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16 aprile, 2011

La (solita?) Turandot alla Scala





Ieri sera alla Scala quarta rappresentazione di Turandot, già miracolosamente passata indenne dalla prima di domenica scorsa (questa sì che è una notizia, smile!)

Opera che ha fatto nascere luoghi comuni e leggende metropolitane e soprattutto la ricorrente domanda: ma che finale fanno? Un po' come accade per Boris (l'ur? quale ur? il primo o il secondo? quello di Rimsky? no, di Shostakovich… anzi no, di Lamm) oppure la Carmen (edizione Guiraud o Oeser? no no, Didion… o forse Smith!) o ancora il Tannhäuser (di Dresda o Parigi? ah sì, quello di Parigi rivisto a Vienna) e così via investigando.

Questa - diretta da Gergiev - è una Turandot tradizionale, nel senso di statisticamente più eseguita: quella con il finale II di Franco Alfano (Alfano chi? l'ammazza-processi di Berlusconi? smile!) E per una semplice ragione: è l'edizione ufficiale di Ricordi. Gli altri finali (compreso l'Alfano I) sono difficili da recuperare e quindi proposti solo da qualche intraprendente Festival, o da iniziative più o meno velleitarie. E dire che ci sarebbe una versione che metterebbe tutti d'accordo!

La produzione è nuova, firmata da Giorgio Barberio Corsetti. Nulla di cerebrale (per fortuna, aggiungo io!) ma anche nulla di particolarmente eccitante. La caratteristica saliente è la mobilità, ma non delle persone, bensì delle cose. Case, ponticelli, palazzi che salgono e scendono senza particolare motivo, forse soltanto per tenere in esercizio i martinetti del sottoscena, ad evitare che arrugginiscano con l'inattività (smile!) In compenso, quando sarebbe servito, ad esempio a far scendere Turandot verso Calaf nella scena degli enigmi, nessun meccanismo viene impiegato e tutto si svolge rasoterra. Dopo l'intervento degli anni scorsi, il fondo-scena del Piermarini si è approfondito di parecchio, ma i registi dovrebbero ricordare che invece gli spettatori sono sempre là dove erano dalla fine del 1700: e che, dalla terza fila di palchi, il nuovo fondo-scena non si vede. Quindi a che serve proiettarci immagini, se un terzo dell'uditorio non le vede?

C'è anche un'idea portante (?!) in questa regìa, che è quella di natura onirica: Calaf si sta solo sognando tutto, e alla fine dorme beato con la benedizione di Turandot&C, contenti di avergli animato la notte dopo una difficile digestione… Orpo!

Vengo alla musica: Gergiev dirige come fosse un russo (smile!) movimentando un po' le cose con qualche fracasso, ma dovendo per la più parte tenere volume basso, affinchè qualcosa di ciò che è cantato in scena arrivi alle nostre orecchie (non parlo dei cori di Casoni, che sanno benissimo come farsi sentire!)

Berti e Guleghina per la verità di voce ne hanno a sufficienza. Il primo se la cava senza infamia e senza lode, mentre la seconda – per me – merita un'ampia insufficienza: stacca appena discretamente i suoi DO acuti, ma per il resto canta (si fa per dire) un incomprensibile grammelot (o forse era proprio cinese antico?) con voce sgradevole e animalesca.

Molto meglio la Kovalevska, una Liù più che decente, che mi è parsa la migliore della serata. E con lei Spotti, che non ha demeritato come Timur.

Chi ha fatto ridere sono Ping, Pang e Pong, e su tutti il Ping di Veccia, che forse qualcuno nelle prime tre file di platea sarà anche riuscito a sentire. Ma pure Casalin e Bosi non hanno scherzato: nel terzetto del second'atto, pur essendo al proscenio, pareva che cantassero immersi in un acquario (o forse erano proprio sul fondo del laghetto blu dell'Honan?)

Anche il povero Ceron, Imperatore per l'occasione, ha faticato a farsi sentire, ma almeno lui ha l'attenuante di essere stato collocato dal regista più vicino al Castello Sforzesco che agli spettatori (a proposito di impiego scellerato del fondo-scena!) Sembra paradossale, ma il prezzemolo Panariello (qui nei panni del Mandarino) ha fatto una figura migliore.

