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consulta e zecche rosse

24 giugno, 2012

Maschere a Torino


Quarta replica ieri al Regio del Ballo verdiano, in una ripresa dell’allestimento di qualche anno fa, con regìa dell’italo-yankee – Direttore artistico del Massimo palermitano - Lorenzo Mariani. Trasmessa – in prima – martedi da Radio3 e poi (anche in streaming, ohibò) giovedi da RAI5.

Che la torbida vicenda dell’attentato a Gustavo III di Svezia dovesse diventare oggetto di libretti per opere teatrali era quasi una predestinazione (smile!) dal momento che il luogo in cui il Re venne sparato alla schiena da un suo militare (Jacob Johan Anckarström) durante un ballo mascherato, il 16 marzo 1792 (morirà 13 giorni dopo) era precisamente il Teatro Reale dell’Opera che lo stesso Re, amante di letteratura e musica, aveva fatto costruire 10 anni prima:

Invece, che il movente dell’attentato fosse di natura sentimentale (le presunte corna che il Re avrebbe fatto al suo militare) pare frutto della fervida fantasia di un librettista come Scribe (autore del testo musicato da Auber un quarto di secolo prima di Verdi, e preso a modello da Antonio Somma e prima ancora da Cammarano per Il Reggente di Mercadante): sembra infatti che il Re (pur avendo avuto una moglie, destinatagli per ragioni dinastiche quando lui aveva… 5 anni) fosse un incallito omosessuale! Il che potrebbe gettare una certa luce sul personaggio – inventato pure quello – di Oscar…

Quanto al trasferimento dell’ambientazione e dei protagonisti (imposti, come noto, dalle solerti censure di Napoli prima e Roma poi) va riconosciuta a Somma (ma anche a Verdi che ci mise lo zampino) una notevole perspicacia, essendo lui riuscito a trovare uno scenario – pur di là dall’Atlantico, con annessa retrodatazione di un secolo e con personaggi non regali – sul quale far calzare quasi a pennello tutti gli aspetti realistici e financo storici della vicenda svedese.    

Ad esempio, la questione della sibilla Ulrica. La vera Ulrica Arfvidsson visse fino alla fine del ‘700 in un appartamento di Stoccolma, esercitandovi normalmente la professione di indovina, addirittura rispettata e tenuta in gran considerazione anche dai nobili e dallo stesso Gustavo III: fu Scribe a inventarsi – poco plausibilmente - la storia della sua condanna all’esilio, giusto per colorire un pochino le motivazioni del Re a farle visita. Invece Somma, nella sua forzata trasposizione, riuscì a fare di meglio: infatti proprio alla fine del ‘600, quando ancora il Massachusetts era colonia britannica, vi erano proliferate in modo assai vasto le pratiche di stregoneria, riguardo le quali ci sono rimasti documenti ufficiali di corposi processi, come i Salem Witch Trials; quindi il bando proposto per Ulrica nel libretto italiano è assai più realisticamente (e storicamente) plausibile, rispetto a Scribe. (In compenso Somma – che pure era un libero pensatore e irredentista - non perse l’occasione per buttare lì, en passant, un luogo comune razzista, mettendo in bocca al Giudice uno sprezzante: S'appella Ulrica, dell'immondo sangue dei negri).

Quanto al protagonista, che Somma trasforma dal Re di Svezia nel Conte di Warwich, governatore di Boston, l’unico indizio di una certa attinenza storica porta a tale Robert Rich, secondo Conte di Warwich, che si occupò a lungo di amministrazione di colonie, divenendo anche proprietario di immensi latifondi nell’est dell’America e azionista di diverse società commerciali (peraltro morì nel 1658, quindi assai prima della fine del secolo XVII in cui Somma colloca la vicenda). Invece un governatore di Boston di fine-600 che ebbe diversi problemi politici con i suoi militari (un po’ come il Riccardo di Somma) fu tale William Phips (che peraltro morì nel suo letto, in Inghilterra).

Comunque sia, va dato atto a Somma di aver messo in piedi, date le circostanze, uno scenario più che plausibile – e soprattutto coerente con le aspettative di Verdi - per il suo Ballo. Negli ultimi decenni – assenti censure borboniche o papaline – abbiamo assistito anche alla proposizione dell’idea originale, con ambientazione e personaggi svedesi, a cominciare dall’allestimento del Maggio nel 1963, ripreso alla Fenice nel 1999.

Ebbene, per giustificare la parcella, Lorenzo Mariani si inventa qualcosa di diverso ancora, per la verità non ben definito. «L’azione non si svolge nel Settecento americano come previsto dal libretto, ma è ambientata tra gli anni Venti e Trenta del ‘900: come se il governatore Riccardo fosse il viceré dell’India o di un’altra colonia». Questo leggiamo sul comunicato-stampa del teatro.

