XIV

da prevosto a leone
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26 luglio, 2021

L’Olandese di Cherniakov a Bayreuth

Premesso che un giudizio complessivo su una regìa è possibile esprimere solo dopo aver assistito (magari in TV, ma meglio se dal vivo...) allo spettacolo, ciò che già si può commentare del Konzept del regista russo è la sua scopiazzatura di idee applicate da altri registi in simili circostanze: Freud!

Si immagina quindi che l’Olandese non stia scontando un peccato di superbia e un patto col diavolo, ma abbia subito da adolescente un trauma famigliare (la madre trascinata in una tresca e indotta al suicidio) e che passi il resto dei suoi giorni a cercare - per vendicarsi - l’autore del misfatto. Che si scopre essere, toh, Daland in persona! Così Senta (una ragazzina ribelle) invece di dover redimere il peccatore ne diventa lo strumento di vendetta verso lo sbifido padre. Dopodichè l’Olandese, ottenuta la vendetta, spara sulla folla riunita per il suo matrimonio, incendia il paese e si giustizia da solo!

Come è evidente, se ci si inventa di sana pianta il movente di tutta la vicenda, allora tutta la vicenda assume aspetti totalmente divergenti da quelli del testo originale (per il quale era stata composta la musica): nella fattispecie un’opera romantica (!) si trasforma magicamente in un crudo reportage su un caso clinico e le relative conseguenze.

Mi viene in mente il Faust (Damnation) di Michieletto, la cui esistenza è condizionata da traumi giovanili (famiglia squinternata e bullismo subito a scuola): insomma, nulla di nuovo sotto il sole, menchemeno a Bayreuth, ormai avvezza al fenomeno.

25 luglio, 2021

L’Olandese con il Covid a Bayreuth

Come paventato, (quasi) all’ultimo momento l’emittente bavarese ha informato che - per ragioni legate a diritti (dei soliti noti) - lo streaming dell’Holländer si riceve solo in Germania... e morta lì. Ci si è quindi dovuti accontentare dell’audio di Radio3 (che riprende comunque l’emittente bavarese). Intanto ecco come una spia di Amfortas presenta il backstage del teatro in tempi di Covid!

Oksana Lyniv sarà di sicuro ricordata negli annali come la prima persona di genere non maschile (!) a calcare il podio del tempio wagneriano. Ma anche per non aver fatto rimpiangere (almeno dall’ascolto via etere) i maschietti che l’hanno preceduta negli anni: se posso citare un suo merito ricorderò la moderazione con cui ha trattato la prima scena del terzo quadro, che altri direttori (Thielemann incluso) trasformano di solito in una parata di panzer...

Di buon livello le voci, con in testa la Senta di Asmik Grigorian, che mi pare adatta proprio a ruoli wagneriani come questo o simili (Elsa, Elisabeth, Eva...) John Lundgren se l’è cavata bene con le ostiche e contorte arie dell’Olandese, mentre il navigato Georg Zeppenfeld ha onorevolmente impersonato il prosaico Daland. Eric Cutler è stato un discreto Erik, forse un po’ emozionato nella sua aria di esordio, mentre alla Marina Prudenskaya (la tata Mary) darò giusto una sufficienza. Meglio di lei il Timoniere di Attilio Glaser.

Sempre impeccabili l’Orchestra e il Coro che sono il fiore all’occhiello del Festival.

Sulla regìa di Cherniakov... leggeremo i commenti nelle prossime ore.
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Radio3 trasmette anche Meistersinger (26/7) e Tannhäuser (27/7): il sito annuncia come orario di inizio le 18, quindi sono delle differite di due ore (dalla radio bavarese).

20 luglio, 2021

Bayreuth riparte... piano

Dopo il forzato annullamento del 2020, virus imperante, il Festival wagneriano riapre i battenti per la 109esima volta (dal 1876) con un programma ridotto rispetto agli standard: saranno 25 gli eventi in calendario, mai così pochi dal lontano 1955 (primi anni dopo la riapertura del ’51) contro i 32 raggiunti proprio negli ultimi due anni recenti (‘18 e ‘19). Ridotta anche la capienza della sala, a soli 900 dei quasi 2000 posti nominali. 

Ci sarà comunque - come d’obbligo - una nuova produzione, orientata ...all’est: infatti l’Holländer sarà diretta dalla 43enne ukraina Oksana Lyniv (prima quota-rosa a scendere sul podio giù nell’Orchestergraben) e inscenata dal controverso quanto famoso Dmitri Cherniakov. Per il resto abbiamo due riprese (Meistersinger e Tannhäuser) più un assaggio di quello che doveva (o dovrà? ma c’è da dubitarne... il 2026 è alle porte) essere un nuovo Ring: tre recite della Walküre diretta dall’esordiente Pietari Inkinen e proposta scenicamente dal venerabile Hermann Nitsch, visionario action-artist.

Completano il calendario tre concerti: un Parsifal diretto da Thielemann (a proposito, ancora oggi non è chiaro se lo scorbutico Christian verrà riesumato come Direttore Musicale del Festival...) e due antologie, con il primo atto di Walküre e brani da altri drammi, affidate al redivivo Andris Nelsons.

