Altro esempio di acquisto in casa propria (Salzburg 2013) del soprintendente Pereira
(oggi però i conflitti di interesse
che tengono banco sono quelli di tale Raggi...) ecco arrivare in Scala, ieri
sera alla seconda recita, il Falstaff di Damiano Michieletto, che segue la precedente
e fortunata produzione di Carsen
(2013 con Harding e 2015 con Gatti).
Comincio dalla musica che – sono certo Boito non me ne vorrà – è di gran lunga
l’ingrediente principale dell’opera, per il suo carattere letteralmente
rivoluzionario, che ne fa un unicum
nella storia del teatro musicale. E che richiede, anzi pretende, la presenza di
un concertatore coi fiocchi per essere resa al meglio. E qui siamo davvero in
buone mani chè, dopo un giovane e un... diversamente giovane (entrambi
all’altezza) arriva sul podio un arzillo nonnetto che va per gli 81 ma pare se
la passi ancora alla grande, proprio come il Verdi che – a quell’età o giù di
lì – componeva questo incredibile gioiello! Se si escludono un paio di
circostanze in cui il Direttore ha sciolto un po’ troppo le briglie, con decibel eccessivi, mi pare di poter dire
che la resa complessiva sia stata del tutto positiva, avendo messo in luce ogni
minimo dettaglio di una partitura che è – appunto – una miniera d’oro e
diamanti, che ad ogni ascolto non finisce di stupire. L’orchestra, giustamente
ridimensionata nell’organico, soprattutto negli archi, per garantire quella purezza
di suono che è la cifra principale dell’orchestrazione verdiana, ha risposto
assai bene e si merita un incondizionato applauso.
Cast di sapore scaligero, se ben 5 dei
10 interpreti vengono dalla citata produzione carseniana: torna infatti, dopo
aver saltato il turno precedente (ci fu Alaimo) il protagonista, Ambrogio Maestri, ormai avviato a
diventare sir Ambrose Falstaff, viste
le centinaia e centinaia di calate nei panni (per lui sempre più stretti!) del vecchio John. Passano gli anni, ma lui,
proprio come il personaggio, sembra non accorgersene: forse l’assuefazione lo
porta casomai a gigioneggiare più del necessario, con parlati che talvolta si sostituiscono al declamato, ma in complesso la sua è una prestazione degna della
sua fama.
Con lui tornano dal 2013 anche Carmen Giannattasio, Francesco Demuro, Carlo Bosi e Massimo
Cavalletti, questi tre ultimi ormai ospiti fissi dei Falstaff scaligeri,
avendo cantato anche nel 2015. La prima mi pare aver acquisito maturità e
miglior controllo dell’emissione, soprattutto negli acuti, in passato piuttosto
urlati. Bosi sembra inossidabile e il suo Cajus continua a convincere. Anche Cavalletti,
dopo tanta esperienza nel ruolo, dà di Ford un’interpretazione più che
accettabile, superando si slancio anche le salite impervie che la parte gli
impone. Demuro si merita ampia sufficienza, come in passato, ma mi pare non
faccia ancora quel salto di qualità che sarebbe auspicabile.
Per il resto, dignitose le prestazioni del...
Pistola (Gabriele Sagona) e di Francesco Castoro (Bardolfo) che
illustra i meriti dell’Accademia scaligera dalla quale proviene.
Yvonne
Naef
è una intrigante (in tutti i sensi) Quickly, e mette in mostra la sua voce ben
tornita e sempre ben controllata. Non così Annalisa
Stroppa (Meg) che tende ad urlacchiare o a... non farsi udire. Infine, Giulia Semenzato impersona con discreto
profitto una Nannetta disinvolta e sbarazzina.
Il Coro
di Casoni non manca a sua volta di distinguersi, chiamato nelle due
circostanze in cui interviene, a contrappunti davvero... bestiali, ma resi al
meglio.
In conclusione, una piacevole performance, che conferma la qualità dei
complessi scaligeri, che paiono tirar fuori il meglio di sè proprio in
occasione di appuntamenti difficili come questo.
___
Della regia di Michieletto si conosceva ormai tutto, e non solo riguardo i
contenuti della messinscena, ma anche riguardo i giudizi di pubblico e critica:
il bello e il brutto insieme di queste co-produzioni, o riciclaggi che dir si
voglia, in tempi di web, blog, youtube,
dvd, streaming e diavolerie assortite, è che si va a teatro già prevenuti,
in un senso o nell’altro, e viene così a mancare l’effetto-novità o sorpresa.
Liquido
con rito abbreviato (direbbe un leguleio) la scelta del regista di rappresentare
le vicende dell’opera come un sogno
del protagonista: idea in sè vecchia come il cucco, ma che non per questo è da
biasimare a-priori. In fin dei conti il Falstaff sveglio (quello originale di
Boito-Verdi) è un inguaribile sognatore ad occhi aperti, quindi fin qui tutto
ok. Però, attenzione, il sogno dovrebbe mostrare il contenuto del soggetto, non
ciò che si sogna... il regista!
