XIV

da prevosto a leone
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24 giugno, 2012

Maschere a Torino


Quarta replica ieri al Regio del Ballo verdiano, in una ripresa dell’allestimento di qualche anno fa, con regìa dell’italo-yankee – Direttore artistico del Massimo palermitano - Lorenzo Mariani. Trasmessa – in prima – martedi da Radio3 e poi (anche in streaming, ohibò) giovedi da RAI5.

Che la torbida vicenda dell’attentato a Gustavo III di Svezia dovesse diventare oggetto di libretti per opere teatrali era quasi una predestinazione (smile!) dal momento che il luogo in cui il Re venne sparato alla schiena da un suo militare (Jacob Johan Anckarström) durante un ballo mascherato, il 16 marzo 1792 (morirà 13 giorni dopo) era precisamente il Teatro Reale dell’Opera che lo stesso Re, amante di letteratura e musica, aveva fatto costruire 10 anni prima:

Invece, che il movente dell’attentato fosse di natura sentimentale (le presunte corna che il Re avrebbe fatto al suo militare) pare frutto della fervida fantasia di un librettista come Scribe (autore del testo musicato da Auber un quarto di secolo prima di Verdi, e preso a modello da Antonio Somma e prima ancora da Cammarano per Il Reggente di Mercadante): sembra infatti che il Re (pur avendo avuto una moglie, destinatagli per ragioni dinastiche quando lui aveva… 5 anni) fosse un incallito omosessuale! Il che potrebbe gettare una certa luce sul personaggio – inventato pure quello – di Oscar…

Quanto al trasferimento dell’ambientazione e dei protagonisti (imposti, come noto, dalle solerti censure di Napoli prima e Roma poi) va riconosciuta a Somma (ma anche a Verdi che ci mise lo zampino) una notevole perspicacia, essendo lui riuscito a trovare uno scenario – pur di là dall’Atlantico, con annessa retrodatazione di un secolo e con personaggi non regali – sul quale far calzare quasi a pennello tutti gli aspetti realistici e financo storici della vicenda svedese.    

Ad esempio, la questione della sibilla Ulrica. La vera Ulrica Arfvidsson visse fino alla fine del ‘700 in un appartamento di Stoccolma, esercitandovi normalmente la professione di indovina, addirittura rispettata e tenuta in gran considerazione anche dai nobili e dallo stesso Gustavo III: fu Scribe a inventarsi – poco plausibilmente - la storia della sua condanna all’esilio, giusto per colorire un pochino le motivazioni del Re a farle visita. Invece Somma, nella sua forzata trasposizione, riuscì a fare di meglio: infatti proprio alla fine del ‘600, quando ancora il Massachusetts era colonia britannica, vi erano proliferate in modo assai vasto le pratiche di stregoneria, riguardo le quali ci sono rimasti documenti ufficiali di corposi processi, come i Salem Witch Trials; quindi il bando proposto per Ulrica nel libretto italiano è assai più realisticamente (e storicamente) plausibile, rispetto a Scribe. (In compenso Somma – che pure era un libero pensatore e irredentista - non perse l’occasione per buttare lì, en passant, un luogo comune razzista, mettendo in bocca al Giudice uno sprezzante: S'appella Ulrica, dell'immondo sangue dei negri).

Quanto al protagonista, che Somma trasforma dal Re di Svezia nel Conte di Warwich, governatore di Boston, l’unico indizio di una certa attinenza storica porta a tale Robert Rich, secondo Conte di Warwich, che si occupò a lungo di amministrazione di colonie, divenendo anche proprietario di immensi latifondi nell’est dell’America e azionista di diverse società commerciali (peraltro morì nel 1658, quindi assai prima della fine del secolo XVII in cui Somma colloca la vicenda). Invece un governatore di Boston di fine-600 che ebbe diversi problemi politici con i suoi militari (un po’ come il Riccardo di Somma) fu tale William Phips (che peraltro morì nel suo letto, in Inghilterra).

Comunque sia, va dato atto a Somma di aver messo in piedi, date le circostanze, uno scenario più che plausibile – e soprattutto coerente con le aspettative di Verdi - per il suo Ballo. Negli ultimi decenni – assenti censure borboniche o papaline – abbiamo assistito anche alla proposizione dell’idea originale, con ambientazione e personaggi svedesi, a cominciare dall’allestimento del Maggio nel 1963, ripreso alla Fenice nel 1999.

Ebbene, per giustificare la parcella, Lorenzo Mariani si inventa qualcosa di diverso ancora, per la verità non ben definito. «L’azione non si svolge nel Settecento americano come previsto dal libretto, ma è ambientata tra gli anni Venti e Trenta del ‘900: come se il governatore Riccardo fosse il viceré dell’India o di un’altra colonia». Questo leggiamo sul comunicato-stampa del teatro.

