Ieri pomeriggio terza delle cinque recite, al Regio
di Torino, di Katia Kabanova, l’opera di Leoš
Janáček (Kát'a Kabanová, in
grafia originale) messa in scena nel 2004 da Robert Carsen in terra fiamminga e poi portata in giro per il mondo
(Scala compresa, con annesso premio Abbiati, nel 2006). É la seconda tappa di un trittico
Janáček-Carsen che il Regio
ha coraggiosamente messo in cantiere, aperto la scorsa stagione dalla Piccola Volpe.
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Nel breve volgere di 13
anni, fra il 1921 e il 1934, due Caterine (Kabanova e Izmajlova) hanno fatto la
loro comparsa sulle scene dei teatri d’opera: entrambe all’est, anzi entrambe figlie
della grande madre Russia, la prima messa in musica dal moravo Janáček, la
seconda dal sovietico Shostakovich. Fra le due esistono alcuni evidenti punti
di contatto, accanto a profonde differenze di fondo. Entrambe le storie sono
ambientate nella Russia borghese-rurale di metà ‘800, in una civiltà piuttosto
invivibile per donne non disposte a sostenere il ruolo di appendici passive
della rigida struttura di una società retta da bigottismo e maschilismo (compreso quello praticato
da rappresentanti del gentil sesso). Ed
infatti le nostre due Caterine, arrivate all’età adulta dopo fanciullezze
spensierate, in quella società faticano a trovare occasioni di felicità, al
contrario: le scene delle partenze dei due mariti per viaggi d’affari, con
relative umiliazioni psico-fisiche delle due mogli, ne sono esempi eclatanti. E
così entrambe si ribellano allo status-quo, rivoltandosi contro suoceri-padroni
e suocere-padrone per cercare di vivere almeno per qualche momento da esseri
umani, dotati di sentimenti e di un minimo di libertà. Alla fine entrambe però soccombono
e finiscono i loro giorni con due... tuffi nelle acque della grande madre Volga, e pure negli stessi paraggi:
Kalinov (dove annega Katia) è una
cittadina (immaginaria, invenzione di Ostrovski) sul Volga ad est di Mosca; la Lady invece si butta nel
fiume, lungo il viaggio di deportazione verso la Siberia, presso Kazan (guarda caso la meta del viaggio d’affari
del marito di Katia...)
Ecco, le
similitudini fra la Katia e la Lady finiscono però qui. Poichè le due
donne hanno viceversa personalità così diverse da trovarsi quasi agli antipodi:
tanto fredda, cinica, spavalda e impenitente è la Lady, quanto sensibile, fragile,
complessata e instabile è Katia. Ed anche i suicidi delle due saranno provocati
da circostanze e ragioni lontanissime fra loro: l’odio (che ha preso il posto
dell’amore) per l’uomo traditore e per la donna che glielo ha strappato (Lady)
e l’insostenibile senso di colpa per il suo peccato, che le impedisce persino
di immaginare una disperata fuga con l’uomo che di tale peccato era stato l’agente
(Katia).
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Sappiamo che una delle
prerogative peculiari della musica vocale di Janáček consiste nella sua
programmatica ed indissolubile aderenza agli stilemi della parlata céca; non
c’è una sola frase vocale che non sia modellata sui fonemi del testo
sottostante. Se ciò non costituisce, per noi ignoranti di céco, un limite insuperabile
al pieno apprezzamento di questa musica, è solo perchè il compositore accompagna
(quasi) sempre la linea di canto (che ci può apparire estranea, incomprensibile
proprio come l’idioma in cui è scritto il testo) con mirabili linee melodiche
affidate all’orchestra. Si può dire perciò che i cantanti... declamano e
l’orchestra... canta! Ovviamente
troviamo anche bei momenti di grande lirismo, su tutti la mirabile scena d’amore
dell’atto secondo e poi i monologhi di Katia (ricordi
di gioventù e prologo al suicidio).
Quanto
alla caratterizzazione dei personaggi, essa assegna ai cattivi (la terribile suocera Kabanicha
e Dikoj, lo spregevole zio di Boris) linee di canto aspre, a volte
repellenti (frequente qui l’impiego di scale e accordi ottatonici) riservando
soprattutto alla Natura, a Katia e allo sfigato Boris (suo amante pro-tempore) quelle più nobili e romantiche. Musica
più tradizionalmente popolare emerge invece dalle personalità più ingenue e
naif dei due personaggi di contorno: Kudrjás, giovane istruito ed
emancipato, e Varvara, la sua ragazza
(sorellastra del marito di Katia) che essendo ancora nubile (oltre che furbetta)
gode di qualche brandello di libertà che a Katia è negata per definizione. Nell’anonimato
più completo il personaggio di Tichon, marito imbelle di Katia.