Si parte quindi domenica 25 luglio alle ore 18 con... Daland (!) L’Olandese, rappresentato a Dresda nel 1843 e successivamente ritoccato (ma Bayreuth resta fedele all’originale, quindi senza intervalli... altrimenti l’ora di inizio sarebbe alle 16) è la quarta opera di Wagner e la più giovane ad essersi visto riconosciuto (non certo dall’Autore, ma dalla terribile Cosima) lo status di dramma rappresentabile nel tempio (per la prima volta nel 1901). Sull’ostracismo nei confronti delle giovanili Feen e Liebesverbot si può magari concordare: meno su quello riservato a Rienzi. Il quale sconta evidentemente il peccato di essere stato concepito come Grand Opera, un genere successivamente sconfessato dalle teorie rivoluzionarie di Wagner (che però nel frattempo aveva prodotto Tannhäuser e Lohengrin, due GrandOpera sotto mentite spoglie... ma ammessi di diritto ai palinsesti del Festspielhaus.) La tenutaria Kathy aveva in passato manifestato la volontà di accogliere anche Rienzi nel Pantheon di casa, ma non se n’è fatto più nulla.

Tornando a bomba, l’Olandese è alla 41esima presenza stagionale e al suo 11° allestimento. Domenica Radio3 ci sarà. L’emittente bavarese, oltre che i suoni, trasmette anche in streaming video (ammesso che non sia ristretto al solo suolo crucco...)

26 luglio, 2014

Bayreuth: l’Olandese svolazza


Rispetto ai due precedenti cicli (12 e 13) dove solo Thielemann (con orchestra e coro) aveva tenuto a galla il barcone, oggi mi è parso che le cose siano andate un filino meglio. Forse gli interpreti confermati dal 2013 hanno fatto esperienza, fatto sta che ne è uscito un Holländer più che dignitoso, fermo restando che stiamo giudicando da un ascolto dal morto (smile!)

In particolare non mi sono dispiaciuti la Senta della Merbeth e il protagonista Youn (Samuel, che ricordiamo fu chiamato all’ultimo momento due anni fa a sostituire il collega tatuato a svastiche). L’unica novità del 2014 era l’altro Youn (il più famoso Kwangchul) il quale ha una tecnica invidiabile, ma forse è troppo abituato a ruoli seri (il Langravio di ieri, o Fasolt o Gurnemanz o il mozartiano Commendatore) oppure truci (dopodomani farà Hunding) e quindi ha tirato fuori un Daland fin troppo austero, mentre sappiamo che il navigatore-trafficone norvegese è un gran paraculo dai principi etici quanto meno discutibili. 

Tornando a Thielemann, sappiamo che lui fa i suoi scarabocchi sulle partiture, a cui resta indefessamente fedele; così anche oggi ha gestito a parer suo i tempi (esempio lampante, la prima parte del terzo atto). Ormai bisogna prenderlo così (lui certo non cambierà le sue abitudini): è il prezzo da pagare per poter godere della sua bravura…  

25 luglio, 2013

Bayreuth 2013: un’apertura poco volante


Non ci fosse il carisma di Thielemann a tenerlo a galla, il baraccone malmesso di Bayreuth (pare che l’edificio stesso del Festspielhaus sia lì lì per cascare a pezzi…) rischierebbe di finire proprio come la nave dell’Olandese: a fondo!

Oltre ad Orchestra e Kapellmeister si è salvato (per me) solo Samuel Youn (che l’anno scorso fu catapultato quasi a sua insaputa nel title-role) insieme al Coro. Forse non sarà poco, ma di certo non è il massimo.

Selig è un Daland ancora e sempre da osteria (farà anche Hunding, così finalmente sarà a... casa sua!) e i due nuovi acquisti di questa edizione (Ricarda Merbeth e Tomislav Muzek, nei ruoli della coppia… disfatta) non mi hanno per nulla entusiasmato. Gli altri nell'anonimato, come lo scorso anno.  





















Da domani, l’Anello di… petrolio.

13 marzo, 2013

Sulla Scala un olandese che vola basso


Una regìa più ridicola che velleitaria; una compagnia di canto tendente al mediocre; un podio francamente deludente. Così questo Olandese abbassa ancora la media dei voti della Scala in questa stagione che doveva essere di livello storico
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Andreas Homoki, ahilui, non può nemmeno accampare la scusa di essere un giapponese che non conosce bene il tedesco (smile!) per giustificare le sciocchezze della sua regìa. Lui è un intelligentissimo crucco di origine controllata e garantita e oggi è addirittura il Lissner del Teatro dell’Opera di Zurigo (al che ho realizzato quale immensa fortuna abbiamo noi milanesi ad avere un soprintendente che non si diletta – perlomeno ancora – di regìa…)   

Il suo soggetto è a dir poco sconvolgente e meriterebbe di vincere premi letterari in quantità industriale. C’è dentro di tutto: un po’ di Conte di Montecristo, poi l’epopea del capitalismo, forse anche lo spread; la crisi del colonialismo e persino l’avvento di Bokassa (smile!)

Il problema non sta certo nell’ambientare la vicenda in qualche sede londinese di società di trading: quanto poco, anzi nulla, a Wagner importasse dove la vicenda materiale si svolge lo testimonia il fatto che cambiò lui per primo l’ambientazione, spostandola dalla Scozia (teatro dell’azione nei racconti che ispirarono l’opera) alla Norvegia (forse in ricordo della personale esperienza colà vissuta sul barcone Thetis).

Invece il problema sta nella società che il regista ci presenta a far da sfondo alla vicenda centrale dell’opera - rappresentata dal rapporto peccato-redenzione, alias Holländer-Senta - e nei personaggi che in questa società si muovono.

Non siamo più in un ambiente sostanzialmente familiare, da economia autarchica, dove i rapporti umani sono improntati a un vago socialismo paesano; dove Daland, per dire, non sarà propriamente uno stinco di santo, ma neanche un bieco e truce capitalista sfruttatore (Dev’essere comico, prescriveva Wagner, come conferma la musica che lo sorregge, perdinci, da tutti bollata come scopiazzatura di Auber, una cosa da donnicciuole o da invertebrati…); dove Mary è la tata di Senta che fa anche da chioccia alle ragazze del paese riunite in casa sua a filare allegramente all’arcolaio, cantando simpatiche filastrocche. Insomma, un ambiente magari fin troppo sereno e ricco di arcaica poesia nordica, della quale fanno parte anche i fenomeni naturali più preoccupanti, come gli uragani e le tempeste di mare.