Ora, a parte che il Settecento americano non sta né nel libretto di Somma (dove è un Seicento) né in quello di Scribe (dove è svedese) l’ambientazione di Mariani non sembra nemmeno di 80-90 anni fa, come lui sostiene, ma genericamente collocata in tempi moderni e in luoghi indecifrabili o del tutto immaginari, e con personaggi ancora meno storicamente caratterizzati. Il che può anche fare poco danno, stante il contenuto del dramma, decisamente orientato alla sfera dei sentimenti privati assai più che a quella delle pubbliche istituzioni. (Però bisognerà pur ricordare ai registi quanto Verdi ci tenesse ad avere un soggetto con solide basi storiche, che conferissero al plot, e quindi alla musica che lui ci componeva sopra, un’aureola di importanza e un pedigree di alto livello – proprio in quel periodo Verdi pensava insistentemente a una cosuccia tipo Re Lear!) 

Ma non si vede d'altronde quale valore aggiunto porti una regìa come questa, che ci trasferisce in una specie di Repubblica di Bananas e in ambienti che sanno più di avanspettacolo che di opera seria, per cui, se lo spettatore facesse mente locale al testo (costato tanta fatica al povero Somma) dovrebbe sghignazzare ad ogni piè sospinto, tanta e tale è la dissociazione fra ciò che si ascolta e ciò che si vede.

Insomma, caro Mariani, potevi fare di più e di meglio, lasciatelo dire! Eppure, volendo proprio-proprio applicare i principi del Regietheater e portare la vicenda ai giorni nostri per rendercela più digeribile, di spunti ce ne sarebbero assai. Ad esempio: fare di Riccardo il Sindaco di una cittadina di provincia, il cui Segretario comunale sia Renato, dotato di moglie-gnocca, con Oscar nei panni del Messo comunale, Sam&Tom in quelli di due Consiglieri di minoranza, e Ulrica impersonificata da una pescivendola che a tempo perso scrive oroscopi sul giornalino locale. Oppure ispirarsi al mondo del business, dove Riccardo è il CEO di un gruppo industriale, Renato il suo General manager (basta che abbia una moglie-gnocca) Oscar il Public-relations manager, Sam&Tom due Executives licenziati in tronco e Ulrica la responsabile del Forecasting del gruppo. Un altro ambientino da prendere di mira potrebbe essere la struttura di potere della Chiesa Cattolica (dove magari al posto della moglie-gnocca si metta un qualche efebo canadese…)

Le scene (a parte la conclusiva mascherata, fin troppo carica di colori e festoni) sono anonime e fredde. La qual cosa si addice, più o meno, esclusivamente all’ambiente del campo dei patiboli del second’atto (con tanto di cappi pendenti) ma che per il resto pare del tutto fuori luogo.

Quanto alla caratterizzazione dei personaggi principali, va ricordato che il Riccardo di Somma-Verdi non è un Re, vero, ma soltanto perché la censura lo impedì, mentre ha di fatto e precisamente tutti i tratti del Gustavo III di Scribe, da cui fu mutuato quasi alla lettera: un sovrano accentratore sì, ma illuminato, aperto a riforme e – come nella realtà – amante dell’arte e della cultura. I suoi tratti gioviali e persino canzonatori (vedi i rapporti con Ulrica o la propensione al divertimento) sono comunque sempre improntati a senso estetico e nobiltà, mai sguaiati o truculenti. Purtroppo non è ciò che Mariani ci presenta, mostrandoci da subito un Riccardo che assomiglia, più che a un nobile sovrano, ad un parvenu di campagna, uno che balla sui tavoli e tratta i collaboratori – direttamente o per interposto-Oscar – come burattini. Col che diventano poi incoerenti o poco verosimili i suoi comportamenti nelle successive scene serie (Amelia e finale).       

Va un pochino meglio con Renato, di cui viene peraltro esagerata la pur comprensibile ira, all’inizio dell’atto conclusivo, con l’appartamento letteralmente messo a soqquadro, fra letti sfasciati e sedie capovolte: non è propriamente questo ciò che di Renato ci trasmette il testo e, soprattutto, la musica di Verdi! 

L’Oscar di Mariani è sufficientemente spiritoso, come da copione; come detto, sono censurabili alcuni suoi atteggiamenti gratuitamente irriguardosi verso altri personaggi (il Giudice, in primis): in fin dei conti lui è un paggio tipo-Cherubino, non un buffone tipo-Rigoletto…

Quanto ad Amelia, lei è obiettivamente personaggio enigmatico e dalle diverse possibili interpretazioni: Mariani semplicemente evita di prendere una qualunque posizione, presentandoci una donna che pare invertebrata e sulla quale gli eventi, pur drammatici, scorrono come acqua sul cristallo.

La figura dell’indovina Ulrica ha la sufficiente e dovuta profondità. A proposito di Ulrica, nel libretto di Somma (ma la cosa è praticamente copiata da Scribe) c’è un’allusione fatta da Amelia - quando realizza che il marito e i congiurati hanno deciso la morte di Riccardo - alla possibilità di sventare l’attentato tramite la strega (Forse potrallo Ulrica): poi però la cosa cade totalmente nel nulla, e resta lì, come un filo pendente che non si annoda da nessuna parte…

In ogni caso Mariani si merita un ringraziamento d’obbligo, non fosse altro che per averci risparmiato cose così… e anche cose-cosà!
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Sul fronte musicale, anche nel Ballo Verdi introduce, pur in modo parsimonioso, alcuni precisi rimandi tematici, il principale dei quali è ovviamente quello che riguarda Riccardo e il suo anelito per Amelia; lo sentiamo già nel breve preludio (esposto tre volte, prima in RE, poi in LA, poi ancora in RE maggiore):

