Béla Bartók è protagonista al Maggio
fiorentino con due diverse opere
teatrali: un balletto-pantomima e un dramma. Purtroppo la prima di giovedi scorso è saltata, causa lavori alle strutture del
teatro, e così l’esordio è avvenuto ieri pomeriggio, in un Comunale per la
verità afflitto da troppi vuoti (il che rinfocolerà le polemiche fra chi
apprezza queste proposte e chi vorrebbe solo trilogie popolari, per far cassetta).
Ma il contrattempo più
grave si era verificato mesi fa, quando purtroppo quello che doveva essere il
grande protagonista dell’evento, Seiji
Ozawa, aveva annunciato la propria rinuncia per serie ragioni di salute; ed
anche il suo (quasi) naturale sostituto, Peter Eötvös, non ha potuto farcela.
Così la direzione è affidata al 44enne Zsolt
Hamar, magiaro pure lui,
quindi in qualche modo di casa con Bartók.
La produzione è giapponese (con scene della DGT) opera del Saito Kinen Festival, di cui Ozawa è più che un partner, quasi un padre fondatore, e certo la sua simbiosi con la regìa di Jo Kanamori avrebbe garantito un altissimo livello allo spettacolo, come avvenne lo scorso anno a Matsumoto. Spettacolo che ha comunque riscosso un notevole successo.
La produzione è giapponese (con scene della DGT) opera del Saito Kinen Festival, di cui Ozawa è più che un partner, quasi un padre fondatore, e certo la sua simbiosi con la regìa di Jo Kanamori avrebbe garantito un altissimo livello allo spettacolo, come avvenne lo scorso anno a Matsumoto. Spettacolo che ha comunque riscosso un notevole successo.
Dapprima viene
presentato Il Mandarino miracoloso (o meraviglioso, come si usa più spesso titolare) in
forma integrale e con le coreografie di Kanamori e i complessi Noism Dance Company e MaggioDanza.
Coreografie assai intelligenti, con i mimi a impersonare l’ambiente (a cominciare dall’iniziale caos del traffico) in cui si muovono i 5 personaggi principali (i tre malfattori, qui individuati nel padre e madre adottivi della ballerina Mimì, e la di lei cognata; e appunto Mimì e il Mandarino) e i 2 secondari (i primi avventori della ragazza, che qui sono a ruoli modificati rispetto all’originale, dove lo squattrinato è il primo e non il secondo). Il Mandarino ha incollato alle spalle una specie di ombra, che in realtà lo pilota continuamente nei movimenti, evidentemente rappresentando tutto il complesso di vincoli materiali, venali e prosaici cui il nostro soggiace. E di cui si libererà solo alla fine, dopo aver provato almeno per una volta un poco di amore e prima di… tirare le cuoia.
Coreografie assai intelligenti, con i mimi a impersonare l’ambiente (a cominciare dall’iniziale caos del traffico) in cui si muovono i 5 personaggi principali (i tre malfattori, qui individuati nel padre e madre adottivi della ballerina Mimì, e la di lei cognata; e appunto Mimì e il Mandarino) e i 2 secondari (i primi avventori della ragazza, che qui sono a ruoli modificati rispetto all’originale, dove lo squattrinato è il primo e non il secondo). Il Mandarino ha incollato alle spalle una specie di ombra, che in realtà lo pilota continuamente nei movimenti, evidentemente rappresentando tutto il complesso di vincoli materiali, venali e prosaici cui il nostro soggiace. E di cui si libererà solo alla fine, dopo aver provato almeno per una volta un poco di amore e prima di… tirare le cuoia.
Ottima prova di Hamar
e dell’orchestra (clarinetto, manco a dirlo, in testa!) e breve ma efficace
intervento del coro femminile, a
sottolineare la
luminescente trasformazione finale del Mandarino.
Calorosa
l’accoglienza per tutta la troupe, in particolare per Sawako Iseki (Mimì) e il Mandarino Satoshi Nagakawa.
Poi il pezzo forte del
programma, Il castello del duca Barbablu
(in magiaro sarebbe Kékszakállú, nome
che a noi pare più che altro uno sfottò piuttosto volgare, smile!) Il
Maggio fu il primo teatro italiano ad ospitare l’opera, nel lontano 1938, a 20
anni dalla prima, e dopo un lungo periodo in cui l’opera rimase ineseguita a
causa delle proibizioni del governo militare di Miklós Horthy a citare
sulle locandine il nome del librettista Balázs (di
orientamento comunista) il che convinse Bartók a ritirare l’opera per parecchi anni.
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Opera di chiara
ascendenza al simbolismo francese, che riprende molto liberamente il libretto
di Maeterlinck per Ariane et Barbe-bleue di Dukas. Nel quale, contrariamente alla
tradizione consolidata da Perrault
(dove le 7 mogli perdono fisicamente
la testa per il protagonista) il finale è quasi lieto, con Ariane che se ne va
incolume, e Barbablu cui viene risparmiata la vita, e così continua a starsene
con le altre 5 mogli che lo accudiscono amorevolmente… come brave schiave (!)
