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20 febbraio, 2017

La Katia di Carsen al Regio torinese


Ieri pomeriggio terza delle cinque recite, al Regio di Torino, di Katia Kabanova, l’opera di Leoš Janáček (Kát'a Kabanová, in grafia originale) messa in scena nel 2004 da Robert Carsen in terra fiamminga e poi portata in giro per il mondo (Scala compresa, con annesso premio Abbiati, nel 2006). É la seconda tappa di un trittico Janáček-Carsen che il Regio ha coraggiosamente messo in cantiere, aperto la scorsa stagione dalla Piccola Volpe.
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Nel breve volgere di 13 anni, fra il 1921 e il 1934, due Caterine (Kabanova e Izmajlova) hanno fatto la loro comparsa sulle scene dei teatri d’opera: entrambe all’est, anzi entrambe figlie della grande madre Russia, la prima messa in musica dal moravo Janáček, la seconda dal sovietico Shostakovich. Fra le due esistono alcuni evidenti punti di contatto, accanto a profonde differenze di fondo. Entrambe le storie sono ambientate nella Russia borghese-rurale di metà ‘800, in una civiltà piuttosto invivibile per donne non disposte a sostenere il ruolo di appendici passive della rigida struttura di una società retta da bigottismo e maschilismo (compreso quello praticato da rappresentanti del gentil sesso). Ed infatti le nostre due Caterine, arrivate all’età adulta dopo fanciullezze spensierate, in quella società faticano a trovare occasioni di felicità, al contrario: le scene delle partenze dei due mariti per viaggi d’affari, con relative umiliazioni psico-fisiche delle due mogli, ne sono esempi eclatanti. E così entrambe si ribellano allo status-quo, rivoltandosi contro suoceri-padroni e suocere-padrone per cercare di vivere almeno per qualche momento da esseri umani, dotati di sentimenti e di un minimo di libertà. Alla fine entrambe però soccombono e finiscono i loro giorni con due... tuffi nelle acque della grande madre Volga, e pure negli stessi paraggi: Kalinov (dove annega Katia) è una cittadina (immaginaria, invenzione di Ostrovski) sul Volga ad est di Mosca; la Lady invece si butta nel fiume, lungo il viaggio di deportazione verso la Siberia, presso Kazan (guarda caso la meta del viaggio d’affari del marito di Katia...)


Ecco, le similitudini fra la Katia e la Lady finiscono però qui. Poichè le due donne hanno viceversa personalità così diverse da trovarsi quasi agli antipodi: tanto fredda, cinica, spavalda e impenitente è la Lady, quanto sensibile, fragile, complessata e instabile è Katia. Ed anche i suicidi delle due saranno provocati da circostanze e ragioni lontanissime fra loro: l’odio (che ha preso il posto dell’amore) per l’uomo traditore e per la donna che glielo ha strappato (Lady) e l’insostenibile senso di colpa per il suo peccato, che le impedisce persino di immaginare una disperata fuga con l’uomo che di tale peccato era stato l’agente (Katia).  
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Sappiamo che una delle prerogative peculiari della musica vocale di Janáček consiste nella sua programmatica ed indissolubile aderenza agli stilemi della parlata céca; non c’è una sola frase vocale che non sia modellata sui fonemi del testo sottostante. Se ciò non costituisce, per noi ignoranti di céco, un limite insuperabile al pieno apprezzamento di questa musica, è solo perchè il compositore accompagna (quasi) sempre la linea di canto (che ci può apparire estranea, incomprensibile proprio come l’idioma in cui è scritto il testo) con mirabili linee melodiche affidate all’orchestra. Si può dire perciò che i cantanti... declamano e l’orchestra... canta! Ovviamente troviamo anche bei momenti di grande lirismo, su tutti la mirabile scena d’amore dell’atto secondo e poi i monologhi di Katia (ricordi di gioventù e prologo al suicidio).

Quanto alla caratterizzazione dei personaggi, essa assegna ai cattivi (la terribile suocera Kabanicha e Dikoj, lo spregevole zio di Boris) linee di canto aspre, a volte repellenti (frequente qui l’impiego di scale e accordi ottatonici) riservando soprattutto alla Natura, a Katia e allo sfigato Boris (suo amante pro-tempore) quelle più nobili e romantiche. Musica più tradizionalmente popolare emerge invece dalle personalità più ingenue e naif dei due personaggi di contorno: Kudrjás, giovane istruito ed emancipato, e Varvara, la sua ragazza (sorellastra del marito di Katia) che essendo ancora nubile (oltre che furbetta) gode di qualche brandello di libertà che a Katia è negata per definizione. Nell’anonimato più completo il personaggio di Tichon, marito imbelle di Katia.

