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29 aprile, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 32


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Quasi tutto francese il programma del concerto di questa settimana. Sul podio Tito Ceccherini, trentottenne di belle speranze, già però in via di trasformazione in altrettanto belle realtà.

Apertura con il Concerto in SOL di Maurice Ravel, interpretato da una vecchia conoscenza de laVerdi, il bravissimo Roberto Cominati.

Concerto composto a cavallo del 1930, dopo che Ravel (1928) aveva girato gli USA in lungo e in largo ed era quindi venuto a contatto diretto con la musica di laggiù (quantunque il jazz fosse già ampiamente di moda anche a Parigi) passando anche diverso tempo con Gershwin. E ascoltando il clarinetto piccolo esporre il motivo in FA#:

uno non può non pensare appunto a Gershwin e all'attacco della Rapsody in Blue.


Tutto il concerto (a parte l'Adagio) mostra chiare influenze jazzistiche, con ampio uso di ritmi sincopati; nell'iniziale Allegramente sentiamo anche del blues, come qui:

Cominati sembra voler alleggerire in tutti i modi lo spessore di questa musica, accentuandone la liquidità, piuttosto che le esasperazioni percussive.


Il lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel fino alla consunzione fisica (parole sue). Le prime 33 battute (3/4, MI maggiore) sono affidate al solo pianista, che con la mano sinistra scandisce un ritmo quasi di walzer in 3/8 (battere su nota singola, levare su accordi di due note, e continuerà così – con rare eccezioni - per il resto del movimento) mentre la mano destra descrive la melodia:

Sui tempi di esecuzione si discute sempre all'infinito, però allorquando l'Autore, oltre alla tradizionale indicazione agogica, ha prescritto il tempo in modo perentorio e… meccanico (leggi: metronomo) bisognerebbe pur tenerne conto, cercando almeno di stare all'interno di una forchetta ragionevole (dove il ragionevole potrebbe essere, che so, il più-meno 5%, ma non – direi proprio – il più-meno 20%, pena presentare una parodia delle originali intenzioni dell'Autore).


Un'indagine che può fare chiunque su Youtube ci dice che i diversi interpreti di questo movimento tendono regolarmente a rallentare rispetto al metronomo di Ravel (76 crome). Ad esempio Argerich sfora di meno del 4% nelle prime 33 misure (che sono un po' il biglietto da visita) ed è un metronomo lei stessa, perché in diverse occasioni stacca sempre lo stesso tempo; con Dutoit nel 1990 poi, sul totale dell'intero movimento sfora di meno del 2% rispetto alla durata nominale. Il grandissimo (mio conterraneo) Michelangeli sfora di circa il 5% all'inizio e di poco più del 7% sull'intero movimento. Invece tale Bernstein (imitato anche da Cabassi, per dire…) va talmente da lumaca al punto da sforare di più del 18% nelle prime 33 misure, e di più del 22% sul totale! Ecco, questa è una cosa per me inaccettabile e ingiustificabile da alcun punto di vista estetico (dopo tutta la fatica che Ravel ha fatto per comporre quel pezzo!) Se poi a qualcuno piace anche così… vuol dire che gli piace anche la Gioconda ritoccata con i baffi (smile!)

Posso garantire – ma basta poco allenamento per farsi un'idea della velocità, anche senza un cronometro - che Cominati ha staccato qui un tempo ragionevolmente vicino (pur sempre più lento, ma mai come Bernstein) all'idea di Ravel: e la cosa non ha soltanto una valenza freddamente tecnica, ma squisitamente estetica (quanto meno rispetto alla prospettiva estetica dell'Autore).

Da encomio in questo movimento il lungo, bellissimo intervento del corno inglese di Antonio Palumbo.

Il breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non solo per il pianista. Ad esempio i due fagotti sono chiamati, nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini. Pezzo davvero di grande effetto, che Cominati chiude splendidamente, accolto da un autentico tripudio. Che lui ripaga con una parafrasi della Chanson bohème (tanto per restare in ambientazione spagnola in salsa francese).

Sylvano Bussotti è l'autore – oggi quasi ottantenne – della composizione successiva, praticamente inedita, il dramma in due parti e cinque atti Pater doloroso, di cui vengono eseguiti due frammenti: Sinfonia e Cielo. Vi suona qui anche Nicola Moneta con il suo gigantesco octobasse (il jumbo-contrabbasso) che darà poi il suo contributo anche al Bolero, affiancando i suoi… nipotini.