No, invece il regista ci trasporta in pieno sistema capitalistico-colonialistico, quello che si stava consolidando, o cominciava a sperimentare qualche crisi, a fine ‘800; Daland è il CEO di una grande società mercantile con traffici planetari e stuoli di impiegati e impiegate trattati con metodi tayloristici: è un brutale sfruttatore di manodopera e forse anche un trafficante di schiavi negri, almeno a giudicare dalla presenza del personaggio – del tutto inventato! – del servo di colore. Ecco, per il Daland di Homoki ci vorrebbe, come minimo e per restare a Wagner, la musica che caratterizza Hagen, o Klingsor, o Alberich!

Mary è un’acida capufficio di uno stuolo di dattilografe il cui ambiente di lavoro e il cui atteggiamento sono agli antipodi di quelli immaginati da Wagner. Per il quale scenario Homoki avrebbe dovuto casomai propinarci la musica di Nibelheim…

Quanto all’Olandese, piuttosto che un peccatore in cerca di redenzione, qui ci appare come un volgare ricettatore di refurtiva, che cerca di piazzare al capitalista Daland, facendo quindi passare quest’ultimo anche per riciclatore di denaro sporco…

Il regista poi si millanta intelligente e perspicace, mostrandoci un’enorme carta geografica dell’Africa, evidentemente oggetto dei traffici di merci dell’armatore-capitalista Daland. Ora, che l’Africa fosse una meta dell’Olandese, che si era venduto l’anima al diavolo pur di passare il Capo di Buona Speranza, è un’illazione plausibile (quantunque il libretto taccia assolutamente che il Capo fosse proprio quello, lo sappiamo solo dalle storie che ispirarono Wagner – ma non dal principale ispiratore, Heine, attenzione! - per il resto potrebbe pure essere Capo Horn o Capo Passero…) ma mi dice Homoki che centra l’Africa con il povero Daland, che invece al massimo faceva la navetta (smile!) fra Norvegia (o Scozia) e Danimarca? E la trasformazione dello schiavo di colore in Bokassa, con l’Africa che brucia, è proprio la ciliegina su questa improbabile torta!

Gli unici due personaggi che Homoki non sfregia più di tanto sono, a dir il vero e per fortuna nostra, Senta ed Erik: lei una schizofrenica visionaria (il suo mezzo spogliarello è gratuito, ma in fondo non è la cosa peggiore dello spettacolo) e lui un sempliciotto di provincia. Ma è un po’ poco per la verità. 

Essendo stato Homoki aiutante di Willy Decker, dal maestro ha preso alcune idee più o meno plausibili o criticabili per la sua messinscena (il Regio di Torino ha aperto la stagione 12-13 proprio con la produzione di Decker, peraltro assai più rispettosa dell’originale, va detto): fra le prime citerei il grande quadro a soggetto marino, sul quale a un certo punto si vede transitare un veliero; fra le seconde la scena del suicidio di Senta.  

La cui fine – una auto-fucilata sotto il mento, così come la auto-pugnalata di Decker - è quanto di più lontano, ma proprio agli antipodi, dell’idea di Wagner. Per il quale la donna si sacrifica per l’uomo che sente di dover redimere, e lo fa con un gesto ben preciso: il lanciarsi dalla rupe verso il mare dove l’Olandese si sta allontanando, il che rende anche visivamente l’idea di un estremo tentativo di ricongiungersi a lui, tentativo che sarà (secondo Wagner, manco a dirlo) coronato da successo, come testimoniano le didascalie e soprattutto la musica del finale!

Qui invece noi assistiamo ad un volgare e spregevole gesto suicida, dettato da mera disperazione e follia nichilista. E nulla di nulla ci vien mostrato della redenzione del peccatore!

Ma quando la smetteranno questi registi da strapazzo di pensare di apportare valore aggiunto alle scelte originali di autentici geni, come Wagner?
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Sul piano sonoro, più ombre che luci, mi vien da dire.

Terfel avrà anche il fisico adatto per fare l’Olandese, ma la voce, ahilui, spesso trasforma il personaggio in un hooligan arrabbiato e imbottito di birra: forse in omaggio alla concezione del regista, chissà…

La Kampe, come Terfel, ha una voce piena di decibel, discreta nella zona centrale, ma sguaiata negli acuti: i suoi LA e SI naturali li spara in modo piuttosto volgare, spalancando a dismisura le sue enormi fauci. Discreta invece nei momenti più intimistici, ad esempio nella sezione Più lento della Ballade.  

Anger è - anche lui in omaggio al regista? - un Daland piuttosto deficitario, spesso vociante e stonato e le sue esternazioni non hanno proprio nulla della prosaica e affettata banalità volutamente appioppatagli da Wagner. 

La Plowright è una Mary censurabile, che canta proprio in negativa sintonia con l’acidità del personaggio impostale dal regista.

Chi fa in fin dei conti una figura almeno discreta è il nemorino (smile!) Vogt, che perlomeno canta come dio comanda e non stravolge l’essenza musicale del personaggio. Certo che sarebbe più adatto a far la parte del timoniere…

Il quale timoniere è impersonato mediocremente da Wortig, assai impacciato nel suo Lied di apertura.   