Ora, a parte che il Settecento americano non sta né nel libretto di Somma (dove è un Seicento) né in quello di Scribe (dove è svedese) l’ambientazione di Mariani non sembra nemmeno di 80-90 anni fa, come lui sostiene, ma genericamente collocata in tempi moderni e in luoghi indecifrabili o del tutto immaginari, e con personaggi ancora meno storicamente caratterizzati. Il che può anche fare poco danno, stante il contenuto del dramma, decisamente orientato alla sfera dei sentimenti privati assai più che a quella delle pubbliche istituzioni. (Però bisognerà pur ricordare ai registi quanto Verdi ci tenesse ad avere un soggetto con solide basi storiche, che conferissero al plot, e quindi alla musica che lui ci componeva sopra, un’aureola di importanza e un pedigree di alto livello – proprio in quel periodo Verdi pensava insistentemente a una cosuccia tipo Re Lear!) 

Ma non si vede d'altronde quale valore aggiunto porti una regìa come questa, che ci trasferisce in una specie di Repubblica di Bananas e in ambienti che sanno più di avanspettacolo che di opera seria, per cui, se lo spettatore facesse mente locale al testo (costato tanta fatica al povero Somma) dovrebbe sghignazzare ad ogni piè sospinto, tanta e tale è la dissociazione fra ciò che si ascolta e ciò che si vede.

Insomma, caro Mariani, potevi fare di più e di meglio, lasciatelo dire! Eppure, volendo proprio-proprio applicare i principi del Regietheater e portare la vicenda ai giorni nostri per rendercela più digeribile, di spunti ce ne sarebbero assai. Ad esempio: fare di Riccardo il Sindaco di una cittadina di provincia, il cui Segretario comunale sia Renato, dotato di moglie-gnocca, con Oscar nei panni del Messo comunale, Sam&Tom in quelli di due Consiglieri di minoranza, e Ulrica impersonificata da una pescivendola che a tempo perso scrive oroscopi sul giornalino locale. Oppure ispirarsi al mondo del business, dove Riccardo è il CEO di un gruppo industriale, Renato il suo General manager (basta che abbia una moglie-gnocca) Oscar il Public-relations manager, Sam&Tom due Executives licenziati in tronco e Ulrica la responsabile del Forecasting del gruppo. Un altro ambientino da prendere di mira potrebbe essere la struttura di potere della Chiesa Cattolica (dove magari al posto della moglie-gnocca si metta un qualche efebo canadese…)

Le scene (a parte la conclusiva mascherata, fin troppo carica di colori e festoni) sono anonime e fredde. La qual cosa si addice, più o meno, esclusivamente all’ambiente del campo dei patiboli del second’atto (con tanto di cappi pendenti) ma che per il resto pare del tutto fuori luogo.

Quanto alla caratterizzazione dei personaggi principali, va ricordato che il Riccardo di Somma-Verdi non è un Re, vero, ma soltanto perché la censura lo impedì, mentre ha di fatto e precisamente tutti i tratti del Gustavo III di Scribe, da cui fu mutuato quasi alla lettera: un sovrano accentratore sì, ma illuminato, aperto a riforme e – come nella realtà – amante dell’arte e della cultura. I suoi tratti gioviali e persino canzonatori (vedi i rapporti con Ulrica o la propensione al divertimento) sono comunque sempre improntati a senso estetico e nobiltà, mai sguaiati o truculenti. Purtroppo non è ciò che Mariani ci presenta, mostrandoci da subito un Riccardo che assomiglia, più che a un nobile sovrano, ad un parvenu di campagna, uno che balla sui tavoli e tratta i collaboratori – direttamente o per interposto-Oscar – come burattini. Col che diventano poi incoerenti o poco verosimili i suoi comportamenti nelle successive scene serie (Amelia e finale).       

Va un pochino meglio con Renato, di cui viene peraltro esagerata la pur comprensibile ira, all’inizio dell’atto conclusivo, con l’appartamento letteralmente messo a soqquadro, fra letti sfasciati e sedie capovolte: non è propriamente questo ciò che di Renato ci trasmette il testo e, soprattutto, la musica di Verdi! 

L’Oscar di Mariani è sufficientemente spiritoso, come da copione; come detto, sono censurabili alcuni suoi atteggiamenti gratuitamente irriguardosi verso altri personaggi (il Giudice, in primis): in fin dei conti lui è un paggio tipo-Cherubino, non un buffone tipo-Rigoletto…

Quanto ad Amelia, lei è obiettivamente personaggio enigmatico e dalle diverse possibili interpretazioni: Mariani semplicemente evita di prendere una qualunque posizione, presentandoci una donna che pare invertebrata e sulla quale gli eventi, pur drammatici, scorrono come acqua sul cristallo.

