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29 ottobre, 2024

Das Rheingold alla Scala.

Ieri sera alla Scala è andata in scena l’opera che contemporaneamente chiude la stagione 23-24 e apre una stagione virtuale, dedicata al Ring wagneriano, che si chiuderà a marzo 2026. Prima di allora i quattro drammi verranno rappresentati in solitaria: dopo il Rheingold di oggi, Walküre e Siegfried nella stagione entrante e Götterdämmerung a ridosso dei due cicli completi.

Abbiamo quindi vissuto la Vigilia, la cui preparazione è stata caratterizzata da uno degli incidenti che purtroppo accadono spesso nell’ambiente teatrale: il default improvviso (e improvvido?) del Direttore designato (Thielemann) che la Scala ha dovuto rimpiazzare con ben due sostituti (battutaccia: che valgono ciascuno la metà dello schizzinoso Christian?)

Ma insomma, la Young ieri non ha poi demeritato. Del resto quest’estate ha diretto l’intero Ring a Bayreuth ed è già ingaggiata (sempre in coppia con Soddy) anche per le prime due giornate del ciclo scaligero, previste nella prossima primavera.

Orchestra in discreta forma ma con qualche defaillance: l’attacco degli otto corni – di per sé sempre problematico – non è stato proprio entusiasmante (un informe ribollire) e anche le tubette hanno avuto qualche problema nella prima esposizione del Walhall. Da mettere a punto anche il grandioso finale.

Cast vocale bene assortito, con molti interpreti che in Wagner sono di casa.

A partire dai tre che hanno contribuito al recente successo dei Gurre Lieder: Michael Volle, un Wotan all’altezza del ruolo: gli anni si fanno sentire, ma i suoi problemi sembrano più di… deambulazione che non di voce, sempre rotonda, ben impostata e proiettata. Poi il Loge di Norbert Ernst, voce acuta e penetrante, come si addice al guizzante consigliere del re. E poi la convincente Fricka di Okka von der Damerau, la moglie volta a volta preoccupata, petulante, ansiosa, felice e pure un po’… ipocrita.

Degli altri, da promuovere il gineceo: la Freia di Olga Bezsmertna, la Erda di Christa Mayer (qui la parte è ristretta, anche se drammaturgicamente fondamentale, sarà ben più impegnata in Siegfried…) e le tre ondine in blocco (Virginie Verrez, Flosshilde, Svetlina Stoyanova, Wellgunde e Andrea Carroll, Woglinde) un po’ penalizzate dal regista nell’esternazione finale, che arrivava da dietro le quinte.

Così-così gli altri maschietti: Ólafur Sigurdarson è un Alberich piuttosto caricaturale, mentre dovrebbe far emergere la grandezza (pure in negativo) del ruolo. Così ho udito qualche dissenso per lui alla fine. Caricatura che invece si addice al Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke. I due giganti (Fasolt, Jongmin Park e Fafner, Ain Anger) nella onesta routine (forse i… trampoli li hanno messi in difficoltà…).

I due dèi residuali, Froh (Siyabonga Maqungo) e Donner (Andrè Schuen) meritano pure una larga sufficienza, in particolare il secondo, voce ben impostata e passante; un po’ meno il primo, non proprio brillante e poco penetrante nei suoi interventi (un Wie liebliche Luft piuttosto anonimo).
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Vengo a David McVicar. Dalla sua intervista con Mellace poco si era capito del suo Konzept e in effetti è difficile afferrarne (ammesso ci sia) un profondo significato. Mi pare che il regista albionico abbia furbescamente cercato di evitare sia l’attualizzazione del dramma ai giorni nostri, sia la sua pedestre rappresentazione letterale, optando per un’ambientazione astratta da spazio e tempo, supportata da scene spoglie (scimmiottando Wieland?) e da costumi abbastanza strampalati (lunghi e larghi variopinti vestaglioni, al posto dei cappottoni DDR). Il che potrebbe essere condivisibile, ma qui il regista ha un po’ troppo ecceduto in sovrastrutture francamente eccessive, caricando lo spettacolo di troppi aspetti da… avanspettacolo, magari realizzati con intelligenza e raffinatezza.