Il coro di Casoni ha dato una prova sufficiente, ma mi è parso perdere qualche colpo (ad esempio le ragazze nel concitato passaggio Sie sind daheim del secondo quadro). Meglio i maschi, compreso il gruppo degli olandesi, dislocato in buca e munito, come da partitura, di rudimentali megafoni.

Il Direttore Haenchen non mi ha particolarmente impressionato e per di più si è permesso indebiti elastici nei tempi.

L’Orchestra ha pure mostrato parecchie pecche, a cominciare dalla maldestra entrata di oboe e clarinetti nell’Andante dell’Ouverture. Soprattutto – ma qui ne va chiesto conto al Kapellmeister – mi è parso deficitario il corretto amalgama fra le sezioni. È vero che questa partitura non è stata scritta per l’Orchestergraben di Bayreuth, ma nemmeno per lasciare ciascun strumentista libero di suonare come pare a lui.

Alla fine tiepido successo per una prestazione di ordinaria routine, a proposito di tempio sacro della lirica…

15 ottobre, 2012

Il battesimo wagneriano di Noseda

 
Il Regio di Torino ha aperto il cartellone con Wagner, come faranno altri teatri per le commemorazioni bicentenarie del 2013, e Gianandrea Noseda ha approfittato dell'occasione per rompere il ghiaccio con il mago di Lipsia, sia pure partendo da... lontano (ma avrà tempo, se vuol continuare, per avvicinarsi al Wagner serio, smile!)  
 
Ieri pomeriggio – teatro non proprio colmo - terza rappresentazione dell'Holländer, un'operina (come usa chiamarla affettuosamente Arbasino) leggera, se così si può dire in confronto a ciò che verrà dopo, anche se diventa pesantuccia per il pubblico, costretto a restare per 2 ore e 20 minuti inchiodato alla poltrona (solo con il Rheingold Wagner sarà ancora più carogna…) Chi volesse perder tempo a leggere un mio bigino, lo troverà qui.

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Dell'opera esistono (almeno, ufficialmente) due versioni: quella originale del 1843 di Dresda e quella rivisitata da Wagner nel 1860-1864 (poi vi sono interventi che l'autore fece in tempi diversi, ma che non furono oggetto di pubblicazione). Qui a Torino viene presentata l'ultima versione, quella predisposta da Wagner dopo aver composto due terzi del Ring e soprattutto il Tristan. E proprio dal Tristan fu mutuata la modifica (solo musica) del finale dell'opera.   
 
Nella versione originale, dopo l'ultima esternazione di Senta (Hier steh' ich, treu dir bis zum Tod!) il suo suicidio col tuffo in mare dalla scogliera e l'esposizione violenta del tema della redenzione (in tutta l'orchestra, in fortissimo e con pesanti colpi sincopati di timpano) seguito da quello, poderoso, dell'Olandese, si odono soltanto due secchi accordi di RE maggiore, punto e basta (come si può ascoltare in questa produzione di Bayreuth del 1984-85, da 4'40" in avanti; occhio: gli sbattimenti di ante non sono di Wagner, ma di Kupfer, smile!)
 
Invece, nella versione che ascoltiamo qui al Regio, il finale (e con esso la chiusa dell'Ouverture) è quello da Wagner arricchito con una diversa (accorciata) transizione dal tema di Senta a quello dell'Olandese - il quale tema viene enfaticamente allungato di 6 battute, con salita alla mediante e alla dominante e ritorno sulla tonica - e soprattutto con l'aggiunta delle 10 battute conclusive. Di cui le prime 4 ripropongono con grande dolcezza (in cadenza plagale, dal RE al SOL maggiore) il tema della redenzione: dolce, appunto e un poco ritenuto (come recita l'indicazione agogica) e suonato solo da flauti e oboi, su un morbido pedale dei fiati e i caldi arpeggi dell'arpa. Seguono 3 battute con il ritorno a RE maggiore sostenuto da un motivo nei violini (RE-MI-SOL-FA#, incidentalmente mutuato dalla Jupiter) che richiama l'atmosfera della chiusa della Liebestod (e anticipa quella di Götterdämmerung…) Infine le 3 battute con l'accordo perfetto di RE maggiore, che parte dal piano e cresce fino allo schianto conclusivo (come avverrà per la chiusa di Lohengrin). Musica che fa da sfondo al riemergere, dalle acque in cui si è inabissato il vascello fantasma, di Senta e dell'Olandese, abbracciati e ascendenti al cielo! (Ecco questo finale in una recente produzione rumena, da 6'50" in avanti.)
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Adesso dirò qualcosa della regìa, importata da Parigi e firmata da Willy Decker, qui ripresa - a ben 12 anni di distanza - da Stefan Heinrichs. La quale mette (direi appropriatamente) Senta al centro di tutto. Quindi scene assai minimaliste, occupate più che altro da simboli: gomene, vele, un grande dipinto raffigurante un mare procelloso (su cui compare un paio di volte un veliero) e per il resto qualche sedia e tavolo; efficaci giochi di luci; costumi abbastanza plausibili, data l'indeterminatezza dell'epoca dell'azione (unico cedimento ad una certa moda è il pastrano-DDR dell'Olandese, smile!)  
 
Dunque, Senta. Una povera ragazza schiava di un ambiente chiuso in cui è costretta suo malgrado a vivere. Il suo legame con Erik (anche lui un po' cittadino di serie-B, in quanto cacciatore in un paese di prodi marinai) è di quelli incolori e routinari. Per sfuggire alla quale routine lei non ha a disposizione altro che i sogni: e invece di un principe-azzurro che le calzi la scarpina-cristallina (cosa che la ridurrebbe ad una qualunque cenerentola, evidentemente considerata da Wagner personaggio inadatto per un dramma, oltre che già ampiamente sfruttato) lei sogna di far felice un uomo maledetto e destinato ad eterna infelicità: una figura mezzo-mitologica che qualche pittore da strapazzo deve aver dipinto su un quadretto che lei si porta dietro come una reliquia da adorare religiosamente.
 
