Oggi pomeriggio l’Auditorium (discretamente frequentato) ha ospitato il secondo
concerto dell’appuntamento n°13 della stagione. Sul podio ancora il Direttore Musicale, mentre al
pianoforte, per ben due impegni, si è rivisto quell’Alexandre
Tharaud che era stato ospite de laVerdi nel settembre 2017 per l’apertura di stagione alla Scala.
Si parte con Haydn e con il suo Concerto per pianoforte - o clavicembalo - e orchestra in RE maggiore. Interessante,
oltre che piacevole, ricordare come, quasi 7 anni fa e proprio con Flor sul podio, ne abbia dato una
convincente interpretazione con l’arpa
solista la bravissima Elena Piva, prima parte de laVerdi allo strumento.
Concerto di
struttura assai semplice, ma non per questo banale, anzi. Il Vivace iniziale (4/4) è monotematico,
con il motivo esposto prima in RE, poi in LA e quindi sviluppato con passaggi
anche sulla relativa SI minore. Lo chiude una cadenza (non scritta).
Stesso discorso
per il centrale Un poco adagio, 3/4 in LA
maggiore. Il tema principale, anche qui assai semplice, ma tutt’altro che
disprezzabile, viene proposto dall’orchestra e passa poi al solista. Quindi
viene sviluppato in una poetica sezione centrale nella dominante MI, prima di
tornare sul LA per la ripresa. Anche qui è una cadenza solistica a precedere la
chiusura del movimento.
Chiude
il concerto un Rondo all’ungherese, Allegro assai, 2/4
in RE maggiore. È il solista ad esporre per primo il tema principale, poi
imitato dall’orchestra. La struttura (A-A’-B-A-C-A) si basa su elaborazioni
continue di questo tema. Dapprima riesposto sulla dominante LA maggiore, dove
viene sviluppato dal solista con ulteriori modulazioni (MI, DO) prima di
tornare al LA. Ecco poi una sezione in RE minore, dove il tema è ancora
variato, con pesanti interventi dei corni (tonica-dominante) prima di tornare
in RE maggiore. Altro episodio nella relativa SI minore prima del definitivo
ritorno alla tonalità d’impianto.
Tharaud - che
come sempre si tiene lo spartito sul leggio - ne dà una lettura in punta di...
dita, curiosamente quasi a voler simulare il clavicembalo, se non proprio l‘arpa.
Dopo i meritati
applausi, questo cinquantenne dall’aria sbarazzina torna subito alla tastiera
per proporci il celeberrimo (grazie anche ad... Elvira Madigan!) Concerto in DO, K467 di Mozart, composto solo 3 anni dopo quello
di Haydn. Ma le differenze sembrano separare i due lavori di qualche lustro,
anche se sono più accentuate sul lato dell’accompagnamento orchestrale che su
quello della scrittura pianistica.
Accattivante l’interpretazione
di Tharaud che poi risponde alle reiterate chiamate congedandosi con questo Scarlatti!
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Ha chiuso il
concerto la Quarta di Franz Schmidt.
Del compositore austriaco si potrebbe dire - con una battuta in filino irrispettosa
- che fosse uno che arrivava sempre in ritardo (musicalmente parlando) di una
ventina d’anni sui tempi. Così, scomparso da poco Mahler, lui scrisse un
sinfonia (la sua seconda) ispirandosi
a (o scimmiottando, secondo i maligni...) Bruckner - suo maestro - e Brahms.
Vent’anni dopo, in compenso, scrisse questa quarta
che si potrebbe scambiare per... l’undicesima di Mahler (suo Direttore alla Hofoper dove lui suonava il violoncello)!
Ecco, questa specie di marchio di
inattualità ha certo pesato, insieme alle vicende legate alla politica e ai
rapporti del musicista con il nazismo, sul giudizio non proprio lusinghiero
dato su di lui e spiega il dimenticatoio nel quale le opere di Schmidt sono
cadute. Riesumarle, come ha fatto laVerdi
con la Seconda e ora con la Quarta, è operazione comunque
apprezzabile, quanto meno dal punto di vista filologico. (E al proposito mi
permetto un suggerimento, per una prossima stagione: presentare una Sinfonia di
Kurt Graunke, magari la Quinta...)
Sinfonia con
tragici legami autobiografici - la triste vicenda della grave malattia mentale della
prima moglie, internata in un manicomio, dove sopravvisse al marito che nel
frattempo sposò una sua allieva; la sua stessa salute malferma; e finalmente la
morte prematura della figlia, in seguito al suo primo parto - che ne
indirizzarono il taglio e i contenuti: un Requiem,
come lo stesso compositore ebbe a definirla.
Mahleriano è il
lugubre recitativo di apertura affidato alla tromba (sullo stile di quello
delle viole della Nona): un motivo
atonale che torna - come l’altro tema suo parente della sezione iniziale, assai
lirico - ciclicamente nel corso della sinfonia. Così come mahleriano e
bruckneriano è l’impiego del gruppetto,
una figurazione che caratterizza questo lavoro di Schmidt.
La sinfonia
presenta quattro sezioni (più che veri e propri movimenti classici) tra loro
giustapposte senza soluzione di continuità. Non vi manca lo Höhepunkt, nella seconda
sezione in Adagio, e anche qui non si
può evitare un riferimento ad un altro Adagio,
quello della mahleriana Decima (a sua
volta di chiara ascendenza parsifaliana).
L’unico chiaro
stacco di agogica è individuabile con l’inizio della terza sezione (Molto vivace, 6/8) che rappresenta in un
certo senso lo Scherzo classico (ma
sa anche di saltarello... fugato) dove si riaffacciano anche i motivi
ricorrenti. Essa sfocia, con un progressivo spegnersi, nell’ultima sezione, che
riprende a sua volta i motivi della prima, con accenti anche qui chiaramente
mahleriani nei corni e poi negli archi. Essi conducono - dopo ultimi sussulti
di vitalità, ancora scopertamente mahleriani - alla ricomparsa del recitativo
della tromba e allo spegnersi del suono, sul DO conclusivo.
Che dire? Quando
in una composizione di 40 minuti o giù di lì si ha per almeno una dozzina di
volte la sensazione del déja-entendu...
ecco, è difficile esaltarsi. Certo, c’è di molto peggio in giro, se è per
quello.
Pubblico
comunque prodigo di applausi per tutti e per le singole parti, giustamente
chiamate da Flor a godersi il meritato riconoscimento per la prestazione
tecnicamente ineccepibile.
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