Tutto ciò è stato affidato alla bacchetta di Marco Angius. A giudicare da un suo lungo e dotto scritto pubblicato sul programma di sala si deve immaginare che il Direttore deve aver letteralmente vivisezionato la partitura, guidando così la solida compagine del Regio ad evidenziarne ogni sfumatura e ogni particolare.

Il coro di Claudio Fenoglio è qui impegnato a scartamento ridotto, nel solo terz’atto, ma ha fatto onestamente la sua parte.

Protagonista assoluta (Katia) è Andrea Danková, quasi perfetta su lato attoriale (grazie anche a Carsen) ed assai convincente su quello vocale, sia nei lunghi monologhi carichi di lirismo e cantabilità, come negli squarci di ansia, dolore, senso di colpa e auto-accusa. Voce ottimamente impostata in ogni registro, acuti saldi e puliti hanno caratterizzato la sua eccellente prestazione.  

Il Boris di Misha Didyk mi è abbastanza piaciuto: tenore di taglia quasi eroica, ha ghermito però con difficoltà il DO acuto del duetto d’amore. Ma è una pecca perdonabile in un’interpretazione complessivamente positiva.

Altrettanto lo è stata Rebecca de Pont Davies nella parte della sbifida Kabanicha: una parte di autoritaria bisbetica con una tessitura impegnativa, dal SI sotto il rigo al LA acuto e con frasi oggettivamente difficili da intonare al meglio. Ma lei se l’è cavata assai bene.

Il rozzo e depravato Dikoj è portato in scena con appropriatezza di... sgarbo da Oliver Zwarg: come già accade alla Kabanicha, anche a lui il compositore riserva una parte assai ostica, ostacolo mi pare superato con gran profitto.

Varvara è degnamente interpretata da Lena Belkina: voce corposa, forse un poco da affinare negli acuti, talvolta stimbrati.

Kudrjáš, il giovane istruito e poeta è un efficace Enrico Casari: voce dal timbro lirico, quindi ben adatto alla parte, ottimo nelle filastrocche del second’atto.

Senza infamia e senza lode il Tichon di Štefan Margita: come detto, la sua personalità da invertebrato lo accredita di una parte poco appariscente e anonima.

Onorevole la prestazione degli altri comprimari: per tutti segnalo il Kuligin di Lukáš Zeman.
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Carsen dà del soggetto un’interpretazione à-la-Wieland: scene (di Patrick Kinmonth) assolutamente minimaliste, dove domina lo specchio d’acqua (il Volga, vero protagonista non cantante ma... suonante dell’opera) sul quale semplici passerelle (Christo a Iseo ante-litteram!) ospitano i movimenti dei protagonisti e pochissimi elementi materiali. Una scelta di grande impatto emozionale.

Questo sfondo, atemporale, accoglie il dramma collettivo ed individuale che si dipana sotto i nostri occhi, accompagnato dalla mirabile musica di Janáček: e Carsen è uno che sa come rappresentare la personalità dei vari protagonisti, in testa ovviamente la Katia, che esteriorizza con grande efficacia ogni più recondito pulsare del suo animo straziato fra il desiderio di amore e libertà e il tremendo e insostenibile senso di colpa che la porta alla rovina. Apprezzabili i costumi (pure di Kinmonth) e l’impiego delle luci e dello schermo su cui viene talvolta proiettata la vista dall’alto dello specchio d’acqua.

Se si può fare una pulce a Carsen è l’eccessiva idealizzazione del soggetto, che non fa emergere con sufficiente (selon moi) immediatezza la brutalità dell’ambiente umano (la Kabanicha e Dikoj, dei quali peraltro viene fin troppo esplicitamente messa in mostra la volgare tresca) che circonda la povera Katia: il tutto sembra, appunto, sospeso e galleggiante in un mondo fin troppo stilizzato e quasi idealizzato. Culminante nella scena-madre dell’addio fra Katia e Boris che, in luogo del lunghissimo e convenzionale abbraccio fra i due, viene rappresentata con una trovata di straordinaria poesia, il bacio che lei affida all’acqua del Volga per essere trasmesso da liquide onde sulla sponda opposta dove viene ricevuto dal lontanissimo Boris. Ma sono libertà a fini vuoi veristici e vuoi poetici che si potranno pure perdonare.

Invenzione del regista, che nulla disturba, è anche la comparsa e presenza in palcoscenico di una ventina e più di danzatrici, con compiti di... addette alle scene (spostano le piattaforme sull’acqua per creare le basi per le diverse ambientazioni) ma anche evocanti passate (e perchè no, future?) Katie finite a mollo come la protagonista dell’opera. 

Franco successo per tutti in un teatro piacevolmente gremito. 
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P.S. Consiglio a chiunque si prepari ad assistere ad una delle due restanti repliche di dedicare (e sarà spesa benissimo) un’oretta del suo tempo per ascoltare questa impeccabile presentazione di Franco Pulcini. 

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