Sul sipario che separa le quattro scene compare un gran cerchio dentro il quale campeggia una mano: che significa? La mano che accoglie – su un dito - l’anello? O la mano di chi vuol mettere le mani sull’anello? Nella prima scena di manone ne vediamo tre (quante le Figlie?): due destre e una sinistra (?) adagiate sul fondo (del Reno). Poi vediamo una manina protendersi in alto allorchè l’Oro, un danzatore, emerge dal pavimento con il capo coperto da un cappuccio dorato (che gli verrà strappato da Alberich) per poi tornare alla fine ai piedi dello scalone che porta al Walhall (?castello comprato con l’oro?) Poi, ciascuno dei due giganti, che camminano su trampoli (perché, appunto, sono giganti!) ha due manone enormi (come no!) Insomma, simboli di dubbia interpretazione.

Giù a Nibelheim campeggia un enorme teschio dorato, che si apre in due alla bisogna, e qui Alberich fa le sue tre magìe, indossando il Tarnhelm costituito da una maglia metallica (questa idea viene direttamente dalle saghe nordiche): efficace la prima, quando il nano scompare in un paff! con esplosione di lapilli; più banale il secondo (lo scheletro di un serpentone che si protende verso il proscenio e poi se ne torna via); fuori luogo il terzo, dove il rospetto è rimpiazzato da uno… scheletrino che se ne vola via mentre Wotan immobilizza Alberich, rimastosene sempre lì.

La scena della consegna dell’oro ai giganti è reinventata dal regista, facendo accucciare Freia all’interno di una enorme maschera, composta da pezzi del bottino, poi disfatta dai giganti quando Wotan rifiuta di consegnare l’anello. Forse ricorda (a rovescio) quanto narrato nelle saghe, dove il tesoro deve riempire completamente la carcassa di una lontra ammazzata da Loge…

Altra idea portante della messinscena: figuranti/danzatori che accompagnano alcuni personaggi e dei quali dispongono: l’Oro, come detto; poi i giganti (anche perché dai trampoli faticherebbero a interagire con oggetti/persone che stanno due metri al di sotto…); e soprattutto Loge, che è sempre accompagnato (alle terga) da due figure che ne imitano gli spiritati gesti, quando il dio del fuoco espone i suoi pretenziosi e filosofici racconti e concetti.

Insomma, tante idee che forse mascherano l’assenza di un’idea! E dal secondo loggione alla fine sono piovuti sonori e reiterati buh al team registico (che non sto a nominare uno per uno)!

Per tutti gli altri, applausi più o meno convinti e qualche bravo! In tutto sì e no cinque minuti.

Quindi, che dire? Un inizio così-così (c’è l’attenuante Thielemann, daccordo…) 

25 luglio, 2024

Bayreuth: un discreto Tristan ha aperto il Festival 2024.

Per quanto posso giudicare dall’ascolto radiofonico, mi sembra che il Festival (ancora?) più famoso nel mondo dell’opera sia partito con il piede giusto. 

Merito principale (secondo me) di Semyon Bychkov, che ha guidato con grande autorità i formidabili complessi orchestrali (e corali, non impegnati allo spasimo in questo dramma) tenendo tempi assai sostenuti, fin dal Preludio, invero grandioso, e poi specialmente nel secondo atto, dove ha chiesto il massimo ai due protagonisti.

La Camilla Nylund è stata un’Isolde dignitosa, anche se non proprio trascendentale, e Andreas Schager – un po’ penalizzato dai tempi del Direttore – ha pagato lo sforzo dell’atto centrale con un paio di LA e SI abbassati di un’ottava nella massacrante scena del delirio all'arrivo di Isolde, nell’atto conclusivo.

Bene la Brangäne di Christa Mayer e più che bene il Marke di Günther Groissböck, come pure Olafur Sigurdarson come Kurwenal.

Oneste le prestazioni di Birger Radde (Melot) e di Matthew Newlin, il giovane marinaio che ha l’impervio compito di rompere oil ghiaccio, cantando oltretutto a cappella

Daniel Jenz (pastorello) e Lawson Anderson (marinaio) hanno completato il cast facendo il loro minimo sindacale.

