Chiara Isotton, Douphol
di Costantino Finucci, Grenvil di Alessandro Spina e Obigny di Antonio Di Matteo - su standard più che
dignitosi, come quelli degli accademici Caterina
Piva (Annina), Riccardo Della Sciucca
(Gastone), Sergei Arbkin (Giuseppe) e Jorge Martiniz (domestico).
Tutto sommato,
una compagnia bene assortita cui ha... tenuto compagnia il solito splendido
coro di Bruno Casoni (anche qui dopo
una partenza non centratissima).
Durante la recita
applausi a scena aperta sempre piuttosto contenuti; alla fine e alle singole
uscite invece il consenso è cresciuto e i protagonisti - compresa l’immarcescibile
Liliana Cavani - hanno avuto la loro
buona dose di applausi. Per il
Direttore, anche ovazioni e bravo!
(pienamente meritati).
Che dire, questa
è una di quelle proposte dove i rischi superano di gran lunga le speranze di
successo; quando invece il successo (pur contenuto) arriva... la scommessa è vinta.
Nessun commento:
Posta un commento