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06 ottobre, 2019

Francesconi imperversa a Milano


In concomitanza e assonanza con l’edizione 2019 di Milano Musica, dedicata al compositore, la Scala ripropone Quartett di Luca Francesconi, che vide la luce più di 8 anni orsono, commissionata proprio dal Teatro. Dopo l’anteprima-giovani del 2, ieri sera è andata in scena la prima delle sei recite in cartellone. Rispetto al 2011 è cambiato solo il Direttore, mentre sono tornati i due (unici) protagonisti e il team di regìa.

Qui alla Scala si assiste infatti all’allestimento originale dell’opera, che è già stata ed è tuttora rappresentata in giro per il mondo anche in produzioni diverse. Quanto invece al contenuto musicale, parecchie sezioni dell’opera (coro e orchestra grande - OUT, dietro le quinte - registrate qui dal vivo nelle recite del 2011) vengono adesso diffuse nei teatri che ospitano Quartett attraverso sistemi di amplificazione. Con risultati a volte disastrosi, come riportano da Berkeley. Per fortuna qui tutto è andato assai bene: evidentemente i tecnici IRCAM han fatto del loro meglio.

Personalmente ero rimasto assai perplesso ai tempi della prima, e il mio scetticismo non era sfumato rivedendo e riascoltando l’opera (in questa ripresa català del 2017, con l’allestimento originale della Fura e gli stessi due protagonisti) in vista dell’appuntamento di ieri. Ma devo dire che anche questa nuova esperienza non mi ha portato a rivedere quel giudizio.

Il soggetto - questo è risaputo - gia’ non è dei più facili da assimilare: in particolare lo sdoppiamento dei due personaggi (scene 6-8 e 10-12) non è semplice da decifrare per uno spettatore che non abbia ben presente questo espediente inventato dall’autore del dramma originale (Heiner Müller) e conservato da Francesconi; anche perchè la lingua (inglese) non aiuta certo a seguire nel modo più efficace la trama.

Certo, lo spettacolo di per sè sarà pure di buon livello e di forte impatto, ma ciò che mi convince meno è proprio la musica! E non solo per la sua atonalità (ad esempio il seriale Wozzeck mi risulta assai meno indigesto); ma perchè la trovo (in specie proprio il canto) eccessivamente sostenuta, affettata, scarsamente dotata di varietà di inflessioni e di pathos; invece pare un continuo lamento isterico, una serie di esternazioni allucinate che - a voler malignare - si potrebbe definire una... lagna. Le parti puramente strumentali sollevano la media, ma restano poca cosa. Verdi usava parlare di tinta per le sue opere: ma non era mai un colore fisso e monotono, perbacco!  

Mi viene qui da fare una riflessione che spesso mi ronza in mente, ascoltando musica di questo genere: ma se lo stesso soggetto potesse essere oggi musicato non dico dallo Strauss della Salome e di Elektra, ma anche solo dal Korngold di Die tote Stadt, cosa ne uscirebbe? Ebbene, con tutto il rispetto dovuto a Francesconi, mi sentirei di scommettere che il risultato sarebbe assai più accattivante. Insomma, ripeto quanto esposto l’altro ieri in occasione dell’apertura di Milano Musica all’Auditorium: questa è musica difficile da capire razionalmente (a dispetto del massiccio impiego di strumenti... scientifici per la sua composizione ed esecuzione) ed esasperante se ascoltata in modo passivo. Gli enormi spazi vuoti al Piermarini e l’accoglienza tiepidina allo spettacolo (che pure sta registrando una discreta presenza presso i teatri nel mondo) la dicono lunga su quanto poco (non dico nulla) la musica contemporanea riesca a far rinverdire i fasti di un passato glorioso dal quale continua invece ad allontanarsi sempre più.

Ovviamente sono solo da lodare le prestazioni dei protagonisti: Maxime Pascal, già applaudito qui un paio d’anni fa per una primizia di Sciarrino, e soprattutto i due interpreti Allison Cook e Robin Adams, ormai evidentemente in simbiosi con le loro parti, avendole cantate ripetutamene in giro per il mondo.
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PS: sto partendo in treno per Torino, dove mi aspetta... l’antidoto!

06 maggio, 2011

Alla Scala qualcosa di nuovo (?)

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Ogni tanto capita che un teatro, o un'orchestra, o un festival, o magari un club di sommelier commissioni ad un musicista una nuova opera. Stavolta è successo alla Scala di commissionare (ma quanto pagano?) un'opera all'attuale Direttore Artistico della Biennale Musica di Venezia, il milanese Luca Francesconi.

