Il Regio di Torino ha aperto il cartellone con Wagner, come faranno altri teatri per le commemorazioni bicentenarie del 2013, e Gianandrea Noseda ha approfittato dell'occasione per rompere il ghiaccio con il mago di Lipsia, sia pure partendo da... lontano (ma avrà tempo, se vuol continuare, per avvicinarsi al Wagner serio, smile!)
Ieri pomeriggio – teatro non proprio colmo - terza rappresentazione dell'Holländer, un'operina (come usa chiamarla affettuosamente Arbasino) leggera, se così si può dire in confronto a ciò che verrà dopo, anche se diventa pesantuccia per il pubblico, costretto a restare per 2 ore e 20 minuti inchiodato alla poltrona (solo con il Rheingold Wagner sarà ancora più carogna…) Chi volesse perder tempo a leggere un mio bigino, lo troverà qui.
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Dell'opera esistono (almeno, ufficialmente) due versioni: quella originale del 1843 di Dresda e quella rivisitata da Wagner nel 1860-1864 (poi vi sono interventi che l'autore fece in tempi diversi, ma che non furono oggetto di pubblicazione). Qui a Torino viene presentata l'ultima versione, quella predisposta da Wagner dopo aver composto due terzi del Ring e soprattutto il Tristan. E proprio dal Tristan fu mutuata la modifica (solo musica) del finale dell'opera.
Nella versione originale, dopo l'ultima esternazione di Senta (Hier steh' ich, treu dir bis zum Tod!) il suo suicidio col tuffo in mare dalla scogliera e l'esposizione violenta del tema della redenzione (in tutta l'orchestra, in fortissimo e con pesanti colpi sincopati di timpano) seguito da quello, poderoso, dell'Olandese, si odono soltanto due secchi accordi di RE maggiore, punto e basta (come si può ascoltare in questa produzione di Bayreuth del 1984-85, da 4'40" in avanti; occhio: gli sbattimenti di ante non sono di Wagner, ma di Kupfer, smile!)
Invece, nella versione che ascoltiamo qui al Regio, il finale (e con esso la chiusa dell'Ouverture) è quello da Wagner arricchito con una diversa (accorciata) transizione dal tema di Senta a quello dell'Olandese - il quale tema viene enfaticamente allungato di 6 battute, con salita alla mediante e alla dominante e ritorno sulla tonica - e soprattutto con l'aggiunta delle 10 battute conclusive. Di cui le prime 4 ripropongono con grande dolcezza (in cadenza plagale, dal RE al SOL maggiore) il tema della redenzione: dolce, appunto e un poco ritenuto (come recita l'indicazione agogica) e suonato solo da flauti e oboi, su un morbido pedale dei fiati e i caldi arpeggi dell'arpa. Seguono 3 battute con il ritorno a RE maggiore sostenuto da un motivo nei violini (RE-MI-SOL-FA#, incidentalmente mutuato dalla Jupiter) che richiama l'atmosfera della chiusa della Liebestod (e anticipa quella di Götterdämmerung…) Infine le 3 battute con l'accordo perfetto di RE maggiore, che parte dal piano e cresce fino allo schianto conclusivo (come avverrà per la chiusa di Lohengrin). Musica che fa da sfondo al riemergere, dalle acque in cui si è inabissato il vascello fantasma, di Senta e dell'Olandese, abbracciati e ascendenti al cielo! (Ecco questo finale in una recente produzione rumena, da 6'50" in avanti.)
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Adesso dirò qualcosa della regìa, importata da Parigi e firmata da Willy Decker, qui ripresa - a ben 12 anni di distanza - da Stefan Heinrichs. La quale mette (direi appropriatamente) Senta al centro di tutto. Quindi scene assai minimaliste, occupate più che altro da simboli: gomene, vele, un grande dipinto raffigurante un mare procelloso (su cui compare un paio di volte un veliero) e per il resto qualche sedia e tavolo; efficaci giochi di luci; costumi abbastanza plausibili, data l'indeterminatezza dell'epoca dell'azione (unico cedimento ad una certa moda è il pastrano-DDR dell'Olandese, smile!)