E quindi subito cantato dal protagonista, sulla famosa La rivedrà nell’estasi (in FA#):


E ricompare poco dopo, nei pensieri di Riccardo, quando entra Renato. Lo risentiamo nel terzo atto, suonato dai violini (in LAb) all’inizio del monologo di Riccardo, e poi ancora nel canto del protagonista, in FA maggiore, alla fine del famoso Ma se m’è forza perderti:

Da ultimo, un suo inciso compare sulle parole Sin che tu m’ami, Amelia, e poi Non ho che te nell’anima, durante l’estremo, straziante incontro con l’amata:

E legato ad Amelia è un altro motivo che ricorre un paio di volte: il tema (in MI maggiore) sul quale lei canta la sua implorazione nell’antro di Ulrica (una melodia che sembra – certo casualmente - evocare la wagneriana Elsa) viene riesposto (in RE maggiore) dal flauto e poi dagli archi, nel Preludio all’Atto II, nel momento in cui la donna si inginocchia e prega, subito prima di entrare nel campo dei patiboli:

Ma il nesso più sottile e quasi rabbrividente, perché non esplicito ma sotterraneo, è quello che collega il tema dell’aria di Riccardo È scherzo od è follia siffatta profezia a quello della mazurka (o walzer, o menuetto che dir si voglia) intonata dall’orchestrina d’archi dietro le quinte nel finale dell’opera, e che farà da sfondo alla tragica fine del protagonista, fine precisamente predetta dalla profezia di Ulrica, così allegramente irrisa da Riccardo:


Solo con Freud (che ai tempi però era un bambinello) si potrà spiegare la valenza di quel legame, così subdolo, fra i ritmi dei due motivi.
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Prestazione complessivamente più che discreta sul piano musicale.

A Gregory Kunde va riconosciuta una grandissima professionalità e un mestiere senza pari. La voce è quella che è, ma il modo con cui il tenore americano affronta la parte è davvero lodevole, e così il pubblico lo gratifica di un autentico trionfo.

Oksana Dyka conferma di possedere una grande voce, proprio a livello di dote naturale. Mutuando un linguaggio da Formula-1 si potrebbe dire che ha il problema di mettere-a-terra-i-cavalli del suo motore. In sostanza: espressione e portamento sono ancora da migliorare parecchio (dovrebbe prender lezioni da Kunde, smile!)

Gabriele Viviani è un Renato passabile: anche per lui limiti nell’espressione, più che nel suono; un po' contratto nell'aria di esordio, onesto il suo Eri tu, ormai assurto a forca caudina per ogni baritono.

Una bella sorpresa è l’Oscar di Serena Gamberoni: voce più corposa di quelle sottilissime che spesso si sentono in questo ruolo, ma in compenso bella e passante, perfettamente emergente anche nel bailamme del concertati. Poi ci mette anche le atletiche giravolte e così si garantisce il trionfo.  

Anche Marianne Cornetti mette tutto il suo mestiere per offrirci una discreta Ulrica, con qualche problema – mi è parso – nella fascia bassa dei suoi, piuttosto forzati.

Antonio Barbagallo e Gabriele Sagona sono due degni Sam&Tom, come Marco Camastra nei panni di Silvano. Oneste le prestazioni del Giudice Luca Casalin e del messo di Amelia, Dario Prola.

Sui suoi alti standard la prestazione del coro di Claudio Fenoglio. Renato Palumbo forza forse un po’ il volume in alcuni momenti, ma complessivamente manovra abbastanza correttamente quello strumento di alto livello che è oggi l’Orchestra del Regio.

Tutto sommato uno spettacolo godibile, che il folto (non foltissimo) pubblico del Regio ha mostrato di apprezzare assai.  

23 febbraio, 2011

Tosca (di Bondy, purtroppo) alla Scala


Dopo Cavalleria-Pagliacci (o viceversa!) ecco ancora un classico del melodramma italico fine-800 alla Scala. Introdotto da una corposa presentazione del professor Michele Girardi (da non confondersi con Enrico Girardi, occhio…) un'autorità in merito, nel consueto appuntamento Prima della prima del 9 scorso. In effetti – sarò sadico, magari, in questa esortazione – ma prima di entrare in teatro a godersi (o a maledire) lo spettacolo, chiunque dovrebbe leggere - meglio ancora: studiare - analisi come questa (vedi pagg. 37 e seguenti) redatta proprio da Girardi, anni fa, per La Fenice. Di sicuro, dalla lettura di un'analisi come questa ci si farebbe un'idea concreta (meglio ancora se si buttasse anche uno sguardo alla partitura) di ciò che è l'originale, in modo da poter poi apprezzarne o censurarne la rappresentazione – scenica e musicale - con un minimo di cognizione di causa, e non sulla base di estemporanee e più o meno viscerali sensazioni. In caso contrario, meglio non far assurgere le proprie pur rispettabili, ma viscerali, sensazioni a giudizi assoluti, di condanna o santificazione che siano. (non parlo qui di giudizi – in un senso o nell'altro – a vario titolo interessati).