Anche Béla Balázs
non fa morire fisicamente nessuno (per lui le mogli precedenti sono 3) ma la sua è una storia dalle mille
implicazioni: psicologiche, sessuali, filosofiche, antropologiche (per citarne
solo alcune). Già il Prologo (recitato da un menestrello)
pone questioni da nulla, del tipo: dov’è
la scena, dentro o fuori? (pare un soggetto creato apposta per Robert Carsen…
smile!, ma lui non l’ha ancora
abbordato, credo.)
La prima cosa certa che
si evince dal libretto di Balázs è che è stata
Judit a cercare Barbablu e non viceversa (!): cosa non proprio scontata, dati
i… precedenti. Le prime parole che i due si scambiano in scena sono continue e
insistite domande che l’uomo fa alla donna, per sincerarsi della sua
persistente volontà di seguirlo, a dispetto del fatto che il suo castello è una
ciofeca, a confronto con quello del padre di lei, e che i di lei familiari non
l’hanno presa per niente bene, la sua fuga con lui; alle cui domande lei sempre
risponde con la massima sicurezza, rivelandoci addirittura di aver lasciato,
oltre alla famiglia, pure il promesso sposo, pur di seguire il duca fin lì. E
ben sapendo (o sospettando) che il duca medesimo abbia parecchie e turpi cose
da nascondere!
Allora, come la
mettiamo qui? È Judit una pazzoide, così morbosamente attratta da un uomo, da
affrontare una prospettiva terribile, compiendo un gesto a dir poco temerario, e
ficcandosi di proposito nella tana-del-lupo?
O una stupidella mossa da pura curiosità, che sta giocando, senza saperlo, col
fuoco? O più probabilmente una donna affetta da complesso di redenzione-del-peccatore, che si è messa
in testa di portare il fedifrago sulla retta via? In effetti alcune sue
esternazioni ce lo fanno pensare, ad esempio quando, a precisa domanda di
Barbablu (Perché sei venuta?) lei
risponde che è lì per aiutarlo a
riscaldare il suo castello con le sue labbra e il suo corpo (qui il
simbolismo sconfina peraltro dall’erotismo nella pornografia, smile!) Quindi: una ninfomane sado-maso
amante del rischio? Mah… forse tutte le cose insieme.
E lui, il duca, che tipo
sarebbe? Uno di quelli che non-devono-chiedere-mai,
perché per le donne sono come il miele – o la m… - per le mosche? Oppure un
inguaribile narcisista sognatore e perennemente insoddisfatto, che ha bisogno
di sempre nuove sensazioni estetico-sessuali (mattino-pomeriggio-sera-notte,
come per le previsioni del tempo, smile!)
per soddisfare il proprio io? (Dopodichè,
invece di limitarsi a metterle-in-lista,
come fa DonGiovanni, lui le donne le rinchiude in cantina…) E questo morboso
vivere nell’oscurità, proprio à la
Tristan, rappresenta forse lo stereotipo del cinico nichilista, che cerca
quasi inconsciamente qualcuno(a) che lo salvi, ma sa benissimo che
inevitabilmente dovrà tornare all’apeiron?
(Finisce con le parole e ora sarà sempre
notte… notte… notte.) O incarna per caso il simbolo di tutta la mascolinità
universale e delle relative malefatte, dalla tortura alla guerra, alla
conquista di sontuose dimore e di sconfinati possedimenti, tutti traguardi
raggiunti più che altro spargendo sangue e facendo riempire laghi di lacrime? O
ancora: è forse il duca l’espressione esteriore dell’io profondo, che rifiuta ogni contatto con l’esterno e chiude tutte
le sue porte di accesso (Perché
nessuno penetri qui con lo sguardo)? Ma allora perché,
apparentemente riluttando e pur avvertendo per sé e per la donna un pericolo,
consegna a Judit, una dopo l’altra, tutte le chiavi delle sue più segrete
profondità?
O forse il
protagonista-simbolo è proprio il
castello (pare che Balázs ci avesse
pensato seriamente…): che piange, sospira, sanguina
e trema alla presenza degli umani? E le sue sale segrete, non possono essere i repository della conoscenza? Di segreti
arcani, misteriosi, spaventosi e… pericolosi
per l’Uomo che vi si avventura? (Perché mai Barbablu, a Judit che apre le prime
due porte, chiede: che cosa vedi, che cosa vedi?)
Insomma, un soggetto dai cento volti e dalle mille possibili interpretazioni.
Insomma, un soggetto dai cento volti e dalle mille possibili interpretazioni.