La figura dell’indovina Ulrica ha la sufficiente e dovuta profondità. A proposito di Ulrica, nel libretto di Somma (ma la cosa è praticamente copiata da Scribe) c’è un’allusione fatta da Amelia - quando realizza che il marito e i congiurati hanno deciso la morte di Riccardo - alla possibilità di sventare l’attentato tramite la strega (Forse potrallo Ulrica): poi però la cosa cade totalmente nel nulla, e resta lì, come un filo pendente che non si annoda da nessuna parte…

In ogni caso Mariani si merita un ringraziamento d’obbligo, non fosse altro che per averci risparmiato cose così… e anche cose-cosà!
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Sul fronte musicale, anche nel Ballo Verdi introduce, pur in modo parsimonioso, alcuni precisi rimandi tematici, il principale dei quali è ovviamente quello che riguarda Riccardo e il suo anelito per Amelia; lo sentiamo già nel breve preludio (esposto tre volte, prima in RE, poi in LA, poi ancora in RE maggiore):

E quindi subito cantato dal protagonista, sulla famosa La rivedrà nell’estasi (in FA#):


E ricompare poco dopo, nei pensieri di Riccardo, quando entra Renato. Lo risentiamo nel terzo atto, suonato dai violini (in LAb) all’inizio del monologo di Riccardo, e poi ancora nel canto del protagonista, in FA maggiore, alla fine del famoso Ma se m’è forza perderti:

Da ultimo, un suo inciso compare sulle parole Sin che tu m’ami, Amelia, e poi Non ho che te nell’anima, durante l’estremo, straziante incontro con l’amata:

E legato ad Amelia è un altro motivo che ricorre un paio di volte: il tema (in MI maggiore) sul quale lei canta la sua implorazione nell’antro di Ulrica (una melodia che sembra – certo casualmente - evocare la wagneriana Elsa) viene riesposto (in RE maggiore) dal flauto e poi dagli archi, nel Preludio all’Atto II, nel momento in cui la donna si inginocchia e prega, subito prima di entrare nel campo dei patiboli:

Ma il nesso più sottile e quasi rabbrividente, perché non esplicito ma sotterraneo, è quello che collega il tema dell’aria di Riccardo È scherzo od è follia siffatta profezia a quello della mazurka (o walzer, o menuetto che dir si voglia) intonata dall’orchestrina d’archi dietro le quinte nel finale dell’opera, e che farà da sfondo alla tragica fine del protagonista, fine precisamente predetta dalla profezia di Ulrica, così allegramente irrisa da Riccardo:


Solo con Freud (che ai tempi però era un bambinello) si potrà spiegare la valenza di quel legame, così subdolo, fra i ritmi dei due motivi.
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Prestazione complessivamente più che discreta sul piano musicale.

A Gregory Kunde va riconosciuta una grandissima professionalità e un mestiere senza pari. La voce è quella che è, ma il modo con cui il tenore americano affronta la parte è davvero lodevole, e così il pubblico lo gratifica di un autentico trionfo.

Oksana Dyka conferma di possedere una grande voce, proprio a livello di dote naturale. Mutuando un linguaggio da Formula-1 si potrebbe dire che ha il problema di mettere-a-terra-i-cavalli del suo motore. In sostanza: espressione e portamento sono ancora da migliorare parecchio (dovrebbe prender lezioni da Kunde, smile!)

Gabriele Viviani è un Renato passabile: anche per lui limiti nell’espressione, più che nel suono; un po' contratto nell'aria di esordio, onesto il suo Eri tu, ormai assurto a forca caudina per ogni baritono.

Una bella sorpresa è l’Oscar di Serena Gamberoni: voce più corposa di quelle sottilissime che spesso si sentono in questo ruolo, ma in compenso bella e passante, perfettamente emergente anche nel bailamme del concertati. Poi ci mette anche le atletiche giravolte e così si garantisce il trionfo.  

Anche Marianne Cornetti mette tutto il suo mestiere per offrirci una discreta Ulrica, con qualche problema – mi è parso – nella fascia bassa dei suoi, piuttosto forzati.

Antonio Barbagallo e Gabriele Sagona sono due degni Sam&Tom, come Marco Camastra nei panni di Silvano. Oneste le prestazioni del Giudice Luca Casalin e del messo di Amelia, Dario Prola.

Sui suoi alti standard la prestazione del coro di Claudio Fenoglio. Renato Palumbo forza forse un po’ il volume in alcuni momenti, ma complessivamente manovra abbastanza correttamente quello strumento di alto livello che è oggi l’Orchestra del Regio.

Tutto sommato uno spettacolo godibile, che il folto (non foltissimo) pubblico del Regio ha mostrato di apprezzare assai.  

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