Insomma, una schizofrenica, che come molti schizofrenici è pure presuntuosa, e quindi convinta di farcela là dove tante donne hanno già fallito (questo lo racconta lei stessa cantando la sua famosa Ballade): restare fedele al viso-pallido per tutta la vita. 
 
Peccato che spesso i presuntuosi vengano poi traditi dal puro caso, e/o da indizi fallaci; così lei, senza colpa, fa la figura dell'infedele agli occhi dell'Olandese, che la pianta in asso (però, bontà sua, perdonandola perché ancora il prete non aveva celebrato il loro matrimonio, smile!) Con ciò costringendola alla testimonianza estrema di fedeltà: il sacrificio della vita.
 
Ora, che Senta – come ci mostra Decker – si pugnali invece di annegarsi in mare non riveste particolare importanza. Caso mai si può osservare che questa chiusura dell'opera parrebbe assai più appropriata per la (musicalmente) dura versione del 1843, che non per quella sdolcinata del 1860. L'Olandese che sparisce nel nulla e la finta moralista Mary che raccoglie il suo ritratto e se lo porta via stringendolo al petto (proprio come era solita fare Senta!) giustifica l'ipotesi che per Decker Senta - pur incolpevole nei fatti – abbia comunque fallito la prova, e che altre donne avranno l'occasione di ritentare l'impresa. Sappiamo invece che la musica della versione 1860 del finale, che qui ascoltiamo, sembra proprio chiudere definitivamente il discorso con la redenzione dell'Olandese.
 
A parte questa osservazione critica (un po' bizantina, lo ammetto) mi è parsa una regìa da approvare quasi incondizionatamente.
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Sul fronte dei suoni, notizie direi incoraggianti. A partire da Noseda, che ha scrupolosamente evitato eccessi enfatici (vedi il Thielemann del recente festival bayreuthiano) e mai si è permesso libertà sui tempi, sempre tenuti con grande coerenza (e questa è la cosa più importante).
 
La Pieczonka ha confermato la sua affinità elettiva col personaggio di Senta, nella recitazione ma soprattutto nel canto: per lei grande trionfo.
 
Trionfo tributato anche a Doss, pur un filino impacciato (a mio modesto avviso) nelle sbifide arie che Wagner mette in bocca all'Olandese.
 
Più che discreto Gould, un Erik sufficientemente efficace e dalla voce molto passante.
 
Cosa che non mi sento di dire di Humes, per me poco adatto al ruolo del vecchio marpione Daland.
 
Bandera e Ombuena se la sono cavata più che bene nei loro ruoli non proprio banali, soprattutto il secondo, efficace nella canzoncina d'esordio.
 
Bene i cori, anche – e non è poco – per aver evitato sguaiatezze e schiamazzi da Oktoberfest: quello di Fenoglio (i/le Norvegesi) e quello di Chiavazza (gli Olandesi, dislocati per l'occasione… sottocoperta!) 
 
In sintesi: ancora una buona prova del Regio, che si conferma struttura oggi fra le più solide nel piuttosto dissestato – ahinoi - panorama italico del teatro musicale.


25 luglio, 2012

A Bayreuth niente svastiche, solo panzer…


Der fliegende Holländer ha così inaugurato il Festival n°101. Grandioso successo di pubblico (stando a ciò che ci hanno riportato i microfoni delle radio) che credo si spieghi col fatto che oggi – come negli anni ’40 – la Germania si sente in guerra contro tutti, e a Bayreuth può mostrare i muscoli.

Christian Thielemann – ormai il padre spirituale del festival - è il trionfatore della prima, con una direzione che più tedesca (e quindi autentica, sia chiaro!) di così si muore: nel terzo quadro si vedevano chiaramente i panzer marciare su… Bruxelles (smile!A parte le battute, Thielemann possiede quello che si definisce il gene wagneriano, forse già presente nel suo DNA, ma di certo ben pasciuto dalla frequentazione diretta di gente come Karajan o indiretta di maestri come Furtwängler… L’unico difetto che gli imputo (personalmente) è la manìa - comune peraltro a molti direttori, soprattutto se famosi - di lasciare sulle partiture quelle che chiamo (con termine irriverente, ok) pisciatine di cane (tipicamente: indebiti salti di tempo, che faranno anche effetto, ma siamo sempre lì: se accettiamo questa, allora dobbiamo poi accettare qualunque invenzione di qualunque altro direttore?)  

L’orchestra e il coro di Bayreuth sono – soprattutto se guidate da uno come Thielemann – delle macchine quasi perfette, nelle quali è difficile trovare difetti, e anche oggi lo hanno confermato in larga misura (ricordo solo una piccola sbavatura di un attacco del coro e un paio di incertezze dei corni).

La protagonista principale, la Senta di Adrianne Pieczonka, ha avuto un partenza un poco freddina, ma per il resto mi pare abbia ottimamente retto l’urto di una parte assai impegnativa (buon viatico per quando la sentiremo in quel ruolo a Torino, fra qualche mese).

Suo padre Daland, Franz-Josef Selig, mi è parso francamente non all’altezza: ha cercato di dare espressione al personaggio, ma il canto ha lasciato a desiderare assai: difficoltà continua di intonazione e timbro del tutto sgradevole. Per me, un esordio non proprio felice sulla collina verde.