Cast annunciato da mesi e mesi e – regolarmente – smontato pezzo per pezzo alla vigilia della prima. C'è ancora un intero mese di inverno, quindi sono da aspettarsi altre vittime (una già annunciata per Britten, ma scommetto che si salverà Francesconi) Però, fossi Mozart, Puccini, Gounod, Verdi e Rossini, non mi fiderei neanche di primavera ed estate: dentro il Piermarini le correnti d'aria devono essere sempre più sbifide.

La prima del 15 – tenuta rigorosamente segreta, come ogni altra replica, alla diffusione radio-tele-web (coda di paglia, come l'inversione Pag-Cav, caro Lissner?) – pare fosse passata secondo recente tradizione: fra irrisioni, più che contestazioni, alla regìa, e alcuni chiassosi, contestati buh per il povero Kapellmeister. Da taluni definito, in pratica, un maestro di cappelle, nel mentre altri lo hanno già elevato al rango di profeta (sarà forse per via della sua provenienza da luoghi biblici, smile!) Accoglienza mista che – sempre stando alle cronache – si era ripetuta anche alla seconda (che recuperava la Dyka) e alla terza, in cui era riemerso dal nulla il bel Jonas. Ieri? Invece, pure. Il loggione mi è parso diviso fra centro-destra (battimani fragorosi e bravi! a josa) e sinistra (secondo piano, in particolare, da cui sono piovuti pesanti buh ai principali protagonisti, direttore escluso peraltro). Che il loggione sia diventato uno specchio del Paese politico, diviso in fazioni ed opposti estremismi?

Ieri sera la prestazione di Omer Meir Wellber mi è parsa francamente apprezzabile, forse perchè alla quarta tornata l'affiatamento con orchestra e interpreti ha potuto migliorare. Qualche fracasso che personalmente trovo eccessivo (non le campane, come riportato da qualcuno per le precedenti recite) ma per fortuna mai a coprire il canto; per il resto una direzione rispettosa della partitura, quindi tutt'altro che da stigmatizzare, né tanto meno da buare. Certo, da qui a vedere in Omer il messia ce ne corre assai e del resto, avendo 30 anni, il nostro non può che migliorare ancora, a meno che non cada vittima della sindrome da notorietà precoce.

Zeljko Lucic è uno Scarpia indecente sotto il profilo della recitazione, ma ciò è quasi certamente da addebitarsi al regista (vedi sotto). Viceversa i suoni che sono usciti dalla sua bocca, pur non incantando, mi son parsi perlomeno dignitosi e lui non meritevole della porzione di buh arrivatigli insieme agli applausi. Imponente la sua entrata nel primo atto ed abbastanza efficace anche la sua prestazione nel secondo, forse con qualche eccesso di declamato/gridato. Per me, comunque, dovrebbe citare il regista per procurato danno di immagine.

Oksana Dyka, come già di recente in Pagliacci, ha mostrato doti naturali notevoli accompagnate da una certa immaturità. Paradigmatico il suo Vissi d'arte (unica aria su cui il pubblico è intervenuto, col loggione diviso fra brava! e buh) in cui ha sfoggiato gran chiarezza di suono, accompagnata da una certa monotonia nell'espressione (e da un singhiozzino anticipato, sul Signor, ah) Insomma, una dignitosa prestazione da parte di questa 33enne, per me meritevole di incoraggiamento.

Il divo-redivivo Jonas ormai lo si conosce, in tutto e per tutto: a voce spiegata, un autentico gigante; nei mezzo-forte e nei piano, o di gola o di testa. Sulla scena è l'unico a fregarsene (anche qui: nel bene e nel male) del regista: lui è sempre lui, Werther, Josè, Mario, tutti fatti con lo stesso stampino. Alla fine anche per lui il mix di bravo! e buh: in questo caso (per me) abbastanza appropriati in proporzione alle qualità positive e negative sopra descritte (smile!)

Bravo lo Spoletta di Luca Casalin, almeno come rapporto prestazione/difficoltà.

Renato Girolami era il Sagrestano, che il regista ha pervicacemente ridicolizzato. Da sufficienza la sua prestazione vocale.

Un discreto Angelotti è stato Deyan Vatchkov, mentre Davide Pelissero e il prezzemolo Ernesto Panariello si son guadagnati la pagnottina, nei panni di Sciarrone e Carceriere. Da elogio anche la prestazione della "pastorella" Barbara Massaro.

Sui suoi abituali standard il Coro di Casoni, integrato da bianche voci, che ben ha reso la scena madre del Te-deum, a dispetto della regìa.

Ecco appunto, la messinscena: il fatto che il MET e München già ci avessero messo sull'avviso nulla toglie alla sensazione di autentica pena che si prova assistendo a questa pagliacciata. Purtroppo, oltre a soffrire le contingenze di stagione, Tosca deve avere un qualche strano e arcano potere: risultare indigesta a parecchia gente. È rimasta famosa l'idiosincrasia di Mahler per quest'opera (non per Puccini, attenzione) da lui definita, al primo e forse unico ascolto, un lavoro magistralmente abborracciato, che qualunque apprendista-calzolaio era in grado di scrivere… e conseguentemente e coerentemente mai diretta in vita sua.

