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06 febbraio, 2017

Alla Scala sbarca il Falstaff triste di Michieletto

 

Altro esempio di acquisto in casa propria (Salzburg 2013) del soprintendente Pereira (oggi però i conflitti di interesse che tengono banco sono quelli di tale Raggi...) ecco arrivare in Scala, ieri sera alla seconda recita, il Falstaff di Damiano Michieletto, che segue la precedente e fortunata produzione di Carsen (2013 con Harding e 2015 con Gatti).

Comincio dalla musica che – sono certo Boito non me ne vorrà – è di gran lunga l’ingrediente principale dell’opera, per il suo carattere letteralmente rivoluzionario, che ne fa un unicum nella storia del teatro musicale. E che richiede, anzi pretende, la presenza di un concertatore coi fiocchi per essere resa al meglio. E qui siamo davvero in buone mani chè, dopo un giovane e un... diversamente giovane (entrambi all’altezza) arriva sul podio un arzillo nonnetto che va per gli 81 ma pare se la passi ancora alla grande, proprio come il Verdi che – a quell’età o giù di lì – componeva questo incredibile gioiello! Se si escludono un paio di circostanze in cui il Direttore ha sciolto un po’ troppo le briglie, con decibel eccessivi, mi pare di poter dire che la resa complessiva sia stata del tutto positiva, avendo messo in luce ogni minimo dettaglio di una partitura che è – appunto – una miniera d’oro e diamanti, che ad ogni ascolto non finisce di stupire. L’orchestra, giustamente ridimensionata nell’organico, soprattutto negli archi, per garantire quella purezza di suono che è la cifra principale dell’orchestrazione verdiana, ha risposto assai bene e si merita un incondizionato applauso.

Cast di sapore scaligero, se ben 5 dei 10 interpreti vengono dalla citata produzione carseniana: torna infatti, dopo aver saltato il turno precedente (ci fu Alaimo) il protagonista, Ambrogio Maestri, ormai avviato a diventare sir Ambrose Falstaff, viste le centinaia e centinaia di calate nei panni (per lui sempre più stretti!) del vecchio John. Passano gli anni, ma lui, proprio come il personaggio, sembra non accorgersene: forse l’assuefazione lo porta casomai a gigioneggiare più del necessario, con parlati che talvolta si sostituiscono al declamato, ma in complesso la sua è una prestazione degna della sua fama.

Con lui tornano dal 2013 anche Carmen Giannattasio, Francesco Demuro, Carlo Bosi e Massimo Cavalletti, questi tre ultimi ormai ospiti fissi dei Falstaff scaligeri, avendo cantato anche nel 2015. La prima mi pare aver acquisito maturità e miglior controllo dell’emissione, soprattutto negli acuti, in passato piuttosto urlati. Bosi sembra inossidabile e il suo Cajus continua a convincere. Anche Cavalletti, dopo tanta esperienza nel ruolo, dà di Ford un’interpretazione più che accettabile, superando si slancio anche le salite impervie che la parte gli impone. Demuro si merita ampia sufficienza, come in passato, ma mi pare non faccia ancora quel salto di qualità che sarebbe auspicabile.

Per il resto, dignitose le prestazioni del... Pistola (Gabriele Sagona) e di Francesco Castoro (Bardolfo) che illustra i meriti dell’Accademia scaligera dalla quale proviene.

Yvonne Naef è una intrigante (in tutti i sensi) Quickly, e mette in mostra la sua voce ben tornita e sempre ben controllata. Non così Annalisa Stroppa (Meg) che tende ad urlacchiare o a... non farsi udire. Infine, Giulia Semenzato impersona con discreto profitto una Nannetta disinvolta e sbarazzina.

Il Coro di Casoni non manca a sua volta di distinguersi, chiamato nelle due circostanze in cui interviene, a contrappunti davvero... bestiali, ma resi al meglio.

In conclusione, una piacevole performance, che conferma la qualità dei complessi scaligeri, che paiono tirar fuori il meglio di sè proprio in occasione di appuntamenti difficili come questo.
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Della regia di Michieletto si conosceva ormai tutto, e non solo riguardo i contenuti della messinscena, ma anche riguardo i giudizi di pubblico e critica: il bello e il brutto insieme di queste co-produzioni, o riciclaggi che dir si voglia, in tempi di web, blog, youtube, dvd, streaming e diavolerie assortite, è che si va a teatro già prevenuti, in un senso o nell’altro, e viene così a mancare l’effetto-novità o sorpresa.

Liquido con rito abbreviato (direbbe un leguleio) la scelta del regista di rappresentare le vicende dell’opera come un sogno del protagonista: idea in sè vecchia come il cucco, ma che non per questo è da biasimare a-priori. In fin dei conti il Falstaff sveglio (quello originale di Boito-Verdi) è un inguaribile sognatore ad occhi aperti, quindi fin qui tutto ok. Però, attenzione, il sogno dovrebbe mostrare il contenuto del soggetto, non ciò che si sogna... il regista!

