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05 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#9

Siamo ormai alla seconda metà del ciclo delle sinfonie, e per la Sesta in Auditorium è arrivata un’altra Orchestra ospite, quella dell’Arena di Verona, guidata da Marco Angius.

Sulle (tante) banalità cresciute attorno a questa Sinfonia - alimentate anche dallo stesso compositore ma soprattutto dalla moglie (forse per farsi perdonare i… tradimenti) - mi sono dilungato assai molti anni fa e quindi non faccio che rimandare a quel lungo e articolato commento, in appendice al quale ho allegato quello, assai più autorevole, di Ugo Duse.

Un tormentone interminabile è nato intorno alla collocazione dei due movimenti centrali della Sinfonia: lo Scherzo e l’Andante (e in più anche sul numero – 2 o 3 – di martellate nel Finale).  Basti dire che Gastón Fournier-Facio, curatore del recente Tutto Mahler, dedica non meno di 14 pagine a censire le principali esecuzioni (a partire proprio dalla prima di Essen, diretta dall’Autore, nel 1906) della Sinfonia, e poi tutte le edizioni ed anche i razionali che portano le diverse scuole di pensiero a privilegiare una o l’altra delle due possibili sequenze.

Anch’io, nel mio piccolo, ho qualcosa da proporre, e riporto un estratto di un mio vecchio commento al proposito, basato su tre possibili prospettive di ascolto:

1. Se si guarda all’equilibrio dell’opera in termini di durate temporali, sembrerebbe pacifico mettere lo scherzo in seconda posizione (come per la Nona beethoveniana, per dire…): abbiamo in questo caso i movimenti 1+2 (animati) che occupano 35 minuti e poi l’andante di 15 minuti che serve a prender fiato prima dell’altra mezz’ora del finale burrascoso. In questa soluzione la Sesta si avvicina quasi alla Quinta (che ha tre movimenti mossi, poi il calmo Adagietto, che vagamente anticipa l’Andante della sesta, prima del finale allegro)

2. Se si guarda alla forma classica - che secondo taluni, Adorno in testa - sarebbe alla base della concezione artistica della Sesta, allora l’Andante dovrebbe venire prima dello Scherzo (in fondo anche Beethoven fece uno strappo alla regola soltanto con la sua Nona, appunto; per il resto restò fedele alla tradizione, collocando sempre il movimento più lento in seconda posizione, in modo poi da animare progressivamente l’atmosfera, con il Minuetto - poi Scherzo – in vista dell’Allegro finale).

3. Poi c’è la vista da poema sinfonico, autorizzata sia dai riferimenti extramusicali e autobiografici, che dalle arditezze di certe indicazioni dinamiche e dall’uso di strumenti che nulla hanno a che fare con la sinfonia classica (celesta, campanacci da mucca, martello e altre percussioni). Secondo tale approccio verrebbe ancora da preferire lo scherzo in posizione avanzata, in quanto avremmo: il ritratto di Alma, poi le piccole Putzi e Gucki che giocano in riva al lago, quindi un accorato sguardo all’indietro verso i bei giorni passati, e infine le tre mazzate del destino che abbattono definitivamente l’artista e l’uomo.  
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Marco Angius? Come ci sia arrivato lo saprà lui, ma ha deciso per la soluzione Scherzo-Andante. La cosa curiosa è che aveva sotto gli occhi una partitura (verosimilmente la seconda di Kahnt) che reca la sequenza Andante-Scherzo: prova ne sia che si è munito di segnalibri per fare gli spostamenti avanti-indietro durante l’esecuzione. (I colpi di martello erano solo due, ma questo è ormai universalmente accettato.)

La prestazione dei veronesi è stata non meno che eccellente (strepitoso il corno di Andrea Leasi, letteralmente acclamato alla fine). Angius, che dirige a mani nude, ha mostrato un’assoluta padronanza di quest’opera complessa tecnicamente ma soprattutto esteticamente, e ne è venuto a capo alla grande.