A me, che di Bussotti avevo ascoltato dal vivo – ma è passata un'eternità – soltanto il suo quartetto I semi di Gramsci, ha fatto un certo effetto ascoltare musica quasi diatonica (!) e per nulla astrusa, né (apparentemente, almeno) complicata. Quando Ceccherini abbassa le braccia, il primo ad applaudire, da centro platea, è un vecchietto che evidentemente quella musica deve conoscere a memoria: l'Autore! Che sale sul palco a ricevere meritati applausi… alla carriera.

Dopo l'intervallo eccoci a Debussy e le sue immagini di Iberia, un trittico incastonato in un altro trittico più ampio (fra Gigues e Rondes de Printemps). C'è chi ha descritto la tecnica compositiva qui usata da Debussy come puntinismo (pointillisme, una scuola pittorica vicina all'impressionismo, i cui adepti usavano dipingere quadri coprendo la tela, anziché di pennellate tradizionali, di una miriade di puntini; una specie di anticipazione manuale dei pixel dei moderni monitor!) In effetti la partitura di Images è ricchissima di piccoli dettagli di colore, che creano uno straordinario effetto d'insieme. Proprio mentre Debussy componeva Iberia, Maurice Ravel aveva appena pubblicato la sua Rapsodie espagnole, che una qualche influenza deve aver avuto sul più anziano e famoso Claude.

Il primo brano (Par les rues et par les chemins) ha un tempo ternario (3/8, da seguidilla, per intenderci) e sono i clarinetti ad esporne il tema principale, in SOL:



Sembra proprio di sentire suoni (e polifonie) che escono da case e locali di un tipico ambiente spagnolo, o semplicemente il brusio della gente che passa o i rumori del traffico. Al centro del brano c'è una sezione più lenta in 2/4 (ma suddivisi in 12/16, quattro terzine) quasi una pausa per la siesta (smile!) o l'inoltrarsi su stradicciole fuori mano. Qui c'è ampio impiego di rubato, prima del ritorno del tempo 3/8, che ci riporta ad una certa concitazione urbana, fino alla chiusura su una mirabile cadenza, che preannuncia il crepuscolo.

Il secondo brano (Les parfums de la nuit) è una cosa davvero strepitosa, un'evocazione di sensazioni che si provano guardando il cielo stellato, ascoltando un usignolo lontano, o inspirando i profumi che emanano dai giardini fioriti. Proprio mentre Debussy completava quest'opera, un suo ammiratore – e amico intimo di Ravel - Manuel de Falla, iniziava a comporre Noches en los jardines de España: che certo deve aver tratto ispirazione da questo brano, oltre che da Ravel. Peraltro de Falla, da spagnolo verace, ha un approccio forse più descrittivo, che non evocativo, rispetto ai suoi colleghi francesi. Tornando a Les parfums, in esso arpa, celesta e xilofono, assieme alle campane che emergono nel finale, vengono sapientemente usati per creare l'atmosfera notturna, una notte dove si fa però risentire anche il tema del primo brano, ad evocare il giorno passato ed anticipare quello che si appresta a sorgere.

Ed infatti il terzo brano (Le matin d'un jour de fête) si apre in modo ancora sonnolento, poi le campane annunciano la festa, che si scatena in ogni dove. C'è anche un intermezzo quasi comico, col violino che improvvisa un bizzarro assolo, disturbato due volte dai sordi colpi del tamburo basco (sembra quasi Sachs che rovina la serenata a Beckmesser, smile!) prima che il tutto precipiti verso una esilarante conclusione in SOL, che suscita grandi applausi del pubblico per l'orchestra e per Ceccherini.

Il concerto si chiude in bellezza (per la verità una bellezza un pochettino volgarotta, ammettiamolo) con il raveliano Bolero, che pare essere il brano di musica (cosiddetta) classica più eseguito al mondo (qualcuno ha calcolato che venga suonato – in un qualche posto del pianeta - in media ogni quarto d'ora!) e che abbia creato un'autentica montagna di quattrini (in diritti d'autore) finiti però nelle tasche di svariati approfittatori. Si dice che Ravel – figlio di un ingegnere meccanico e lui stesso dotato di una mente matematica - vi volesse immortalare in musica l'incessante martellamento di magli o macchine utensili di fabbriche e officine, mentre qualche psichiatra tende a vederci piuttosto i segni di incipiente demenzialità (smile!)
Chissà cosa ne pensa al proposito lo strumentista più impegnato qui - giacchè non ha letteralmente una sola battuta di pausa – ossia l'addetto al primo dei due tamburi militari. Il quale ha da eseguire quest'unica cosuccia:

Roba da nulla, parrebbe, se non fosse che il povero malcapitato – Ivan Fossati, per l'occasione sistemato proprio davanti al Direttore, come un solista che si rispetti - è tenuto a ripeterla ininterrottamente per 169 volte, non una di meno: una vera e propria tortura cinese! (Magra consolazione: per le ultime 24 ripetizioni il nostro tamburino è raggiunto anche dal suo secondo, che lo sostiene così nell'ultimo supremo sforzo.) Poi resteranno solo due battute per finirla lì, dopo un quarto d'ora (più o meno) di menata di torrone:



E ancora a proposito di durate, Ravel ha indicato (ma dopo vari ripensamenti, in questo caso) il metronomo di 72 semiminime al minuto. Datosi che le battute sono 340 in 3/4, e non vi è mai alcun cambiamento di agogica, si può dedurre matematicamente la durata nominale del brano: 14 minuti e 10 secondi. Si narra che nel 1930 Toscanini suonò il Bolero con la sua NYPO a Parigi, Ravel presente, e tenne come suo solito tempi assai stretti, chiudendo in 13'25". Ci mancò poco che Ravel gli togliesse il saluto! Ma si scoprì che Toscanini aveva – come quasi sempre – ragione: sulla copia della partitura in suo possesso era chiaramente indicato il metronomo 76, corrispondente – ma proprio al secondo - al tempo da lui tenuto. E infatti Ravel aveva, ma solo sulla sua personale copia, impiegata per una incisione con la Lamoureux, corretto il 76 in 66 (corrispondenti a 15'25", due minuti pieni in più). Alla fine il compositore optò per una via di mezzo (72, appunto).

Tornando a bomba, su quell'ossessionante ritmo si appoggiano due soli temi, A e B, entrambi in DO maggiore, ma con il secondo pesantemente inquinato da gradi diminuiti.
Entrambi i temi si estendono su 18 misure, suddivise in 8 (prima sezione del tema) più 8 (seconda sezione) più 2 (transizione). Vengono presentati accorpati in una cellula strutturata in A-A-B-B (per un totale quindi di 72 misure), cellula ripetuta per 4 volte. Dopodichè viene riesposto il tema A, seguito immediatamente dal B, ma un B modificato nella seconda sezione per sfociare nella cadenza conclusiva (che passa fugacemente dal MI maggiore).

Parliamoci chiaro, una simile mappazza, già di per sé stomachevole, risulterebbe del tutto indigeribile se non fosse presentata con qualche opportuno facilitatore digestivo. Che per Ravel consiste in due abili trucchi: sul lato della melodia, far suonare le 18 ripetizioni dei temi A e B ogni volta da strumenti (dapprima singoli, poi a gruppi) diversi; su quello dell'accompagnamento ritmico, aggiungendo di volta in volta al tamburo militare l'intervento di altri e diversi strumenti.

Un ulteriore accorgimento impiegato dal compositore risiede nel far progressivamente aumentare il volume del suono, sia incrementando gradatamente la dinamica dal pianissimo al piano al mezzo-piano al mezzo-forte, al forte, per arrivare al fortissimo di tutta l'orchestra in vista della perorazione finale; sia ingrossando via via le fila degli strumenti in azione: inizialmente uno soltanto e successivamente 2,3,4… fino alla piena orchestra. E un altro accorgimento consiste – a partire dalla terza esposizione della cellula AABB – nel far raddoppiare la melodia a strumenti in tonalità diverse dal DO (ad esempio MI, come nella quinta proposizione del tema A, nell'ottavino).

Tutto ciò e riassunto nello specchietto consultabile qui (costruito a partire dall'edizione Eulenburg 8023 EE6865 del 1994). Anche se la scala orizzontale non rispetta le proporzioni fra i gruppi di battute, dalla figura si ricava un colpo d'occhio immediato del progressivo addensarsi dei suoni e della distribuzione dei compiti fra i diversi strumenti dell'orchestra. Si noti come le melodie dei due temi principali siano in misura preponderante affidate agli strumentini e come agli archi venga riservato prevalentemente un ruolo di armonizzazione e ai corni quello di sottolineatura del ritmo (dettato dal primo tamburo militare). Curioso (e dispendioso assai!) il limitatissimo impiego della celesta (che suona, con i due ottavini, la quinta esposizione del tema A) come quello di piatti, grancassa e tam-tam, che compaiono solo nella cadenza conclusiva.

Inutile dire dell'immancabile successo, con pubblico ubriacato e delirante: ma sì, con i tempi che corrono, cosa si pretende di più…

Il prossimo appuntamento vedrà il ritorno dell'accoppiata Schumann-Mahler. Con opere che – per ragioni del tutto diverse – sono uscite allo scoperto decine di anni dopo essere state composte.
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