Il quale, in un mondo globalizzato quale il nostro, ha pensato bene di prendere lo spunto da un dramma in prosa tedesco della seconda metà del '900, a sua volta ispirato da un racconto francese della seconda metà del '700, e di stenderne il libretto in lingua inglese (airport-english, come ci tiene a precisare l'Autore medesimo, cioè un inglese così poco oxfordiano da essere facilmente comprensibile da un lappone, da un basco, da un vietnamita, da uno zambiano e persino da un londinese). Il titolo dell'opera resta però in tedesco (lingua madre, quando si tratta di certa musica): Quartett (così siamo sicuri che ci arriva anche un bresciano come me, smile!)

Comincio col riportare alla lettera una critica pubblicata di recente:

L'apporto di Alex Ollé e della Fura dels Baus penso sia molto importante proprio come "antidoto" a una lettura banalmente post-espressionista o ideologica di Heiner Müller, e che aiuti a proiettarlo invece da un lato in una dimensione epocale legata alle sorti della civiltà occidentale, dall'altro su un piano più universale.
Lo stesso percorso che la musica intende seguire.
L'opera è una grande macchina, un laboratorio alchemico dove questa babele di pulsioni e di lingue può trovare uno stato di fusione.
E questo grazie all'effetto di febbrile "alterazione", di alta temperatura percettiva che la musica soltanto è in grado di indurre.
L'elaborazione elettronica di suoni e spazi è l'altro agente chimico che reinscrive l'esperienza in una nuova dimensione di ascolto: moderna, veloce, attenta, multidimensionale.
Ciò che in fondo il teatro d'opera ha sempre voluto sognare.
Il rapporto con un luogo sacrale come La Scala non è conflittuale né compiacente.
È impensabile ignorarne la forza immaginifica e storica. Ma è forse possibile, se non necessario, metabolizzarlo e integrarlo nel mondo; in un mondo che va oltre i suoi muri ed anzi lo contiene, come il mare un magnifico corallo.

Ma di chi mai sarà una così profonda e illuminata recensione? Di Isotta, Mattioli, Foletto, Arruga, Stinchelli, o del Corriere della Grisi? No, è di un tal Luca Francesconi, che dev'essere un omonimo, e pure sosia, dell'Autore!

Ora, se il soggetto di Müller è sufficientemente urticante - ancorchè imbevuto di pretenziosa retorica anti-borghese made-in-DDR – la musica che Francesconi gli ha cucito attorno mi è parsa ancor più velleitaria e incapace di suscitare non dico emozioni, ma nemmeno grande interesse, a dispetto delle tecnologie IRCAM impiegate in larga scala e degli accorgimenti (fra l'altro non nuovi, come le due orchestre, ancora poche) previsti per l'esecuzione.

Che si possa andare a teatro anche per piangere o meditare sulle miserie umane è perfettamente ammissibile, per carità… ma evidentemente ai giorni nostri si pretende che il pubblico soffra per davvero, ma proprio fisicamente: sarò banale e disfattista, ma temo proprio di sapere come un certo Fantozzi – l'io profondo di (quasi) tutti noi - avrebbe commentato la serata (smile!) Personalmente, alla domanda: "cosa preferisci, vedere ancora quest'opera, o un'altra Tosca di Bondy?" non avrei dubbi su come rispondere; perché la Tosca di Bondy – basta chiudere gli occhi – qualche emozione te la dà comunque, garantito. E poi se Jonas stona, lo becchi subito in castagna, perdio.

Si può commentare tecnicamente lo spettacolo? Credo proprio di no. Il regista e il resto della troupe hanno potuto – cosa rara – lavorare gomito-a-gomito con l'autore di libretto&musica, quindi se avessero fatto cazzate sarebbero proprio da rinchiudere. Quanto ai musicisti, con musica come questa come si fa a decifrare se il soprano ha stonato sul SIb della scena 5, o se la direttrice d'orchestra ha strascicato eccessivamente i tempi nel duetto della scena 10?

In compenso si può apprezzare il mirabile piano schematico dell'opera, esattamente come uscito dalle proprie mani dell'Autore:



L'impressione è che anche questa, come purtroppo molte altre opere contemporanee, sia – programmaticamente? – destinata a ricevere il suo successo di stima (musically-correct, si potrebbe dire con una parafrasi) - successo che è puntualmente arrivato anche ieri sera, da un pubblico scarso e non propriamente entusiasta, che ha evidentemente premiato l'abnegazione della Cook e di Adams, e l'impegno di Mälkki, Lavoie, Casoni, coro, orchestre e allestitori - per poi venire ridimensionata a concisa entry nel catalogo dell'Autore. Ma in fondo anche il Wagner rivoluzionario (mica quello di Bayreuth, ovvio) farneticava di festival dove si eseguissero due, massimo tre volte delle opere nuove, per poi dare alle fiamme tutto quanto, dalle partiture ai palchi!
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