L’Orchestra veronese ha dimostrato che non sa distinguersi solo all’aperto in Verdi e Puccini, ma che non ha nulla da invidiare alle migliori orchestre internazionali anche in questo repertorio.

Auditorium (colmo anche oggi) letteralmente in visibilio, con ripetute chiamate e battimani ritmati, a suggellare un’altra memorabile giornata di questo Festival.

02 dicembre, 2017

Milano Musica chiude all'Auditorium


Largo Mahler ha ospitato ieri una delle tappe (anzi l’ultima, che si replica domenica) della rassegna Milano Musica, dedicata come sappiamo a Salvatore Sciarrino. Del quale era in programma la prima esecuzione italiana del Libro notturno delle voci, una specie di eterodosso Concerto per flauto dedicato all’esecutore di oggi, Mario Caroli (speriamo il flauto non si offenda, e nemmeno il concerto...) del 2009.

L’opera (!) si suddivide in tre parti, con tanto di sottotitoli:

1. In val d'abisso
2. Fauci dell'emozione
3. Mario Caroli e l'iridescenza di un Re

Purtroppo nè i titoli, nè (soprattutto) i contenuti musicali ci aiutano a distinguere chiaramente una parte dall’altra. Quindi possiamo sentenziare trattarsi di un’opera caratterizzata da grande unità tematica...

Sciarrino si è specializzato nel riprodurre in musica qualunque tipo di suono(/rumore) in ciò prendendo spunto dalla filosofia di Mahler (a proposito dei suoi Naturlaute) ma portandola all’estremo. Così non ascoltiamo più i classici cuculi, o le melodie stiracchiate di un violino di strada, o i campanacci di vacca su un alpeggio... ma arrivano alle nostre orecchie muggir di buoi, latrar di cani o miagolar di felini in calore, per citare solo qualche esempio. Poi ci sono anche sirene antifurto, porte metalliche di vecchi ascensori che sbattono, sinistri cigolìi, sgocciolar di rubinetti guasti... tutti suoni che rompono il silenzio notturno, ci pare di udirli nel dormiveglia, ritmato dal respiro affannoso di due violoncelli.

Il flauto qui è usato nel primo movimento come un fischietto di quelli che un tempo corredavano i nostri vestitini da marinaretto; nel secondo come strumento per produrre... starnuti; e nel terzo per emettere il suono che si ottiene naturalmente soffiando in una canna di bambù.

Che dire, restarne rapiti? Farci prendere da esasperazione? Sghignazzarci sopra? Beh, ognuno si attrezzi un po’ come gli pare... c’è libertà di scelta, di gusti e di critica; e per fortuna (dei compositori, soprattutto) non c’è in giro nessun nipotino di Zdanov, ecco. Però dobbiamo riconoscere che qualche progresso si è compiuto: rispetto alla registrazione della prima assoluta in terra tedesca (citata più sopra, del 2009) ieri la durata del brano ha superato di poco i 25 minuti. Grazie!

PS: Caroli deve avere comunque un buon rapporto con il suo flauto: per farsi perdonare di averlo bistrattato a quel modo, ha concesso un bis dove lo strumento è stato impiegato precisamente per lo scopo per il quale fu inventato: emettere suoni e non rumori (!)
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La serata era stata aperta (come da prassi che vuole che, in presenza di un brano moderno, gli si anteponga uno di tradizione, per in qualche modo obbligare il pubblico a sorbirsi il moderno...) da Ravel, con la sua Valse, ovviamente in versione orchestrale. Si tratta di un grottesco sberleffo alla Vienna presuntuosa e godereccia di metà ‘800, dove sentiamo raffinate atmosfere impressioniste intercalate a volgarità da fetida balera… Però il tutto è sempre un piacere per l’ascolto, e qui difficilmente si pone il problema di come reagire di fronte a ciò che arriva alle nostre orecchie. Va da sè che i ragazzi (e Angius ovviamente) han dato il loro fattivo contributo alla riuscita dell’impresa..
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Dopo la pausa ecco Debussy, con in suoi tre Nocturnes, una particolare variante di musica-a-programma.