Meglio, se non altro date le circostanze di assoluta emergenza in cui si è venuto a trovare, è andato l’Holländer di Samuel Youn: essere catapultato all’ultimo momento in una prima e in un ruolo-chiave (per uno che ha solo sostenuto a Bayreuth parti secondarie) non dev’essere uno scherzo davvero. Lui in fin dei conti ha colmato il vuoto lasciato da Nikitin (meglio: dall’ipocrisia dilagante lassù) in modo dignitoso.

Lo sfigato Erik era l’esordiente (a Bayreuth) Michael König: una prestazione appena appena discreta la sua, in una parte pur non proibitiva (nell’aria del terzo quadro ha accuratamente evitato anche un non impossibile LA acuto…)  

Bene lo Steuermann di un altro esordiente, Benjamin Bruns, voce chiara e ben impostata. Decisamente un gradino sotto la Mary di Christa Mayer.
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PS: ogni volta che ascolto l’Holländer non posso non pensare alla stupidità della tradizione di Bayreuth (leggi: Cosima) che vi rappresenta quest’opera, e vi tiene rigorosamente fuori Rienzi.

22 luglio, 2012

Ombre brune su Bayreuth


A 3-4 giorni di distanza dalla première dell’Holländer, il basso-baritono russo Evgeny Nikitin, destinato ad interpretarne il ruolo principale, si deve essere tolto – chissà dove, ma in pubblico - la canottiera per la prima volta dopo anni e anni (evidentemente lui, su consiglio di una mamma premurosa, la indossava sempre, anche sulle spiagge a 40°).

E così i/le responsabili del Festival di Bayreuth hanno potuto scoprire – giusto in tempo – che il biondo 39enne nato al circolo polare (ecco perché non svestiva mai gli indumenti intimi di lana!) non aveva uno dei requisiti-base per salire sulla verde collina: essere esente da ogni compromissione con il nazismo!

Sì, perché il nostro, in pieno petto, reca da quando era ragazzo e faceva il metallaro, un tatuaggio con tanto di svastica!


Apriti cielo, in quattro e quattr’otto è stato invitato a rinunciare al tanto atteso esordio. Lui si è giustificato dicendosi pentito di quel tatuaggio e di non aver pensato a quanto lunga sia ancora la coda di paglia dei tenutari di Bayreuth rispetto al passato nazista del gran baraccone.

Peccato perché erano anni che Kathi Wagner e Christian Thielemann gli facevano la corte - mai avendolo visto in mutande, evidentemente – ragion per cui in fretta e furia è stato cooptato al ruolo Samuel Youn, che si trova per caso già a Bayreuth per interpretarvi l’Araldo nel Lohengrin, e così fa pure risparmiare sulla nota-spese (smile!
        

19 luglio, 2012

Storielle della verde collina


Si avvicina anche quest’anno la fatidica data del 25 luglio, giorno in cui tradizionalmente si apre il Festival di Bayreuth, che nel bene e nel male (ultimamente più male che altro…) fa sempre parlare di sé. E già ne ha scritto un altro wagnerite.

Questo è il secondo anno consecutivo di astinenza dal Ring, che nel 2010 chiuse il quinquennio Thielemann-Dorst, in vista del colossale lancio di quello del bicentenario, già in preparazione e già in mezzo a guai e problemi di ogni genere… ma ci sarà tempo per occuparsene al momento opportuno.

Quindi ci sono cinque titoli in programma, ciascuno con 6 recite: quattro già presentati nelle scorse stagioni (Tannhäuser, Lohengrin, Tristan e Parsifal) e uno di nuovo allestimento, l’Holländer, che rimpiazza, rispetto al 2011, i famigerati Meistersinger di Kathi, la pronipotina terribile del vecchio Richard, che dal 2009 è - insieme alla sorellastra Eva - alla guida del baraccone inaugurato dal bisnonno nel 1876.

Sul podio dell’Olandese ci sarà Christian Thielemann, ormai di fatto, se non proprio di diritto, Direttore musicale del festival; il quale, oltre alla nuova produzione, si accollerà anche la ripresa di Tannhäuser. Così aggiungerà ben 12 gettoni di presenza sul podio di Bayreuth, totalizzandone 123 e superando di slancio al quarto posto James Levine, fermo a 117. Anche il routinario Peter Schneider, con i 6 Tristan, farà un passo avanti in classifica, scavalcando al secondo posto, con 142 presenze, il compianto Horst Stein (138). Al comando resta, ma con vantaggio ridotto, Daniel Barenboim (161 gettoni).

E a proposito di statistiche, pur avendo diretto soltanto 14 recite, Richard Strauss è tuttora il recordman in fatto di tempo trascorso fra la prima e l’ultima direzione, avendo diretto per la prima volta nel 1894 e per l’ultima nel 1934, a 41 anni di distanza. Lo segue da vicinissimo (e potrebbe in teoria superarlo) Pierre Boulez, che ha diretto 97 recite, la prima nel 1966 e l’ultima ben 40 anni dopo, nel 2005.    

Andris Nelsons dirigerà ancora il contestato Lohengrin di Neuenfels, mentre l’ultima edizione del ciclo del Parsifal di Herheim perderà la direzione musicale del nostro Daniele Gatti, al cui posto sarà il giovane esordiente Philippe Jordan.

Escludendo dal conto alcuni concerti speciali, al termine di questa edizione saranno 2532 le alzate di sipario complessive del Festival, totalizzate nelle sue 101 edizioni (dal 1876).
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Ecco quindi la novità del 2012: Der fliegende Holländer (che sarà a quanto pare l’unica opera trasmessa in diretta da Radio3, ma altri faranno di più, come gli spagnoli che ci rifilano altri 4 gol di scarto, trasmettendo in diretta tutte le cinque prime, dal 25 al 29 luglio, e di norma corredate da commenti in studio di altissimo livello).