Ecco, Luc Bondy si deve esser fatto suggestionare dal giudizio di Mahler, e quindi ha deciso – bontà sua - di riscrivere Tosca. Interessante ed istruttivo quanto si ascolta in questa sua intervista, dove il regista spiega il suo approccio. Attorno a 1':10" il nostro afferma candidamente che il libretto (parla dell'omicidio di Scarpia) è stupido e che quindi lui (il genio!) ci ha dovuto mettere le mani, mostrandoci Tosca che minaccia di buttarsi dalla finestra (apperò!) Poco dopo (1':43") per giustificare le sue efferatezze, Bondy spara un'autentica carognata, affermando che Sardou fu spesso in disaccordo con Puccini riguardo a scelte del libretto, e proprio mentre si parla del finale secondo. Ciò è un clamoroso falso: ci furono, effettivamente, divergenze fra Sardou e i librettisti di Puccini, ma sempre il compositore si schierò con il drammaturgo, e convinse i suoi librettisti a seguirlo. La chiusa dell'atto è pari-pari, ma proprio nei minimi dettagli, come la descrive Sardou, non come ce la mostra Bondy! E lo stesso dicasi per il finale terzo, dove Puccini impose di rispettare il dramma di Sardou (Tosca che si getta dallo spalto) ai suoi librettisti, intenzionati a farne una ridicola, tristaniana Liebestod. Ancora, a 2':02" il candido Luc afferma "non è originale!", e poi "non è nulla di originale, né di speciale, in fondo è solo un'opera". E quindi rivendica il diritto di farne strame (?!) Insomma: parodia e dissacrazione elevate a principio assoluto. A 2':45" si incarta poi in un ragionamento senza capo né coda, affermando che Puccini non è Berg (ma l'ha ascoltata bene la scena della tortura, il nostro genio?) e che Schönberg era un ammiratore di Puccini, ma che fra loro ci fu sempre rivalità (sic!) Poi, bontà sua, riconosce che Tosca (insieme a Salome) è il top dell'opera, è molto buona, ma che ciò non basta (?!) Mah, o era ubriaco, oppure è del tutto fuori di melonera.

Domanda: ma se un'opera non ti va a genio, mio caro Luc, perché non ti limiti semplicemente ad ignorarla, come fece il saggio Gustav? Occupati d'altro, di cioccolatini ad esempio, invece di accanirti su un oggetto che disprezzi. Questa regìa fu sonoramente contestata al MET nel 2009, poi a Monaco nel 2010: si disse, ad opera di nostalgici di Zeffirelli. Ma buare è ancora nulla: qui ci vorrebbero punizioni e multe severe per chi si macchia di simili nefandezze. Come gridava Bracardi? In galera!

A Milano il nostro – mostrando pure una buona dose di vigliaccheria (leggi: non avere il coraggio delle proprie scelte) – ha edulcorato o eliminato i particolari più dissacranti (chi non ha visto dal vivo le recite del MET e di Monaco, o si è perso la diffusione di arte, può trovare ampi documenti su youtube che testimoniano delle scelte al limite della provocazione fatte dal regista svizzero) credendo così di farla franca a buon mercato (o pensando che il pubblico italiano sia fatto da trogloditi bigotti, non abbastanza intelligenti per capire un genio come lui). In pratica, dal suo mix dissacrazione+parodia ha tolto la dissacrazione. Quindi indovinate voi cosa è rimasto…

La sua vittima principale, quanto a rappresentazione dei personaggi, è il povero Scarpia, che non è propriamente un comprimario insignificante, ma nientemeno la zeppa che sostiene l'intera volta strutturale dell'opera. Nel primo atto, in chiesa, alla fine del Te Deum, lo Scarpia di Bondy evita (come faceva al MET) di palpeggiare la statua della Madonna (forse perché qui siamo a Milano, a duecento metri dalla Madunina) ma le si avvicina fin quasi a baciarla sulla bocca! Sarebbe questo il modo di rappresentare la sua perversa personalità, il suo abietto uso della Religione e della Politica per soddisfare la sua concupiscenza (Tosca, mi fai dimenticare Iddio)?

Nella scena iniziale del secondo atto, avevamo visto (al MET e a Monaco) Scarpia farsi pompinare non da una, ma da tre puttane, regolarmente pagate in contanti dallo Spinelli… ops, dallo Sciarrone di turno. Alla Scala il blowjob è censurato (c'è paura del mite Tettamanzi, per caso?) ma il risultato non cambia. Bondy – da svizzero, pur zurighese – dovrebbe conoscere un po' di italiano; altrimenti, chieda al primo che passa per la strada di spiegargli cosa canta Scarpia, in modo da farsi un'idea di quale pasta sia fatto il barone siculo al servizio dei borboni appaltato dal Vaticano. Ha più forte sapore la conquista vïolenta che il mellifluo consenso. Che è la splendida, fulminante e concisa rappresentazione dell'originale di Sardou: Une femme qui se donne, la belle affaire... J'en suis rassasié, de celles-là!... Mais ton mépris et ta colère à humilier... ta résistance à briser et à tordre dans mes bras!... Pardieu, c'est la saveur de la chose, et ta résignation me gâterait la fête!... Queste parole, Luc Bondy, che non può non conoscere il francese, le ha lette? Ha idea di cosa raccontino della personalità di Scarpia? Evidentemente no: lui, come ha del resto candidamente ammesso nell'intervista di cui sopra, del libretto (e della musica?) dell'opera che deve allestire, non si cura, essendo una cosa stupida.