Nuages, lo dice il titolo, evoca un incessante passare di nuvole sopra la Senna, precisamente presso il ponte di Solférino, ma qui l’indicazione è tanto minuziosa quanto ininfluente sul contenuto musicale, che mai pretende l’impossibile (la descrizione di un fenomeno naturale) bensì esprime in modo mirabile l’impressione provata da chi osserva il muoversi delle nuvole, sempre diverso, ma allo stesso tempo sempre uguale a se stesso. Chissà se quella specie di Dies Irae esposto da clarinetti e fagotti è un riferimento voluto o casuale... 

In Fêtes Debussy si ispira poeticamente ad una serata al Bois de Boulogne, evocandone però non tanto le prosaiche manifestazioni (tarantelle, marce della Guardia repubblicana, fanfare che arrivano da lontano, passano e si perdono) ma le sensazioni (meglio… le impressioni) che esse provocano nel suo animo, e sono queste che il compositore ci vuol trasmettere con i suoi suoni.

Sirènes si riallaccia in quache modo a Sciarrino, che ha trattato il mito di Orfeo più volte, non ultima la sua recente opera data in prima mondiale alla Scala. In più, è davvero raro ascoltare questo brano in sala da concerto, poichè richiede tassativamente la presenza di un coro femminile (che fa solo vocalizzi peraltro): così è un merito de laVerdi (che un coro, e coi fiocchi, ce l’ha) averci fatto questo bel regalo. Per la cronaca Angius ha schierato le signore di Erina Gambarini proprio in mezzo all’orchestra, scelta appropriata data la natura degli interventi canori.
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Ha chiuso la serata un ennesimo bolerodisciarrinoravel, che il tamburino militare del solito Ivan Fossati (rimastosene stavolta in piccionaia fra i colleghi percussionisti, invece di accomodarsi davanti al Direttore, come fa di solito) ha scandito imperterrito, dalla prima all’ultima battuta. Anche questa è musica discutibile e persino offensiva nella sua struttura, eppure - chissà mai perchè? - la si ascolta sempre con gran trasporto e alla fine la sala addirittura trema sotto lo scrosciare degli applausi.   


Ma ora vedo profilarsi minacciosa all’orizzonte un’affilatissima ghigliottina...

20 febbraio, 2017

La Katia di Carsen al Regio torinese


Ieri pomeriggio terza delle cinque recite, al Regio di Torino, di Katia Kabanova, l’opera di Leoš Janáček (Kát'a Kabanová, in grafia originale) messa in scena nel 2004 da Robert Carsen in terra fiamminga e poi portata in giro per il mondo (Scala compresa, con annesso premio Abbiati, nel 2006). É la seconda tappa di un trittico Janáček-Carsen che il Regio ha coraggiosamente messo in cantiere, aperto la scorsa stagione dalla Piccola Volpe.
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Nel breve volgere di 13 anni, fra il 1921 e il 1934, due Caterine (Kabanova e Izmajlova) hanno fatto la loro comparsa sulle scene dei teatri d’opera: entrambe all’est, anzi entrambe figlie della grande madre Russia, la prima messa in musica dal moravo Janáček, la seconda dal sovietico Shostakovich. Fra le due esistono alcuni evidenti punti di contatto, accanto a profonde differenze di fondo. Entrambe le storie sono ambientate nella Russia borghese-rurale di metà ‘800, in una civiltà piuttosto invivibile per donne non disposte a sostenere il ruolo di appendici passive della rigida struttura di una società retta da bigottismo e maschilismo (compreso quello praticato da rappresentanti del gentil sesso). Ed infatti le nostre due Caterine, arrivate all’età adulta dopo fanciullezze spensierate, in quella società faticano a trovare occasioni di felicità, al contrario: le scene delle partenze dei due mariti per viaggi d’affari, con relative umiliazioni psico-fisiche delle due mogli, ne sono esempi eclatanti. E così entrambe si ribellano allo status-quo, rivoltandosi contro suoceri-padroni e suocere-padrone per cercare di vivere almeno per qualche momento da esseri umani, dotati di sentimenti e di un minimo di libertà. Alla fine entrambe però soccombono e finiscono i loro giorni con due... tuffi nelle acque della grande madre Volga, e pure negli stessi paraggi: Kalinov (dove annega Katia) è una cittadina (immaginaria, invenzione di Ostrovski) sul Volga ad est di Mosca; la Lady invece si butta nel fiume, lungo il viaggio di deportazione verso la Siberia, presso Kazan (guarda caso la meta del viaggio d’affari del marito di Katia...)