Dunque, Senta. Una povera ragazza schiava di un ambiente chiuso in cui è costretta suo malgrado a vivere. Il suo legame con Erik (anche lui un po' cittadino di serie-B, in quanto cacciatore in un paese di prodi marinai) è di quelli incolori e routinari. Per sfuggire alla quale routine lei non ha a disposizione altro che i sogni: e invece di un principe-azzurro che le calzi la scarpina-cristallina (cosa che la ridurrebbe ad una qualunque cenerentola, evidentemente considerata da Wagner personaggio inadatto per un dramma, oltre che già ampiamente sfruttato) lei sogna di far felice un uomo maledetto e destinato ad eterna infelicità: una figura mezzo-mitologica che qualche pittore da strapazzo deve aver dipinto su un quadretto che lei si porta dietro come una reliquia da adorare religiosamente.
Insomma, una schizofrenica, che come molti schizofrenici è pure presuntuosa, e quindi convinta di farcela là dove tante donne hanno già fallito (questo lo racconta lei stessa cantando la sua famosa Ballade): restare fedele al viso-pallido per tutta la vita.
Peccato che spesso i presuntuosi vengano poi traditi dal puro caso, e/o da indizi fallaci; così lei, senza colpa, fa la figura dell'infedele agli occhi dell'Olandese, che la pianta in asso (però, bontà sua, perdonandola perché ancora il prete non aveva celebrato il loro matrimonio, smile!) Con ciò costringendola alla testimonianza estrema di fedeltà: il sacrificio della vita.
Ora, che Senta – come ci mostra Decker – si pugnali invece di annegarsi in mare non riveste particolare importanza. Caso mai si può osservare che questa chiusura dell'opera parrebbe assai più appropriata per la (musicalmente) dura versione del 1843, che non per quella sdolcinata del 1860. L'Olandese che sparisce nel nulla e la finta moralista Mary che raccoglie il suo ritratto e se lo porta via stringendolo al petto (proprio come era solita fare Senta!) giustifica l'ipotesi che per Decker Senta - pur incolpevole nei fatti – abbia comunque fallito la prova, e che altre donne avranno l'occasione di ritentare l'impresa. Sappiamo invece che la musica della versione 1860 del finale, che qui ascoltiamo, sembra proprio chiudere definitivamente il discorso con la redenzione dell'Olandese.
A parte questa osservazione critica (un po' bizantina, lo ammetto) mi è parsa una regìa da approvare quasi incondizionatamente.
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Sul fronte dei suoni, notizie direi incoraggianti. A partire da Noseda, che ha scrupolosamente evitato eccessi enfatici (vedi il Thielemann del recente festival bayreuthiano) e mai si è permesso libertà sui tempi, sempre tenuti con grande coerenza (e questa è la cosa più importante).
La Pieczonka ha confermato la sua affinità elettiva col personaggio di Senta, nella recitazione ma soprattutto nel canto: per lei grande trionfo.
Trionfo tributato anche a Doss, pur un filino impacciato (a mio modesto avviso) nelle sbifide arie che Wagner mette in bocca all'Olandese.
Più che discreto Gould, un Erik sufficientemente efficace e dalla voce molto passante.
Cosa che non mi sento di dire di Humes, per me poco adatto al ruolo del vecchio marpione Daland.
Bandera e Ombuena se la sono cavata più che bene nei loro ruoli non proprio banali, soprattutto il secondo, efficace nella canzoncina d'esordio.
Bene i cori, anche – e non è poco – per aver evitato sguaiatezze e schiamazzi da Oktoberfest: quello di Fenoglio (i/le Norvegesi) e quello di Chiavazza (gli Olandesi, dislocati per l'occasione… sottocoperta!)
In sintesi: ancora una buona prova del Regio, che si conferma struttura oggi fra le più solide nel piuttosto dissestato – ahinoi - panorama italico del teatro musicale.
2 commenti:
Ciao Daland, si apre la stagione dell'...Olandese, visto che lo rappresentano un po' ovunque. La tua è la prima testimonianza che leggo delle recite torinesi e sono contento di leggere della buona prova di Noseda, che apprezzo molto.
Vediamo un po' come cucineranno la pietanza anniversario wagneriano a Trieste, per ora solo voci e non troppo attendibili quindi...vedremo e soprattutto ascolteremo!
Ciao!
@ Amfortas
Mi (ti) auguro proprio che Trieste cucini ottimi manicaretti di Wagner (e Verdi!) nel 2013.
Personalmente ho già in agenda (via-abbonamento) l'Olandese scaligero di quella specie di hooligan (smile!) che risponde al nome di Bryn Terfel. (ma prima - noblesse oblige - ci sarà il Lohengrin del "derattizzato" Jonas.)
Ciao!
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