Ancora Scarpia: Io di sospiri e di lattiginose albe lunari poco mi appago. Non so trarre accordi di chitarra, né oroscopo di fiori, né far l'occhio di pesce, o tubar come tortora! Bramo. La cosa bramata perseguo, me ne sazio e via la getto, vòlto a nuova esca. Ora, cosa vediamo noi in tutta la scena della tortura? Uno Scarpia che fa il cascamorto con Tosca, che le fa precisamente l'occhio di pesce e che comicamente tuba come tortora. Roba da matti… anzi, da Berlusconi, con il terzo piano di (quello che dovrebbe essere) Palazzo Farnese ridotto a scantinato da bunga-bunga, vomitevole.

Quanto a Floria, Bondy ne ha attenuato, a Milano, i caratteri di schizoide, nevrotica, volgare e pure scema e vanesia che le aveva appioppato al MET. Resta la stupidaggine dello sfregio al dipinto della Maddalena (a proposito, scusate: ma qualcuno ha imposto che abbia sempre la tetta sinistra al vento? Ronconi, Carsen e adesso Bondy così ce la rappresentano) E resta l'assurdo finale secondo: dopo aver pugnalato Scarpia nelle palle (il libretto, si sa, è stupido e prescrive una sola coltellata al cuore) gli dà un'altra coltellata, precisamente sull'unico colpo di piatti previsto in partitura, proprio al cuore (altrimenti il bruto farebbe una fine atto come Amfortas nel Parsifal) e poco dopo, altre due coltellate (l'ultima a due mani, orripilante) sulle parole muori, muori, muori! Poi fa per buttarsi dalla finestra (appunto, a proposito della stupidità del libretto… di Bondy!) quindi ci ripensa e si stende stanca, ebete ma soddisfatta sul sofà, ad asciugarsi il sudore col ventaglio dell'Attavanti (?!)

E pensare che Puccini nel comporre Tosca ci ha messo tutta la sua inventiva e la sua pignoleria, arrivando a scrivere in partitura particolari come questo:
Di cui Bondy si sbatte altamente i coglioni, come di tutto il resto… Il terzo atto è addirittura stravolto nella sua originaria drammaticità. Non parlo della partita a scacchi fra Mario e il carceriere, roba da avanspettacolo. No, è che per Bondy i due protagonisti si comportano come se fossero consapevoli che l'imminente esecuzione sarà proprio vera e non simulata: già la scena rimane sempre avvolta nella totale oscurità (la fantastica alba su Roma dev'essere stupida cosa, ovviamente) e poi Cavaradossi che appallottola e getta via il salvacondotto, i due che cantano il Trionfal come fossero al funerale… insomma, siamo al totale ribaltamento della situazione emotiva costruita dal libretto (e dall'originale di Sardou) il che priva il finale del drammatico colpo di scena determinato dalla non simulazione della pena. E, coerentemente con la stupidità della sua regìa, Bondy fa salire Tosca lungo una scala, con studiata compostezza e la fa lentamente scomparire in una torre. Penoso.

E che dire delle scene di Peduzzi? Ma perché continuano (no anzi, continuiamo noi!) a pagarlo per le sue scenografie sempre uguali? Per restare solo alla Scala negli ultimi anni: Tristan, Carmen, Casa di morti, Tosca: tutto uguale! Muraglie da archeologia industriale, cupe e deprimenti. Sant'Andrea, Palazzo Farnese, Castel Sant'Angelo: non c'è differenza alcuna fra una basilica barocca, una quasi-reggia rinascimentale ed un castello di origine adriana, il tutto è ridotto peggio delle più sconce stazioni del metro del Bronx.

Quanto ai costumi della Canonero, sono almeno vagamente plausibili, e ciò va tutto a suo merito.

Non aggiungo altro, salvo la constatazione che la stagione – iniziata così-così con Wagner e proseguita cosà-cosà con il dittico – non mi pare si stia riprendendo alla grande con questa Tosca, passabile sul fronte musicale, ma deprimente su quello scenico. E ci attende ora una Morte… già depauperata del primattore.

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Girovagando attorno a Tosca.

Sui cambi d'abito.