Applausi (direi condivisibili) per tutti i Musikanten. Invece parecchi buh (che segnalo solo per dovere di cronaca, in assenza di… immagini) per il battesimo registico di Thorleifur Örn Arnarsson.

Con tutti i limiti che comporta il particolare tipo di fruizione, devo dire che le sei ore passate in compagnia di questo capolavoro ti risollevano il morale, ecco.

19 ottobre, 2023

Il Grimes di Carsen-Young trionfa – per pochi intimi - alla Scala

La serata di ieri ha visto l’esordio in una Scala purtroppo spopolata (e andando ulteriormente spopolandosi nei due intervalli) del Peter Grimes di Britten in una nuova produzione affidata al celebrato Robert Carsen e alla direzione musicale della navigata australiana Simone Young.

A mo’ di introduzione a questo commento e per una mia personale interpretazione del soggetto dell’opera rimando a queste mie note scritte ormai parecchi anni fa.

Parto dalla prestazione musicale, che definirei di alto livello sotto tutti gli aspetti. La Young ha saputo cavar fuori da questa difficile ma affascinante partitura tutto il meglio, con una direzione vibrante, senza un attimo di caduta di tensione. Direzione coadiuvata da un’orchestra in gran forma, che ha messo in rilievo tutta la brutalità del rapporto fra la folla (strepitoso qui il Coro di Malazzi) e il diverso (un efficace Brandon Jovanovich, che mi ha ricordato più Vickers che Pears…) Ma anche la varietà di atmosfere create dai sei Interludi, dove protagonista è la Natura, caratterizzati ora da grande lirismo (la calma del mare) o dalle esplosioni dei fenomeni più estremi (burrasche e tempeste).

E poi concertazione fra buca e palcoscenico che non ha avuto sbavature, cogliendo ogni sfumatura delle personalità dei singoli e della cieca propensione all’odio della folla del Borgo. Nicole Car è stata la trionfatrice della serata, una Ellen quasi perfetta nei suoi slanci di comprensione (e di amore?) per il bistrattato e complessato Peter e nei suoi rimproveri al popolo per i suoi pregiudizi e per la sua assurda sete di giustizia (o di vendetta). Memorabili i suoi accorati appelli alla ragionevolezza (Peter); le sue amorevoli cure per il piccolo apprendista; la sua delusione e frustrazione per il precipitare delle cose verso il baratro. Il tutto supportato da una voce calda e penetrante, e da una grande espressività nel portamento.

Brandon Jovanovich è stato un Peter di grande spessore, voce da Heldentenor (magari a Britten non sarebbe piaciuta al 100% – stessa sorte capitò a Vickers) e perfetta immedesimazione nel ruolo di questo corpo estraneo in una società ostile. Carsen ne ha accentuato i tratti più crudi persino dell’espressione del viso, illuminandolo dal basso nelle sue esternazioni più drammatiche.        

Il Balstrode di Ólafur Sigurdarson mi ha un pochino deluso (e qui magari anche Carsen ci ha messo lo zampino): per me eccessivamente cinico e persino venale. E così forse il baritono islandese (ma è una battuta per giustificarlo…) ha voluto esagerare anche in qualche sguaiatezza di troppo nel canto.

Assai centrate ed efficaci le figure delle tre donne che animano il Cinghiale: la navigata Auntie di Margaret Plummer e le due (apparentemente?) svampite nipotine (Katrina Galka e Tineke Van Ingelgem).

Peter Fose è un solido Swallow, giudice dall’atteggiamento autoritario nell’iniziale interrogatorio di Peter, ma anche disposto a difenderlo in occasione del sopralluogo alla baracca del pescatore. Leigh Melrose se la cava assai bene come il furbacchione Keene, che fa favori a tutti (dalla Sedley a Peter) pur di cavarci qualche penny… Come lui anche l’Hobson di William Thomas, l’estremista Boles di Michael Colvin e il Reverendo Adams di Benjamin Hulett.