Intanto una curiosità: osservando l’orario di inizio (18:00, come è consuetudine per il Rheingold, che non ha intervalli, e non 16:00, come per tutte le altre opere e drammi) si deve pensare che l’opera venga rappresentata tutta d’un fiato, come Wagner l’aveva concepita in origine, e non suddivisa su tre atti, cosa che lo stesso Wagner fu costretto a fare su richiesta del Teatro Reale di Corte di Dresda che ospitò la prima, riscrivendo all’uopo le parti di raccordo (fine e inizio atti). Questa dell’esecuzione in atto unico (suddiviso in tre quadri) è del resto una tradizione bayreuthiana che a suo tempo (1901) fu la stessa Cosima ad introdurre (qui un’esecuzione in piena era nazista). La durata è circa 2h20’ (meno del Rheingold, appunto) il che metterà comunque a dura prova la resistenza fisica dei pellegrini che affolleranno il sacro tempio.

L’opera fu originariamente composta negli anni 1840-41 a Parigi, subito a ridosso del Rienzi e – come questa – rappresentata in prima a Dresda (dove Wagner era da poco divenuto Hofkapellmeister, sull’onda del trionfo di Rienzi) il 2 gennaio del 1843, con scarsissimo successo.



Il che convinse Wagner a mettervi continuamente mano, tanto che l’edizione oggi più comunemente eseguita è quella approntata nel 1864 – quasi 5 lustri dopo la composizione – per Re Ludwig II di Baviera. Ma si sa che Wagner pensò ancora ad altri rimaneggiamenti nientemeno che fino al 1881, due anni prima della scomparsa: evidentemente, oltre al Tannhäuser, anche l’Holländer gli rimase sempre un po’ sullo stomaco.

Il soggetto, che Wagner mutuò liberamente da racconti ed opere teatrali diverse, è incentrato sul concetto di redenzione, che una donna più o meno schizofrenica è chiamata dal destino a portare ad un uomo più o meno complessato e peccatore, destinato da una scommessa con Satana a vagare sui mari per cicli di sette anni, in attesa dello sbarco che gli faccia appunto incontrare la donna disposta a redimerlo a costo della stessa vita.

C’è chi ci vede Ahasvero e chi – col senno di poi – anche lo stesso Wagner, perennemente in fuga per sfuggire ai creditori (o alla polizia). Il viaggio avventuroso e da clandestino che nel 1839 portò il compositore, con moglie e cane, da Riga a Londra (e da qui a Parigi) con un mezzo naufragio e conseguente sosta forzata in un porto norvegese, furono poi lo stimolo concreto alla definizione dell’inverosimile trama dell’opera.

Dove, tanto per dire, troviamo un onest’uomo (?) marinaio norvegese, a nome Daland - costretto da un fortunale a gettare l’ancora a qualche miglio da casa - che incontra l’Olandese, cui per combinazione sono scaduti precisamente in quel momento i sette anni di peregrinazioni forzate sui mari e prende terra proprio lì. I due si presentano e – toh! – dopo due minuti, alla vista del classico forziere pieno di oro e perle, il simpatico Daland già offre la figlia Senta in moglie all’Olandese, che non vede l’ora di conoscerla per esserne redento (!)

Ma il colmo del ridicolo determinismo di tutta la storia è che (siamo nel secondo quadro) in casa di Daland è appeso alla parete un dipinto raffigurante precisamente… l’Olandese, di cui la pia Senta (promessa sposa a tale Erik, si badi bene) pare conoscere la storia, che infatti lei ci racconta, anzi ci canta per filo e per segno nella celebre Ballade, un’aria col da-capo seguito da una terza strofa (!) Manifestando insieme il suo impegno… umanitario di esser lei a portare la redenzione al pallido navigatore. Alla faccia delle rimostranze del fidanzato che – da parte sua – ha già visto in sogno tutto ciò che sta per accadere (il mancato suocero che si accorda con lo straniero per rifilargli la sua Senta!)

Il quale straniero arriva poco dopo, presentato e sponsorizzato da Daland, e va subito alle spicce, mostrando di gradire assai la fanciulla da cui farsi redimere. Fine del quadro con duetto d’amore fra redentrice e redento, con la benedizione del suocero. (Ma mica può finire così, diamine!)

Il terzo quadro è occupato quasi interamente da un'abominevole scena corale, che ci assorda per quasi un quarto d’ora con sguaiati canti degli avvinazzati marinai norvegesi (ma potremmo essere benissimo all'Oktoberfest, smile!) eccitati a dovere dalle ragazze del posto, e poi dell’equipaggio della nave maledetta dell’Olandese, che pare prepararsi a salpare in un’atmosfera cupa e colma di mistero.

Ecco infatti il finale, tragi… miracolistico. Erik non ci sta a far la figura del pirla, e reclama da Senta il rispetto della sua solenne promessa di matrimonio. L’Olandese, per puro caso, è lì a due passi, ascolta tutto e ne deduce che l’abnegazione redentrice della fanciulla era tutta una messinscena predisposta in combutta con lo sbifido Daland per impossessarsi di oro e perle, e così pianta in asso tutto e tutti, sale rapidamente a bordo del suo vascello fantasma (per i meno giovani, una 500 Abarth!e si allontana alla velocità del fulmine per un nuovo ciclo settennale di oceaniche peregrinazioni.

Al che Senta sale su una roccia del fiordo, grida la sua fedeltà eterna all’Olandese e si tuffa in mare, per dimostrare la sua volontà di sacrificio. Ed ecco che la nave maledetta cola a picco come un piombino, mentre dalle acque si vede emergere uno scoglio su cui stanno, abbracciati, Senta e l’Olandese che – trasformatosi lo scoglio in una nuvoletta – vengono trasportati in cielo avvolti da una luce sfolgorante (!)