Qualcuno si è - del tutto a torto – scandalizzato per il fatto che l'abito indossato nel terzo atto da Tosca in questa edizione è visibilmente diverso da quello che la cantante indossa nel secondo. Perché a torto? Perché la cosa è invece naturale e direi quasi doverosa (e infatti quasi tutte le produzioni ce la propongono così). In effetti chi ha presente il dramma di Victorien Sardou (cui si ispirarono Giacosa-Illica per il libretto del melodramma) può essere tratto in inganno, poiché in Sardou il colloquio finale fra Scarpia e Tosca non avviene a Palazzo Farnese e nel bel mezzo di una festa in onore della regina, ma proprio a Castel Sant'Angelo, nell'appartamento di Scarpia, a due passi dalla prigione dove è detenuto Mario e a tre dalla piattaforma sulla quale verrà fucilato. Tosca vi è stata portata dopo la drammatica serata-nottata nella casa di campagna dell'amato (atto III) durante la quale lei ha rivelato il nascondiglio di Angelotti, poi suicidatosi. Lei veste (verosimilmente) ancora gli abiti da cerimonia che indossava precedentemente (atto II) a Palazzo Farnese, a meno di ipotizzare un suo passaggio da casa a cambiarsi, prima di andare da Mario, cosa peraltro inverosimile, data la fretta che Tosca ha di cogliere in flagrante i supposti trescanti (e poi è tutto sommato ininfluente sulla questione dibattuta qui). Dopo aver ucciso Scarpia (fine atto IV) Tosca si reca immediatamente alla prigione di Mario (inizio atto V) e quindi non può certo avere un abito diverso da quello indossato nei tre (o come minimo due) atti precedenti. Si noti che Tosca non fa cenno alcuno a Mario di eventuali preparativi da lei fatti in vista della fuga (non ne avrebbe avuto materialmente la possibilità): si limita a dire che loro hanno da 4 a 7 ore di margine (prima che si scopra l'ammazzamento di Scarpia) per abbandonare lo Stato e che non avranno problemi a raggiungere Civitavecchia, disponendo della carrozza che Scarpia ha (meglio: disse di aver…) messo a loro disposizione.

Invece sappiamo che il libretto del melodramma prevede che il colloquio, seguito dall'accoltellamento, fra Tosca e Scarpia avvenga appunto a Palazzo Farnese, al piano superiore a quello in cui è in corso la festa per la regina, di cui Tosca è stata la protagonista canora. E quindi Tosca, prima del terzo atto dell'opera, deve necessariamente spostarsi (di circa 1 Km) da Palazzo Farnese a Castel Sant'Angelo. Una volta lì, cosa racconta a Mario? Cito dal libretto: (mostrando la borsa) io già raccolsi oro e gioielli… una vettura è pronta. Questa frase, del tutto assente in Sardou (vettura a parte) e inventata di sana pianta dai librettisti di Puccini, ci dice senza la minima ombra di dubbio che Tosca, dopo aver abbandonato Palazzo Farnese e prima di recarsi a Castel Sant'Angelo, è passata da casa, a recuperare oro e gioielli (non poteva di certo averne portato con sé una borsa piena a Palazzo Farnese, quando l'ultima cosa che poteva immaginare era la brutta piega che avrebbe preso la serata!) e procurarsi una carrozza. E quindi non può non aver ragionevolmente approfittato di questa sosta anche per cambiarsi d'abito, togliendosi quello (verosimilmente ingombrante, scomodo ed appariscente) della cerimonia regale, per indossarne uno più adatto all'imminente viaggio (che sarebbe in verità una fuga in piena regola).

La richiesta di grazia alla regina

A proposito di inesattezze (un assoluto dilettante come me ci gode un mondo a prendere simpaticamente in castagna qualche autorità…) nel peraltro interessante ed approfondito scritto del prof. Giulio Paduano pubblicato sul programma di sala, si sostiene che l'onnipotenza di Scarpia sia tratto innovativo della situazione operistica rispetto a Sardou (…) in Sardou la posizione di Scarpia è subalterna (…) Tutto questo orizzonte è sgombrato nell'opera di Puccini per lasciar posto ad un incontestato diritto di vita e di morte, a proposito del quale non fa aggio neppure il potere della regina; è nominato sì: da lei Tosca può ottenere la grazia per Mario, ma Scarpia ha il potere di far sì che arrivi troppo tardi. In poche parole, Paduano cerca di convincerci che Illica-Giacosa-Puccini siano più convincenti di Sardou, portandoci un esempio che… dimostra proprio il contrario! Vediamo perché.

Nel dramma di Sardou Tosca è, come sappiamo, a Castel Sant'Angelo, quasi all'alba. Pur avendo una carrozza a disposizione (come le garantisce Scarpia) Tosca dovrebbe: uscire dal castello, andare a Palazzo Farnese (e fin qui son pochi minuti); ma poi farsi aprire, buttare letteralmente giù dal letto la regina (!?) convincerla a firmare la grazia e tornare al castello in tempo per bloccare l'esecuzione. Francamente una mission impossible, come la poveretta deve subito constatare, convinta dell'inutilità dei suoi sforzi dalle parole di Scarpia che l'avverte che la grazia arriverebbe con almeno un'ora di ritardo. Cosa forse esagerata quantitativamente, ma ben plausibile nella sostanza, dato che Scarpia potrebbe far impiccare Mario, detenuto lì accanto, nel giro di pochi minuti.