Ecco, le similitudini fra la Katia e la Lady finiscono però qui. Poichè le due donne hanno viceversa personalità così diverse da trovarsi quasi agli antipodi: tanto fredda, cinica, spavalda e impenitente è la Lady, quanto sensibile, fragile, complessata e instabile è Katia. Ed anche i suicidi delle due saranno provocati da circostanze e ragioni lontanissime fra loro: l’odio (che ha preso il posto dell’amore) per l’uomo traditore e per la donna che glielo ha strappato (Lady) e l’insostenibile senso di colpa per il suo peccato, che le impedisce persino di immaginare una disperata fuga con l’uomo che di tale peccato era stato l’agente (Katia).  
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Sappiamo che una delle prerogative peculiari della musica vocale di Janáček consiste nella sua programmatica ed indissolubile aderenza agli stilemi della parlata céca; non c’è una sola frase vocale che non sia modellata sui fonemi del testo sottostante. Se ciò non costituisce, per noi ignoranti di céco, un limite insuperabile al pieno apprezzamento di questa musica, è solo perchè il compositore accompagna (quasi) sempre la linea di canto (che ci può apparire estranea, incomprensibile proprio come l’idioma in cui è scritto il testo) con mirabili linee melodiche affidate all’orchestra. Si può dire perciò che i cantanti... declamano e l’orchestra... canta! Ovviamente troviamo anche bei momenti di grande lirismo, su tutti la mirabile scena d’amore dell’atto secondo e poi i monologhi di Katia (ricordi di gioventù e prologo al suicidio).

Quanto alla caratterizzazione dei personaggi, essa assegna ai cattivi (la terribile suocera Kabanicha e Dikoj, lo spregevole zio di Boris) linee di canto aspre, a volte repellenti (frequente qui l’impiego di scale e accordi ottatonici) riservando soprattutto alla Natura, a Katia e allo sfigato Boris (suo amante pro-tempore) quelle più nobili e romantiche. Musica più tradizionalmente popolare emerge invece dalle personalità più ingenue e naif dei due personaggi di contorno: Kudrjás, giovane istruito ed emancipato, e Varvara, la sua ragazza (sorellastra del marito di Katia) che essendo ancora nubile (oltre che furbetta) gode di qualche brandello di libertà che a Katia è negata per definizione. Nell’anonimato più completo il personaggio di Tichon, marito imbelle di Katia.

Tutto ciò è stato affidato alla bacchetta di Marco Angius. A giudicare da un suo lungo e dotto scritto pubblicato sul programma di sala si deve immaginare che il Direttore deve aver letteralmente vivisezionato la partitura, guidando così la solida compagine del Regio ad evidenziarne ogni sfumatura e ogni particolare.

Il coro di Claudio Fenoglio è qui impegnato a scartamento ridotto, nel solo terz’atto, ma ha fatto onestamente la sua parte.

Protagonista assoluta (Katia) è Andrea Danková, quasi perfetta su lato attoriale (grazie anche a Carsen) ed assai convincente su quello vocale, sia nei lunghi monologhi carichi di lirismo e cantabilità, come negli squarci di ansia, dolore, senso di colpa e auto-accusa. Voce ottimamente impostata in ogni registro, acuti saldi e puliti hanno caratterizzato la sua eccellente prestazione.  