Sono invece personalmente assai scettico
sulla pertinenza dell’accostamento, tutto extramusicale, quindi per definizione
sospetto - in quanto prescinde dall’unica fonte attendibile, testo-partitura -
fra la composizione dell’opera e le vicende legate alla costruzione di
Casa-Verdi, dal quale accostamento il regista ha preso spunto per porre al
centro del suo Konzept una
riflessione sui temi della malinconia,
della vecchiaia e della morte (parole sue, riportate anche sul
programma di sala): temi che effettivamente emergono in modo chiaro dal suo allestimento,
ambientato appunto nella milanese casa di ricovero per artisti, dove vediamo
circolare spesso e volentieri anziani e malati. (Detto di passaggio, Georges Wilson mise in scena un Falstaff
triste già nel 1982 a Parigi, quindi
anche qui siamo al riscaldamento di vecchie minestre... al quale peraltro si applica
lo stesso ragionamento fatto sopra per il sogno.)
Nel testo troviamo soltanto due accenni
alla vecchiaia e alla morte: il primo (atto II) quando, incontrando Alice,
Falstaff proclama che potrà morir contento, dopo un’ora d’amore con lei. Una
specie di meglio un giorno da leone...
francamente di nessuna particolare profondità (e infatti il regista ci passa
sopra disinvoltamente). Il secondo (inizio atto III) quando il povero pancione,
ancora inzuppato d’acqua, sembra rassegnato a farla finita con un mondo in
declino. Qui Michieletto tira in ballo proprio Verdi in persona, quando Falstaff
stacca dal muro un quadro con la famosa effigie del Maestro ottuagenario, e la
cosa ci può anche stare ma, appunto, è un momento fugace di malinconia che
subito il grassone impenitente supera con un bicchiere di vin brulè che lo fa tornare più arzillo, credulone e incosciente di
prima!
Per il
resto, Falstaff pensa e si comporta come uno che crede (di certo non lo è, ma
lo crede, o lo sogna) di essere
ancora un gran dongiovanni (Io sono ancora una piacente estate di San Martino);
che ancora ha in testa progetti per il futuro (Questo è il mio regno. Lo ingrandirò
!) Si tratta appunto di sogni
ad occhi aperti, che la realtà distrugge sistematicamente ed impietosamente (un
po’ come succede anche al dapontiano DonGiovanni, in fatto di conquiste
mancate...) ma che non sembrano portare Falstaff (così come il Don) a serie meditazioni
per trarre insegnamenti dai casi della vita. E così, dopo la tragicomica
esperienza nel cestone del bucato con bagno finale nel Tamigi, lui è
prontissimo a dimenticare tutto, tanto da ringalluzzire subito di fronte alla
prospettiva della nuova avventura notturna. E nemmeno l’umiliante sputtanamento
sotto la quercia di Herne lo porterà a meditare su vecchiaia e morte, al
contrario: quando le tre comari implorano Fallo pentito Domine! lui ribatte, in perfetta
rima: Ma
salvagli l’addomine! (puro humor
boito-albionico, altro che meditazioni michielettiane
sulla morte!) E che dire della sua reazione al beffardo Cavaliero di Quickly con un
fantastico Reverenza!
Anzi, il vecchio John mostra d’esser il più
giovane di tutti (gente dozzinale) quando si attribuisce il merito della loro
arguzia. E alla fine lui si sentirà ancora talmente giovane da prenderla sul
ridere, e chiudere l’opera aizzando tutti gli altri a quello strepitoso,
ottimistico quanto irresponsabile Tutto nel mondo è burla! (un’esilarante e
strepitosa parodia del wagneriano, seriosissimo e pedante Wahn, Wahn, überall Wahn di Sachs.)
Insomma, a me pare che Michieletto, per
giustificare la sua impostazione di fondo, abbia surrettiziamente introdotto
elementi estranei al soggetto del Falstaff, senza apportarvi particolare valore
aggiunto, anzi privandolo (non del tutto, certo) della sua freschezza quasi
innocente; in compenso, alcune trovate volte a caratterizzare l’aspetto onirico della sua concezione mi sono
parse francamente eccessive, volgari e perniciose: le donne che prendono d’assalto
Falstaff con moine di ogni tipo, le fate che restano in sottoveste, Nannetta
che scopriamo ninfomane, il funerale con i protagonisti maschi trasformati in religiosi...
Dopodichè: tanto di cappello alla
professionalità e alla cura con cui lo spettacolo viene presentato, ma ahinoi
si tratta di condizioni necessarie,
ma mai da sole sufficienti a garantire
l’eccellenza di un prodotto.
Piermarini con parecchi vuoti in ogni
settore (gallerie comprese) e pubblico che non ha mancato di manifestare apprezzamento
per tutti, Maestri e... Maestro in primo luogo!
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