Onesta prestazione, infine, quella di Natascha Petrinsky, la ricca pettegola, prevenuta e ficcanaso Nabob Sedley. I due rappresentanti del Coro, Eleonora De Prez e Ramin Ghazawi da parte loro hanno diligentemente compitato le lillipuziane parti della Fisherwoman e del Fellow Lawyer (due versi a testa in tutto nel second’atto). Così come vanno segnalati gli altri nove coristi impegnati in piccole parti che emergono dalla folla indistinta.  
Insomma, un cast bene assortito e benissimo supportato dalla buca e dal Coro.
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Carsen ha messo in opera una delle sue migliori regìe: innanzitutto per l’assoluta fedeltà alla lettera (oltre che allo spirito) del testo, sia nella rappresentazione dell’atmosfera generale del soggetto, che nella resa di ogni singolo dettaglio dello stesso. Il suo drammaturgo Ian Burton a sua volta non ha proprio inventato nulla di strano

La scena di Gideon Davey (responsabile anche dei costumi, un poco attualizzati, ma non troppo…) è assai scarna, con una macrostruttura praticamente fissa, che viene poi arricchita di volta in volta da poche suppellettili. Una passerella sopraelevata ne circonda tre dei quattro lati, per accogliere gruppi o singoli personaggi.

Come sempre efficacissime le luci (di Carsen che ne è maestro, coadiuvato qui da Peter vanPraet): addirittura sfacciata la fiaccolata finale con torce abbaglianti puntate verso la sala! Will Duke ha predisposto alcuni video, prevalentemente centrati sul volto straniato di Peter, o su qualche passaggio di nuvole o vaghi riferimenti marini.

Una particolare curiosità riguarda il trattamento dei sei Interludi che costellano l’opera (due per atto). Britten li vorrebbe suonati a sipario chiuso (ci sono dei cambi-scena…) ma Carsen ci mette del suo per animarli. Così Il primo (Alba) che, senza soluzione di continuità con il Prologo, deve introdurre la vita di un nuovo giorno al Borgo, è genialmente supportato da una folla di pescatori e donne che occupano la passerella sospesa, tutti indaffarati a rammendare o sistemare reti da pesca. Il secondo (Tempesta) a metà del primo atto, viene invece animato da coreografie (di Rebecca Howell) che evocano il terrore per la burrasca imminente e poi ci mostrano il cambio-scena fra l’esterno e l’interno del Cinghiale. Il terzo Interludio (Domenica mattina) compare all’inizio dell’atto secondo, dopo l‘intervallo, che già ha consentito di predisporre il cambio di scena (siamo di nuovo all’aperto). Ecco, qui forse Carsen ha voluto strafare (cambierà idea all’inizio dell’atto terzo…) e ci mostra un’appendice del cambio scena, con spostamento di panchine ed altre attività assai prosaiche. Il quarto Interludio (Passacaglia) copre il passaggio dall’esterno all’interno della dimora di Peter. Qui Carsen ci mostra questa trasformazione facendo intervenire pescatori che trainano funi e spostano in avanti la parete di fondo, per creare l’angusto spazio del rifugio nel quale arriveranno Peter e il suo nuovo garzone. All’inizio del terz’atto (il cambio-scena è avvenuto nell’intervallo) l’Interludio (Chiaro di luna) viene invece eseguito (e direi proprio correttamente) a sipario chiuso. L’ultimo Interludio (la nebbia) è assai breve e segue l’assurda caccia che la folla (aizzata dalla Sedley) ha cominciato a dare a Peter, che si vede comparire (accompagnato poi da voci lontane e dal sordo suono della sirena) per dare sfogo a tutta la sua disperazione.  

La scena finale, anziché nella piazza del Borgo, ci riporta al Prologo, e vi vediamo Peter che giura sulla Bibbia, proprio come all’inizio. Qui certo siamo lontani dal libretto originale, ma (forse) Carsen ci vuol dire che, morto un Grimes, se ne fa un altro… (?)
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Successo pieno e applausi per tutti, incondizionatamente. Peggio per chi non c’era… ma ci sono ancora cinque possibilità di riscatto.