Il Boris di Misha Didyk mi è abbastanza piaciuto: tenore di taglia quasi eroica, ha ghermito però con difficoltà il DO acuto del duetto d’amore. Ma è una pecca perdonabile in un’interpretazione complessivamente positiva.

Altrettanto lo è stata Rebecca de Pont Davies nella parte della sbifida Kabanicha: una parte di autoritaria bisbetica con una tessitura impegnativa, dal SI sotto il rigo al LA acuto e con frasi oggettivamente difficili da intonare al meglio. Ma lei se l’è cavata assai bene.

Il rozzo e depravato Dikoj è portato in scena con appropriatezza di... sgarbo da Oliver Zwarg: come già accade alla Kabanicha, anche a lui il compositore riserva una parte assai ostica, ostacolo mi pare superato con gran profitto.

Varvara è degnamente interpretata da Lena Belkina: voce corposa, forse un poco da affinare negli acuti, talvolta stimbrati.

Kudrjáš, il giovane istruito e poeta è un efficace Enrico Casari: voce dal timbro lirico, quindi ben adatto alla parte, ottimo nelle filastrocche del second’atto.

Senza infamia e senza lode il Tichon di Štefan Margita: come detto, la sua personalità da invertebrato lo accredita di una parte poco appariscente e anonima.

Onorevole la prestazione degli altri comprimari: per tutti segnalo il Kuligin di Lukáš Zeman.
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Carsen dà del soggetto un’interpretazione à-la-Wieland: scene (di Patrick Kinmonth) assolutamente minimaliste, dove domina lo specchio d’acqua (il Volga, vero protagonista non cantante ma... suonante dell’opera) sul quale semplici passerelle (Christo a Iseo ante-litteram!) ospitano i movimenti dei protagonisti e pochissimi elementi materiali. Una scelta di grande impatto emozionale.

Questo sfondo, atemporale, accoglie il dramma collettivo ed individuale che si dipana sotto i nostri occhi, accompagnato dalla mirabile musica di Janáček: e Carsen è uno che sa come rappresentare la personalità dei vari protagonisti, in testa ovviamente la Katia, che esteriorizza con grande efficacia ogni più recondito pulsare del suo animo straziato fra il desiderio di amore e libertà e il tremendo e insostenibile senso di colpa che la porta alla rovina. Apprezzabili i costumi (pure di Kinmonth) e l’impiego delle luci e dello schermo su cui viene talvolta proiettata la vista dall’alto dello specchio d’acqua.

Se si può fare una pulce a Carsen è l’eccessiva idealizzazione del soggetto, che non fa emergere con sufficiente (selon moi) immediatezza la brutalità dell’ambiente umano (la Kabanicha e Dikoj, dei quali peraltro viene fin troppo esplicitamente messa in mostra la volgare tresca) che circonda la povera Katia: il tutto sembra, appunto, sospeso e galleggiante in un mondo fin troppo stilizzato e quasi idealizzato. Culminante nella scena-madre dell’addio fra Katia e Boris che, in luogo del lunghissimo e convenzionale abbraccio fra i due, viene rappresentata con una trovata di straordinaria poesia, il bacio che lei affida all’acqua del Volga per essere trasmesso da liquide onde sulla sponda opposta dove viene ricevuto dal lontanissimo Boris. Ma sono libertà a fini vuoi veristici e vuoi poetici che si potranno pure perdonare.

Invenzione del regista, che nulla disturba, è anche la comparsa e presenza in palcoscenico di una ventina e più di danzatrici, con compiti di... addette alle scene (spostano le piattaforme sull’acqua per creare le basi per le diverse ambientazioni) ma anche evocanti passate (e perchè no, future?) Katie finite a mollo come la protagonista dell’opera. 

Franco successo per tutti in un teatro piacevolmente gremito. 
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P.S. Consiglio a chiunque si prepari ad assistere ad una delle due restanti repliche di dedicare (e sarà spesa benissimo) un’oretta del suo tempo per ascoltare questa impeccabile presentazione di Franco Pulcini.