Sono invece personalmente assai scettico sulla pertinenza dell’accostamento, tutto extramusicale, quindi per definizione sospetto - in quanto prescinde dall’unica fonte attendibile, testo-partitura - fra la composizione dell’opera e le vicende legate alla costruzione di Casa-Verdi, dal quale accostamento il regista ha preso spunto per porre al centro del suo Konzept una riflessione sui temi della malinconia, della vecchiaia e della morte (parole sue, riportate anche sul programma di sala): temi che effettivamente emergono in modo chiaro dal suo allestimento, ambientato appunto nella milanese casa di ricovero per artisti, dove vediamo circolare spesso e volentieri anziani e malati. (Detto di passaggio, Georges Wilson mise in scena un Falstaff triste già nel 1982 a Parigi, quindi anche qui siamo al riscaldamento di vecchie minestre... al quale peraltro si applica lo stesso ragionamento fatto sopra per il sogno.)

Ora, cosa Verdi avesse in testa nessuno può saperlo, ma ciò che è inconfutabile è che nel testo di Boito e nella musica del Maestro (che, lo ripeto, dovrebbero essere i soli elementi su cui basare la messinscena) nulla si ritrova del Konzept di Michieletto (a parte forse un po’ di malinconia, che per definizione non può mai mancare in alcun soggetto, anche il più leggero). E sarà solo un caso se tutta l’opera – escluse fugacissime apparizioni del minore – è in modo maggiore? E se principia e termina nel solare DO maggiore?

Nel testo troviamo soltanto due accenni alla vecchiaia e alla morte: il primo (atto II) quando, incontrando Alice, Falstaff proclama che potrà morir contento, dopo un’ora d’amore con lei. Una specie di meglio un giorno da leone... francamente di nessuna particolare profondità (e infatti il regista ci passa sopra disinvoltamente). Il secondo (inizio atto III) quando il povero pancione, ancora inzuppato d’acqua, sembra rassegnato a farla finita con un mondo in declino. Qui Michieletto tira in ballo proprio Verdi in persona, quando Falstaff stacca dal muro un quadro con la famosa effigie del Maestro ottuagenario, e la cosa ci può anche stare ma, appunto, è un momento fugace di malinconia che subito il grassone impenitente supera con un bicchiere di vin brulè che lo fa tornare più arzillo, credulone e incosciente di prima!    

Per il resto, Falstaff pensa e si comporta come uno che crede (di certo non lo è, ma lo crede, o lo sogna) di essere ancora un gran dongiovanni (Io sono ancora una piacente estate di San Martino); che ancora ha in testa progetti per il futuro (Questo è il mio regno. Lo ingrandirò !) Si tratta appunto di sogni ad occhi aperti, che la realtà distrugge sistematicamente ed impietosamente (un po’ come succede anche al dapontiano DonGiovanni, in fatto di conquiste mancate...) ma che non sembrano portare Falstaff (così come il Don) a serie meditazioni per trarre insegnamenti dai casi della vita. E così, dopo la tragicomica esperienza nel cestone del bucato con bagno finale nel Tamigi, lui è prontissimo a dimenticare tutto, tanto da ringalluzzire subito di fronte alla prospettiva della nuova avventura notturna. E nemmeno l’umiliante sputtanamento sotto la quercia di Herne lo porterà a meditare su vecchiaia e morte, al contrario: quando le tre comari implorano Fallo pentito Domine! lui ribatte, in perfetta rima: Ma salvagli l’addomine! (puro humor boito-albionico, altro che meditazioni michielettiane sulla morte!) E che dire della sua reazione al beffardo Cavaliero di Quickly con un fantastico Reverenza!

Anzi, il vecchio John mostra d’esser il più giovane di tutti (gente dozzinale) quando si attribuisce il merito della loro arguzia. E alla fine lui si sentirà ancora talmente giovane da prenderla sul ridere, e chiudere l’opera aizzando tutti gli altri a quello strepitoso, ottimistico quanto irresponsabile Tutto nel mondo è burla! (un’esilarante e strepitosa parodia del wagneriano, seriosissimo e pedante Wahn, Wahn, überall Wahn di Sachs.)

Insomma, a me pare che Michieletto, per giustificare la sua impostazione di fondo, abbia surrettiziamente introdotto elementi estranei al soggetto del Falstaff, senza apportarvi particolare valore aggiunto, anzi privandolo (non del tutto, certo) della sua freschezza quasi innocente; in compenso, alcune trovate volte a caratterizzare l’aspetto onirico della sua concezione mi sono parse francamente eccessive, volgari e perniciose: le donne che prendono d’assalto Falstaff con moine di ogni tipo, le fate che restano in sottoveste, Nannetta che scopriamo ninfomane, il funerale con i protagonisti maschi trasformati in religiosi...

Invenzione già... inventata è anche la trovata di far comparire in scena personaggi che lì non dovrebbero stare, ma ai quali alludono o fanno riferimento i personaggi che in scena ci sono in forza del libretto: il presumibile intento didascalico che sottende questa idea viene solitamente annullato dalla confusione che si ingenera nello spettatore.  

Dopodichè: tanto di cappello alla professionalità e alla cura con cui lo spettacolo viene presentato, ma ahinoi si tratta di condizioni necessarie, ma mai da sole sufficienti a garantire l’eccellenza di un prodotto. 

Piermarini con parecchi vuoti in ogni settore (gallerie comprese) e pubblico che non ha mancato di manifestare apprezzamento per tutti, Maestri e... Maestro in primo luogo! 
       

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