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Quanto alla parte
musicale, l’opera ha una struttura fortemente simmetrica, che peraltro rispetta
la simmetria testuale/scenografica.
Ciascuna
delle 9 scene principali (l’Introduzione, la Presentazione e le 7 porte) ha a
sua volta una struttura in tre sezioni (nell’Epilogo sono due) come qui sotto
schematizzato:
Questo specchietto invece
illustra schematicamente l’impiego delle tonalità nelle diverse scene, anche in
corrispondenza dei colori prevalenti
di ciascuna:
Macroscopicamente si
percorre un arco che parte dalla tonalità di FA# (nel buio pesto) e dopo essere
passato per il RE e il MIb di tesori e giardini, raggiunge il culmine (porta 5,
il meraviglioso regno di Barbablu, nella luce più piena) sul DO, a distanza
quindi di un tritono (l’antipodo nel circolo delle quinte) dal punto di
partenza, per poi tornare al buio del FA# conclusivo.
Non ci sono propriamente temi assimilabili a Leit-motive di buona memoria wagneriana, ma alcuni motivi si
distinguono perché ricorrono spesso, come ad esempio il richiamo al
protagonista, fatto da Judit, che si presenta talvolta così:
Oppure
quello che si riferisce al sangue (ma anche alle lacrime) iniziante con due
note a distanza di un semitono, che si ode proprio all’inizio, ma poi torna
sotto diverse forme:
Straordinario il DO
maggiore che caratterizza l’apertura della quinta porta, mostrando
l’abbagliante – e allo stesso tempo retorica e tronfia - bellezza del panorama
che da lì si gode:
Nel canto di Barbablu che
segue, par di sentire Froh che presenta
il Walhall agli dèi, nel finale del Rheingold (!) mentre Judit (praticamente
parlando, proprio senza alcun accompagnamento) con un contrasto tremendo commenta
attonita la vista mozzafiato con due frasi fatte di otto crome, tutte bemollizzate!
Struggente e piena di
cupi presagi l’implorazione di Barbablu a Judit (amami, e nulla chiedimi) poco prima dell’apertura
dell’ultima porta:
Ma tutta l’opera è
un’autentica miniera di idee musicali, assolutamente appropriate ad evocare in
modo straordinario le diverse atmosfere che si presentano all’apertura delle
porte, e i sentimenti che scatenano nell’animo dei protagonisti.
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Bene, come ci è stata
proposta qui al Maggio?
L’allestimento nipponico è di assoluto livello,
coniugando un approccio moderno (scenografia essenziale e intervento di mimi)
con il totale rispetto di libretto e partitura, a volte persino troppo
didascalico, come negli abiti dei due protagonisti: palandrana scura (come la
notte) per lui, che poi se la sfila alla porta 5, restando in… pigiama tutto bianco,
per poi rimettersela dopo la porta 6, passata l’euforia; vestito candido per
lei (la luce) che però alla fine viene ricoperta da un mantello scuro (chè è
destinata pure lei a finire nell’eterna notte di una cantina). Judit ha anche
un’anima (impersonata dalla
bravissima Sawako Iseki) che appare
in momenti topici del dramma, proprio quando la ragazza è più sottoposta a stress. Così come mimi nero-vestiti
rappresentano le ombre del duca in prossimità delle varie porte.
I contenuti delle stanze o non si vedono (già la
musica li evoca mirabilmente!) o sono rappresentati da mimi. Fa eccezione l’ultima
porta, dalla quale escono temporaneamente le tre mogli del duca, ma tutte, così
come poi Judit (la quarta) fermamente pilotate nei loro movimenti da grigie
presenze, che le rendono prigioniere dell’oscurità.
Matthias Goerne è stato un efficace Barbablu; personalmente
preferirei un baritono puro, con voce più chiara, rispetto a quella piuttosto…
ehm, cavernosa di Goerne. Ma immagino
che oggigiorno di cantanti che abbiano così bene in repertorio questo
personaggio non ne esistano a bizzeffe.
Ottima mi è parsa la Daveda Karanas, forse un poco deboluccia nelle
note basse, ma dotata di personalità e di buon timbro, oltre che sicura negli
acuti, incluso il DO della porta 5.
Andras Palerdi ha interpretato efficacemente il menestrello che
presenta l’opera. Brevissimi tutti i mimi-danzatori italo-nipponici.
Anche qui una piacevole sorpresa è venuta da Zsolt Hamar, che ha mostrato di tenere
in pugno la difficile partitura con grande autorità, sia sull’orchestra, che
negli attacchi ai cantanti. Orchestra che ha risposto assai bene in tutte le
sezioni, inclusi i sei ottoni (3 trombe e 3 tromboni, in luogo dei 4+4
prescritti) e le due arpe, dislocati su palchetti di platea.
Alla fine lunghi e meritati applausi e ripetute
chiamate per tutta la compagnia. Peggio per chi ha disertato!
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