Insomma, una cosa a metà fra l’Assunzione in cielo e la chiusa del Faust (smile!)

Musicalmente, siamo ancora abbastanza ancorati agli stilemi e alle regole dell’opera italiana, con tanto di numeri chiusi, arie, duetti e cori. I personaggi-chiave sono quattro: l’Olandese (baritono), Daland (basso), Senta (soprano) e Erik (tenore). Più Mary (tata di Senta, mezzosoprano) e il timoniere di Daland (tenore). Grande ruolo hanno i cori: marinai norvegesi e olandesi, ragazze norvegesi.

L’opera consta precisamente di 8 numeri principali, con il seguente contenuto:

Quadro I:
1. Coro dei marinai norvegesi; canzone del timoniere;
2. Recitativo e aria dell’Olandese;
3. Scena; duetto (Olandese, Daland); coro;

Quadro II:
4. Coro delle filatrici; Ballade di Senta;
5. Duetto (Erik, Senta);
6. Aria di Daland; duetto (Olandese, Senta); terzetto (Daland, Olandese, Senta);

Quadro III:
7. Coro dei marinai e delle ragazze norvegesi, poi degli olandesi;
8. Duetto (Erik, Senta); cavatina di Erik; finale (Olandese, Senta, cori).

La principale innovazione risiede nella mancanza di cadenze chiuse, rimpiazzate da transizioni che danno continuità al flusso musicale (ma nulla a che vedere con ciò che Wagner inventerà a partire dal Ring).

Insomma, un Wagner trentenne  ancora incerto sulla strada estetica da seguire, e sempre in bilico fra il grand opéra (vedi Rienzi) e l’opera romantica: Holländer, Tannhäuser, infine Lohengrin, pur battezzate con la seconda categoria, recano tutte, quale più, quale meno, tracce evidenti della prima. Ed anche la Siegfrieds Tod, antesignana del Ring, nascerà nella mente di Wagner con quelle caratteristiche, che Götterdämmerung conserva in buona misura (vedi il second’atto). Solo dopo la fuga da Dresda (1848) il nostro maturerà le sue convinzioni sui drammi musicali, che troveranno realizzazione a partire dal Rheingold (1853).
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Chi rimanesse deluso (smile!) dalla direzione di Thielemann potrà rifarsi con Gianandrea Noseda, che avrà il battesimo wagneriano da venerdi 12 ottobre, inaugurando con l’Olandese la stagione 12-13 del Regio di Torino.

28 gennaio, 2008

L’ultima di Calixto

La bizzarra moda di rappresentare il (presunto) significato, e non il significante, che sta alla base del cosiddetto Regietheater, ha trovato negli ultimi anni un nuovo campione in Calixto Bieito.

Costui - come altri sedicenti artisti - magari avrà anche delle idee originali in testa, quali: la disumanità del capitalismo, la perdita di valori nella nostra società, l’incomunicabilità fra gli uomini, la mercificazione del sesso, e altri simili arditi filosofeggiamenti. Orbene, invece di prendersi la briga, come ci si dovrebbe aspettare da un artista, di scrivere piéces teatrali sui suoi soggetti, magari musicandole egli stesso, o facendole musicare da qualcuno... e poi cercare di rappresentarle da qualche parte, cosa fa un tipo alla Bieito?

Si propone come regista di drammi wagneriani (o di opere mozartiane o verdiane) calati nella nostra moderna società. Con ciò ottiene alcuni interessanti (per lui) risultati:

1. non fa alcuna fatica a scrivere parole, nè musica: li trova già bell’e pronti;
2. non ha alcun problema di promozione della sua immagine, poichè utilizza quella di artisti e di opere collaudati da decenni, se non da secoli di successi in tutti i teatri del mondo;
3. più il pubblico fischia le sue regie, meglio per lui! È il miglior modo per farsi pubblicità ed essere scritturato da teatri la cui importanza è inversamente proporzionale alla preparazione e alla serietà dei rispettivi sovrintendenti.

L’ultima? Una performance a Stoccarda, dove si rappresenta uno spaccato dell’infernale società capitalistica moderna: un manager che ha perso il posto, che vede intorno a sè soltanto disumanità ed arrivismo e che si riduce disperato a cospargersi di benzina, minacciando di darsi fuoco; un gommone che trasporta clandestini, guidato a frustate da un manager in carriera; una donna-oggetto, che vede ogni sua sensibilità soffocata da una famiglia di benpensanti e diventa ossessionata dal far del bene a qualcuno; manager e impiegati di aziende concorrenti che si abbandonano ad orgiastici festini - con conigliette (che escono come cagnolini da una cuccia) e champagne - distruggendo frigoriferi e lavatrici (i prodotti del capitale, già, perchè c’è anche il consumismo!) Il lato davvero debole, quasi incomprensibile, di questa straordinaria opera d’arte è il lieto fine che la conclude, col povero manager disoccupato che trova nella donna pia amore, pace, pietà e tutti i valori positivi!

L’opera, chiederete... Ma perchè, non basta quanto sopra?

E invece sì, c’è anche l’opera: il Fliegende Holländer di Wagner.

Ma, a supportare adeguatamente il capolavoro di Bieito, potevano andar benissimo anche Tannhäuser o Lohengrin, statene pur certi. Il Ring invece lo hanno già interpretato a loro modo altri registi più famosi, e il Calixto dovrà aspettare... però chissà che i prossimi Leiter di Bayreuth non ci facciano un pensierino.