Tutto ciò è
stato affidato alla bacchetta di Marco
Angius. A giudicare da un suo lungo e dotto scritto pubblicato sul
programma di sala si deve immaginare che il Direttore deve aver letteralmente
vivisezionato la partitura, guidando così la solida compagine del Regio ad
evidenziarne ogni sfumatura e ogni particolare.
Il coro di Claudio Fenoglio è qui impegnato a
scartamento ridotto, nel solo terz’atto, ma ha fatto onestamente la sua parte.
Protagonista
assoluta (Katia) è Andrea Danková,
quasi perfetta su lato attoriale (grazie anche a Carsen) ed assai convincente
su quello vocale, sia nei lunghi monologhi carichi di lirismo e cantabilità,
come negli squarci di ansia, dolore, senso di colpa e auto-accusa. Voce
ottimamente impostata in ogni registro, acuti saldi e puliti hanno
caratterizzato la sua eccellente prestazione.
Il Boris di Misha Didyk mi è abbastanza piaciuto: tenore
di taglia quasi eroica, ha ghermito
però con difficoltà il DO acuto del duetto d’amore. Ma è una pecca perdonabile
in un’interpretazione complessivamente positiva.
Altrettanto lo
è stata Rebecca de Pont Davies nella parte
della sbifida Kabanicha: una parte di autoritaria bisbetica con una tessitura
impegnativa, dal SI sotto il rigo al LA acuto e con frasi oggettivamente difficili
da intonare al meglio. Ma lei se l’è cavata assai bene.
Il rozzo e
depravato Dikoj è portato in scena con appropriatezza di... sgarbo da Oliver Zwarg: come già accade alla
Kabanicha, anche a lui il compositore riserva una parte assai ostica, ostacolo mi
pare superato con gran profitto.
Varvara è degnamente
interpretata da Lena Belkina: voce
corposa, forse un poco da affinare negli acuti, talvolta stimbrati.
Kudrjáš, il giovane istruito e poeta è un efficace Enrico Casari: voce dal
timbro lirico, quindi ben adatto alla parte, ottimo nelle filastrocche del
second’atto.
Senza infamia
e senza lode il Tichon di Štefan Margita:
come detto, la sua personalità da invertebrato lo accredita di una parte poco
appariscente e anonima.
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Carsen dà del soggetto un’interpretazione à-la-Wieland: scene (di Patrick Kinmonth) assolutamente
minimaliste, dove domina lo specchio d’acqua (il Volga, vero protagonista non
cantante ma... suonante dell’opera) sul quale semplici passerelle (Christo a Iseo ante-litteram!) ospitano
i movimenti dei protagonisti e pochissimi elementi materiali. Una scelta di grande impatto emozionale.
Questo sfondo, atemporale, accoglie il dramma
collettivo ed individuale che si dipana sotto i nostri occhi, accompagnato
dalla mirabile musica di Janáček: e Carsen è uno che sa come rappresentare
la personalità dei vari protagonisti, in testa ovviamente la Katia, che
esteriorizza con grande efficacia ogni più recondito pulsare del suo animo
straziato fra il desiderio di amore e libertà e il tremendo e insostenibile
senso di colpa che la porta alla rovina. Apprezzabili i costumi (pure di Kinmonth) e l’impiego delle luci e dello schermo su cui
viene talvolta proiettata la vista dall’alto dello specchio d’acqua.
Se si può fare una pulce a Carsen è l’eccessiva
idealizzazione del soggetto, che non fa emergere con sufficiente (selon moi) immediatezza la brutalità
dell’ambiente umano (la Kabanicha e Dikoj, dei quali peraltro viene fin troppo esplicitamente
messa in mostra la volgare tresca) che circonda la povera Katia: il tutto
sembra, appunto, sospeso e galleggiante in un mondo fin troppo stilizzato e quasi idealizzato. Culminante
nella scena-madre dell’addio fra Katia e Boris che, in luogo del lunghissimo e convenzionale abbraccio fra i due, viene rappresentata con una trovata di straordinaria
poesia, il bacio che lei affida all’acqua del Volga per essere trasmesso da
liquide onde sulla sponda opposta dove viene ricevuto dal lontanissimo Boris.
Ma sono libertà a fini vuoi veristici e vuoi poetici che si potranno pure
perdonare.
Invenzione del regista, che nulla disturba, è anche
la comparsa e presenza in palcoscenico di una ventina e più di danzatrici, con
compiti di... addette alle scene (spostano le piattaforme sull’acqua per creare
le basi per le diverse ambientazioni) ma anche evocanti passate (e perchè no,
future?) Katie finite a mollo come la protagonista dell’opera.
Franco successo per tutti in un teatro piacevolmente
gremito.
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P.S. Consiglio a
chiunque si prepari ad assistere ad una delle due restanti repliche di dedicare
(e sarà spesa benissimo) un’oretta del suo tempo per ascoltare questa
impeccabile presentazione di Franco Pulcini.
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