Alla fine nessuna uscita singola (ahi, ahi, coda di paglia?) salvo quella dei due Maestri, giustamente, credo io, acclamati.
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Post scriptum
Che si continui a presentare il finale posticcio e abborracciato di Alfano-Toscanini (conseguenza, del resto, della totale inconsistenza del libretto) è cosa spiegabile soltanto con il degrado della nostra civiltà: il pubblico pagante – oggi cinese in quota rilevante, guarda caso - vuole il lieto fine (ma sarebbe altrettanto contento di un finale macabro, con Calaf decapitato dalla glaciale principessa) e va perciò accontentato, a costo di rigirare per la millesima volta il coltello nella polvere del grande Giacomo. Se n'è accorto persino il regista, che ha fatto salire un terrapieno fra Puccini e Alfano, precisamente su questa pagina, che è anche l'ultima pagina della Turandot autentica:



Il resto, esattamente 60 pagine (402-461) dell'ultima edizione Ricordi (2000) è invenzione di Alfano, oltretutto depurata (da Toscanini&C) di molti improbabili wagnerismi che l'autore di Sakuntala ci aveva infilato, credendo così di interpretare la volontà di Puccini. Ma potrebbe eseguirsi quello – a sua volta vagamente tristaniano, sempre per via di un appunto scritto da Puccini sul 17° dei 23 fogli lasciati sul comodino del letto di morte - di Luciano Berio; o anche quello della zelante americana Janet Maguire; o persino l'ultimo – la Cina è vicina, toh! - di Hao Weiya. Ma perché – già che ci siamo - non commissionarne uno nuovo di zecca al nostro grande Mozart contemporaneo, Giovanni Allevi? E se è difficile mettersi nei panni di Puccini, non c'è proprio nessuno che si provi almeno a mettersi in quelli (postumi) di uno Zandonai o di un Ravel, da più parti indicati come i musicisti più adeguati a compiere l'impresa?

In realtà, la verità è una e dovrebbe ormai essere chiara a tutti, e prenderne atto risolverebbe alla radice il problema del finale: la Turandot è opera che finisce con Liù perché Puccini – o più probabilmente il suo subconscio – aveva preso atto che così dovesse ineluttabilmente accadere. E infatti fino all'ultimo – pur avendo buttato giù parecchi schizzi – il compositore non fece che cincischiare, e con infinita pena, attorno ad un finale che non gli veniva proprio, fra continui rimpalli di responsabilità con i suoi librettisti e laceranti dubbi sulla consistenza drammatica ed estetica del lieto fine e soprattutto della sua necessaria premessa: l'inopinata ed improvvisa virata di 180° nell'atteggiamento di Turandot.

Dunque: Turandot, per 2 atti e mezzo su 3 (i 5/6 dell'opera!) ci appare come una donna (anzi, una ragazzina) fondamentalmente e congenitamente cattiva. Nel primo atto non canta una sola sillaba, ma il suo pollice verso nei confronti del principino di Persia ci basta ed avanza per inquadrarne la sbifida personalità. Nel second'atto perde la tenzone di sapienza con Calaf e, invece di accettarne il verdetto e le relative conseguenze, magari adducendo la solita, ipocrita scusa: lo faccio per dio, non per piacer mio (smile!) va a piagnucolare dal padre, reclamando l'annullamento della prova! Sbeffeggia a tal punto il vincitore Calaf da ottenerne, perso per perso, una prova d'appello (la scoperta della di lui identità). Nel terzo atto la carognaggine della principessa rasenta addirittura l'efferatezza, allorquando Turandot emana un editto che impone a tutti i suoi sudditi – pena la morte, quisquilie! - di scoprire per lei il nome del principe; e i tre porcellini offrono a Calaf escort in eccesso a quante circolano nelle residenze del nostro pluri-prescritto PM, per cercare (inutilmente) di convincerlo a rinunciare al meritato trofeo.

Ebbene, dopo che ha dovuto constatare il proprio completo fallimento, la nostra simpaticona assiste al sacrificio di Liù (scena che muoverebbe a pietà persino Osama bin Laden!) e invece di aprire gli occhi sulla realtà e sulla forza dell'Amore (col che il quadro finale avrebbe sì, allora, una sua piena e nobile giustificazione) rimane ancora e sempre impassibile e sprezzante (statuaria, senza un gesto né un movimento) al punto tale che lo stesso innamorato pazzo Calaf le si avventa contro apostrofandola con Principessa di morte! Principessa di gelo!

