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06 maggio, 2011

Alla Scala qualcosa di nuovo (?)

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Ogni tanto capita che un teatro, o un'orchestra, o un festival, o magari un club di sommelier commissioni ad un musicista una nuova opera. Stavolta è successo alla Scala di commissionare (ma quanto pagano?) un'opera all'attuale Direttore Artistico della Biennale Musica di Venezia, il milanese Luca Francesconi.

Il quale, in un mondo globalizzato quale il nostro, ha pensato bene di prendere lo spunto da un dramma in prosa tedesco della seconda metà del '900, a sua volta ispirato da un racconto francese della seconda metà del '700, e di stenderne il libretto in lingua inglese (airport-english, come ci tiene a precisare l'Autore medesimo, cioè un inglese così poco oxfordiano da essere facilmente comprensibile da un lappone, da un basco, da un vietnamita, da uno zambiano e persino da un londinese). Il titolo dell'opera resta però in tedesco (lingua madre, quando si tratta di certa musica): Quartett (così siamo sicuri che ci arriva anche un bresciano come me, smile!)

Comincio col riportare alla lettera una critica pubblicata di recente:

L'apporto di Alex Ollé e della Fura dels Baus penso sia molto importante proprio come "antidoto" a una lettura banalmente post-espressionista o ideologica di Heiner Müller, e che aiuti a proiettarlo invece da un lato in una dimensione epocale legata alle sorti della civiltà occidentale, dall'altro su un piano più universale.
Lo stesso percorso che la musica intende seguire.
L'opera è una grande macchina, un laboratorio alchemico dove questa babele di pulsioni e di lingue può trovare uno stato di fusione.
E questo grazie all'effetto di febbrile "alterazione", di alta temperatura percettiva che la musica soltanto è in grado di indurre.
L'elaborazione elettronica di suoni e spazi è l'altro agente chimico che reinscrive l'esperienza in una nuova dimensione di ascolto: moderna, veloce, attenta, multidimensionale.
Ciò che in fondo il teatro d'opera ha sempre voluto sognare.
Il rapporto con un luogo sacrale come La Scala non è conflittuale né compiacente.
È impensabile ignorarne la forza immaginifica e storica. Ma è forse possibile, se non necessario, metabolizzarlo e integrarlo nel mondo; in un mondo che va oltre i suoi muri ed anzi lo contiene, come il mare un magnifico corallo.

Ma di chi mai sarà una così profonda e illuminata recensione? Di Isotta, Mattioli, Foletto, Arruga, Stinchelli, o del Corriere della Grisi? No, è di un tal Luca Francesconi, che dev'essere un omonimo, e pure sosia, dell'Autore!

Ora, se il soggetto di Müller è sufficientemente urticante - ancorchè imbevuto di pretenziosa retorica anti-borghese made-in-DDR – la musica che Francesconi gli ha cucito attorno mi è parsa ancor più velleitaria e incapace di suscitare non dico emozioni, ma nemmeno grande interesse, a dispetto delle tecnologie IRCAM impiegate in larga scala e degli accorgimenti (fra l'altro non nuovi, come le due orchestre, ancora poche) previsti per l'esecuzione.

Che si possa andare a teatro anche per piangere o meditare sulle miserie umane è perfettamente ammissibile, per carità… ma evidentemente ai giorni nostri si pretende che il pubblico soffra per davvero, ma proprio fisicamente: sarò banale e disfattista, ma temo proprio di sapere come un certo Fantozzi – l'io profondo di (quasi) tutti noi - avrebbe commentato la serata (smile!) Personalmente, alla domanda: "cosa preferisci, vedere ancora quest'opera, o un'altra Tosca di Bondy?" non avrei dubbi su come rispondere; perché la Tosca di Bondy – basta chiudere gli occhi – qualche emozione te la dà comunque, garantito. E poi se Jonas stona, lo becchi subito in castagna, perdio.

Si può commentare tecnicamente lo spettacolo? Credo proprio di no. Il regista e il resto della troupe hanno potuto – cosa rara – lavorare gomito-a-gomito con l'autore di libretto&musica, quindi se avessero fatto cazzate sarebbero proprio da rinchiudere. Quanto ai musicisti, con musica come questa come si fa a decifrare se il soprano ha stonato sul SIb della scena 5, o se la direttrice d'orchestra ha strascicato eccessivamente i tempi nel duetto della scena 10?

In compenso si può apprezzare il mirabile piano schematico dell'opera, esattamente come uscito dalle proprie mani dell'Autore:



L'impressione è che anche questa, come purtroppo molte altre opere contemporanee, sia – programmaticamente? – destinata a ricevere il suo successo di stima (musically-correct, si potrebbe dire con una parafrasi) - successo che è puntualmente arrivato anche ieri sera, da un pubblico scarso e non propriamente entusiasta, che ha evidentemente premiato l'abnegazione della Cook e di Adams, e l'impegno di Mälkki, Lavoie, Casoni, coro, orchestre e allestitori - per poi venire ridimensionata a concisa entry nel catalogo dell'Autore. Ma in fondo anche il Wagner rivoluzionario (mica quello di Bayreuth, ovvio) farneticava di festival dove si eseguissero due, massimo tre volte delle opere nuove, per poi dare alle fiamme tutto quanto, dalle partiture ai palchi!
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