Invece nel libretto italico le cose stanno in modo assai diverso ed assai meno plausibile: perché, nonostante Scarpia cerchi di dissuadere Tosca affermando che a Mario resta solo un'ora di vita, è pur vero che Tosca si trova a distanza di pochi metri dalla regina (terzo e secondo piano dello stesso Palazzo Farnese); e la regina è probabilmente ancora sveglia, o si sta appena preparando a ritirarsi, dopo la festa; e soprattutto, se convinta da Tosca, potrebbe addirittura convocare Scarpia seduta stante per ingiungergli di non dar corso all'impiccagione, se non addirittura di far immediatamente riportare lì il Cavaradossi in carne ed ossa. E del resto – a differenza del dramma di Sardou - Scarpia non ha Cavaradossi lì accanto (il condannato è per strada verso Castel Sant'Angelo) e non potrebbe quindi farlo giustiziare in pochi minuti. Perciò il fattore-tempo, addotto dal barone per far desistere Tosca, qui è assai debole: su questo punto è Sardou ad essere impeccabile quanto a plausibilità e realismo, molto meno i librettisti di Puccini.

Il terzo atto, prima e dopo

Sempre sul programma di sala di questa edizione di Tosca, compare un interessantissimo articolo di Pier Giuseppe Gillio, che riporta documenti inediti riguardanti la prima versione del libretto del terzo atto, ad opera di Luigi Illica, con successivi interventi di Giuseppe Giacosa. Versione che fu ampiamente tagliata e drasticamente modificata per arrivare a quella finale.

La didascalìa che Illica aveva steso per presentare l'inizio dell'atto (largamente espunta nell'edizione definitiva) reca una minuziosa descrizione dei rintocchi di campana che si odono dopo la canzone del pastorello (che mancava in questa originaria versione). E si può verificare sulla partitura come Puccini vi abbia tenuto fede, peraltro dilatandone poi l'estensione. Illica scrive: Lontanissimo, nell'estremo fondo, da San Pietro Montorio viene fioco fioco il suono di campana che chiama a mattutino. In effetti la chiesa si trova a sud di Castel San'Angelo, a circa 1.500m in linea d'aria. In partitura Puccini segna questo suono con indicazione lontanissimo e con una successione di 3, poi 4, poi 5 minime (siamo in 4/4) separate da una pausa di minima. La nota è SI naturale sotto il rigo della chiave di violino. Prosegue Illica: subito, dopo breve intervallo, vi risponde la piccola campana del convento di Sant'Onofrio, nel medio fondo, a destra. In effetti Sant'Onofrio si trova a circa 500m a sud-ovest di Castel Sant'Angelo, quindi giustamente a destra, guardando dal castello. Puccini indica meno lontano e segna il suono come una successione di semiminime (campana piccola!) di RE naturale, intervallate da pause di semiminima. I primi cinque rintocchi si alternano-sovrappongono a quelli di San Pietro Montorio. Ancora Illica: poi, sola ancor, e più accelerata, la campana della Chiesa de' Miracoli, vicinissima, a sinistra, batte mattutino. Qui Illica si prende una certa libertà, in quanto la chiesa è sì a sinistra (sta a nord-est del castello) ma non è proprio vicinissima (è a circa 1.000m di distanza). Puccini indica vicino e segna il suono come tre serie di 3, 4, 5 semiminime consecutive (più accelerata!) separate da una pausa di semiminima. Come si vede, una rappresentazione musicale assolutamente fedele alla descrizione del librettista, descrizione poi espunta dal testo dato alle stampe.

Puccini poi estende la presenza dello scampanìo fino a far intervenire, prima dell'aria di Mario, anche il campanone di San Pietro, segnato come MI naturale gravissimo in minime.

Di qualche interesse anche l'orario degli avvenimenti. Nel libretto definitivo il terzo atto si apre poco dopo le tre del mattino, come si può dedurre dal fatto che l'esecuzione avviene alle 4 (suonano le 4 del mattino, è scritto in didascalìa) e prima il carceriere ha avvertito Cavaradossi con il famoso vi resta un'ora. Invece Illica, nella stesura originale, posticipava tutto di ben due ore (suonano le ore sei, si legge sul libretto originario al momento dell'esecuzione di Mario, dopo il famoso inno latino, che Puccini sbeffeggiò come trionfalata, cassandolo senza pietà). Credo che tutto sommato abbia avuto ragione Puccini a restar fedele ai tempi di Sardou, anche per ragioni, come dire… astronomiche: non dimentichiamo che siamo al mattino del 18 giugno, praticamente al solstizio d'estate!

Di grande interesse anche la versione originaria dell'epilogo. Illica ne voleva fare un finale à la Lucia, o Linda, o Macbeth (così scriveva Eugenio Checchi nel 1897, come ci informa sempre l'articolo di Pier Giuseppe Gillio). In realtà a me pare che il modello più calzante fosse il wagneriano Liebestod. Tosca tesse le lodi dell'amato rivolgendosi a donne preganti; poi chiude con questi versi, rivolti ad un immaginario gondoliere: Non è morto – Sai. Dorme… è stanco. Via tutti, via tutti! – L'onde dei tremuli – Canali baciano – Le vecchie istorie – Le vecchie glorie… - Non cantar gondoliero… piano, piano… - Voglio un grande silenzio a noi d'intorno – Silenzio eterno con eterno amore… (E Tosca, col cadavere di Mario in grembo, rimane immobile col dito sulle labbra nell'atto di imporre silenzio al fantastico gondoliero che essa vede nel suo pensiero). Roba da chiodi! Un monumento a Puccini per aver dato retta a Sardou, e definito 'sta roba come aria del paletot.
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