Ora ricapitoliamo, manca solo un sesto di opera da completare – tutto il resto è già perfettamente strumentato, e da mo' - ma ancora non si vede il benché minimo spiraglio che possa plausibilmente giustificare il voltafaccia della principessa e il suo miracoloso finale scongelamento: tutt'altro, lei è sempre più ibernata e incarognita! Che fare, una volta scartata la possibilità offerta dal sacrificio di Liù? Inventarsi un filtro magico à la Tristan (era forse questo cui voleva alludere l'appunto di Puccini?) oppure far comparire lo spettro dell'ava Lo-u-Ling che convinca Turandot che non tutti i maschi sono poi così vomitevoli come quel pipistrello che l'aveva violata?

Ecco, in questa situazione, i librettisti del sempre più infastidito Puccini non sanno che pesci pigliare né proporgli - di scongelante - nulla di più e di meglio che una bella ingroppata (stra-smile!) Con la frigida cattivona che – praticamente fatta segno di un mezzo-stupro da parte di Calaf - sbrodola un ridicolo Che è mai di me? e pare convincersi a cedere, arrivando ad ammettere che lei, in fondo, si era già un pochino innamorata fin dal primo incontro. Ma poi torna a rinchiudersi a riccio e ordina a Calaf di andarsene, visto che ha ottenuto – fare sesso con lei? - ciò che desiderava. E così abbiamo questa ulteriore strampalata manfrina, con lui che le rivela il nome, lei che pare volerlo carognescamente buggerare coram-populo, come avesse vinto una gara regolare, e infine la sorpresa (ma per favore…) della dichiarazione d'amore che consente la chiusa in gloria e magna pompa.

E Puccini, secondo voi, era uno disposto ad accettare questo guazzabuglio, oltretutto dopo il poco onorevole precedente della Fanciulla? Forse preferì davvero togliere il disturbo, prima di fare una penosa figuraccia.

Al proposito mi pare fulminante questa considerazione che Michele Girardi ha proposto nella sua introduzione all'Opera, comparsa sul programma di sala de LaFenice, pochi anni orsono: …un compositore che non voleva morire artisticamente, per non morire fisicamente, avendo scelto una principessa frigida per comunicarlo a tutto il mondo.

Però fu proprio la frigidezza della principessa a creare l'ultimo problema – irresolubile, e perciò fatale - della sua vita. Ma per ragioni di bassa cassetta ci si continua invece a propinare il finale da avanspettacolo, della serie: dì la verità che hai goduto, zoccola!

Ecco perché, esalato il MIb di archi e ottavino, personalmente preferirei che il Direttore posasse la bacchetta, come fece alla prima assoluta proprio Toscanini, pentitosi (per poi contro-pentirsi il giorno dopo) di aver avallato un misfatto.
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4 commenti:

Amfortas ha detto...

Non ho visto questa Turandot, ma ho molto apprezzato il post scriptum.
Nel merito dello spettacolo sottolineo come il vezzo dei registi di far immaginare parte dell'allestimento al pubblico è ormai diventato quasi una regola. È successo anche qui, ai confini dell'impero: recentemente nel Samson et Dalila, ma anche tante altre volte, e non ha importanza se è stato un bene.
Ecco, magari un minimo d'attenzione a queste cose, i registi dovrebbero averla.
Ciao!

daland ha detto...

@Amfortas
Il fatto è che sono - in parte - i soldi nostri che finanziano queste discutibili imprese!
Scriverò prossimamente su come il primo teatro italiano faccia pena anche sul fronte "marketing".

Grazie per l'apprezzamento, ciao!

Moreno ha detto...

Forse il problema di Turandot nasce dal fatto che Puccini – nonostante il proprio genio musicale e drammaturgico – dette sempre il meglio di sé in un’unica dimensione: quella dell’analisi sentimentale e commovente delle sofferenze fisiche e psicologiche di una donna fragile e vulnerabile.
In Turandot il personaggio più coerente con questa poetica è Liù. Nel momento in cui lei esce di scena, si spegne anche l’ispirazione del compositore e dei suoi librettisti.
Saluti,
Moreno

daland ha detto...

@Moreno
Sì, questa è la spiegazione più plausibile, almeno a giudicare da come sono andate le cose.
Le speculazioni del tipo "ma se Puccini avesse avuto altro tempo..." lasciano appunto il tempo che trovano. A un genio come lui magari poche settimane ancora sarebbero potute bastare per cavare dal cilindro una delle sue magìe... o magari per abborracciare una conclusione tipo Fanciulla. Ma è altrettanto possibile che non sarebbe riuscito a cavare un ragno dal buco, anche campando 100 anni!

Grazie, ciao!