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07 febbraio, 2020

Il Trovatore del lettone


Ovviamente da leggersi lèttone! Ieri il Trovatore museale ha avuto il suo battesimo in un Piermarini abbastanza affollato e pure... cattivello. Che fa rima con... Trovatello (!?!) Ma andiamo con ordine, cominciando con la compagnia di canto.

Il protagonista Francesco Meli è stato il vincitore (non trionfatore, chè nessuno ha trionfato) della serata. Lui ormai garantisce un livello sempre assai alto di prestazione, grazie alla sua professionalità e alla sua preparazione. Date le sue caratteristiche... somatiche (parlo della voce, ovviamente) oserei quasi dire un’apparente bestemmia, cioè che lui sia forse il più verdiano dei Manrichi, nel senso che non si adegua (non ne avrebbe le risorse naturali) ai tenori di tradizione, quelli di approccio eroico e dal do-di-petto facile, che non è detto fossero proprio l’ideale del compositore. Però, per coerenza, consiglierei a Meli di ignorare quanto quei tenori di tradizione hanno inventato, ad esempio eseguendo la Pira senza gli acuti apocrifi (tanto più se sono SI e non DO). Prova ne sia che il suo Ah sì, ben mio è stato accolto con grandissimo calore, mentre il successivo All’armi ha suscitato non poche perplessità.

Liudmyla Monastyrska ha dignitosamente impersonato Leonora, mostrando in particolare grandi doti di portamento e di nobiltà nel canto a fior di labbra (apprezzatissimo il suo D’amor sull’ali rosee) mentre gli acuti a piena voce mostrano purtroppo qualche stimbratura e i centri non sono propriamente al meglio. Tuttavia il pubblico, cui mi associo in pieno, l’ha gratificata di un buon successo.

Il terzo vertice del triangolo (Massimo Cavalletti come Luna) è il vertice di un triangolo con la base in alto (!) Cioè l’unico (fra gli addetti ai suoni) a ricevere robusti buh all’uscita finale. E in effetti lui troppo spesso più che cantare vocifera, e ciò non si può giustificare col fatto che il personaggio da interpretare sia il cattivo di turno, chè anzi il cattivo - nell’opera lirica - è tanto più apprezzato quanto meglio canta (vedi Iago, Alberich, Mefistofele e compagnia).

Fuori dal triangolo (amanti vs rompipalle) c’è il personaggio più robusto, anche musicalmente, dell’opera: la sbifida Azucena. Violeta Urmana la canta da una vita e anche solo per questo fa sempre un figurone. Certo, oggi anche per lei gli anni (quasi 60) cominciano a pesare, ma insomma... avercene.

Chi mi ha fatto ottima impressione è Gianluca Buratto, un Ferrando autorevole e sicuro (non fosse altro che per la responsabilità che si ritrova a dover rompere il ghiaccio). Ampia sufficienza per gli accademici Caterina Piva (Ines), Taras Pryziashniuk (Ruiz) e Giorgi Lomiseli (Zingaro) e per l’ex-accademico Hun Kim (messaggero).

Mario Casoni ha come sempre garantito una prestazione di buon livello del coro, che peraltro in un paio di frangenti mi è parso in... asincronia con Luisotti, chissà per colpa di chi.

Ed ecco appunto il Direttore. Ho colto alcuni chiari mugugni dal loggione, dopo il primo atto, che non erano immeritati, ma allora perchè poi perdonarlo alla fine? Visto che (mi pare) nei tre atti successivi non ha fatto ne’ peggio nè meglio. La sua è una direzione che definirei approssimativa, con qualche eccesso di fracasso gratuito, più di una gigionata sui tempi e con più di uno scollamento con il palcoscenico, anche se non arriverei a parlare di disastro. L’Orchestra ha evidentemente seguito (ed eseguito...) l’approssimazione del Kapellmeister. Di solito sono cose che succedono se si ha provato poco, chissà se nelle prossime recite le cose andranno meglio.
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Disfatta clamorosa invece per il team di Alvis Hermanis, letteralmente subissato di improperi all’uscita finale. Devo dire che non mi sono associato agli improperanti, per un paio di ragioni.

La prima è che al legista lettone va dato atto di non aver inventato le solite stupidaggini, tipo ambientare la vicenda fra cosche mafiose o bande di ragazzacci del Bronx, nè di proporre strindberghiane crisi della società borghese: la sua trovata di far raccontare la storia ad addetti di un museo in cui ambientarla sarà certo della serie famola strana, ma appunto fa pochi danni.

Fa colpo l’impiego, in scene e costumi, di 100 varietà di rosso, che forse vogliono tradurre cromaticamente il concetto che il Trovatore è un’opera di morti. Quanto ai dipinti della pinacoteca, mi è parso di cogliere che ad Aliaferia e al chiostro siano a soggetto religioso, mentre a Castellor sono a soggetto laico: non so se per il regista sia questo un modo per distinguere le due forme di società che si contrappongono nell’opera. Alla fine i quadri di Castellor vengono accatastati per esser dati alle fiamme (altra vampa) ad Aliaferia, ma poi anche quelli di Aliaferia spariscono (sempre per via di... tutti morti?)

La seconda ragione di non-dissenso è la recitazione dei personaggi e la gestione dei movimenti delle masse: sui quali aspetti della regìa non solo non mi sentirei proprio di infierire, ma al contrario spenderei qualche meritato apprezzamento.

Il definitiva, una proposta accettabile della quale casomai mi vien da sospettare l’efficacia del cosiddetto price/performance, che temo (visto che paga pantalone) sia purtroppo esorbitante.

02 febbraio, 2020

Il Trovatore al museo della Scala


Arriverà fra poco a Milano da Salzburg (per disinteressata intercessione di Alex Pereira) il Trovatore reinventato nel 2014 dal visionario Alvis Hermanis (di lui qui al Piermarini ricordo un cervellotico Soldaten del 2015, un passabile Foscari e una discreta Butterfly del 2016) che ci porterà a visitare un museo milanese, che evidentemente impersona con grande fedeltà la Spagna di fine 1300 - inizio 1400 (evabbè...)

In attesa... qualche cazzeggio, visto che sull’opera si è scritto di tutto e di più. Segnalo quindi un paio di curiosità, cominciando dal libretto. Come si sa, Salvadore Cammarano lo scrisse ispirandosi all’omonimo dramma in versi in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez. Protagonisti sono due uomini (il Conte di Luna e Manrico) che fino alla fine non sanno di essere fratelli e sono innamorati della stessa donna (Leonora).

Ora, il ferreo capitolato tecnico del melodramma ottocentesco prescrive la presenza in scena di un triangolo di voci: soprano, tenore e baritono (altre tessiture ad-libitum se proprio si vuol esagerare). Il soprano e il tenore sono invariabilmente e reciprocamente e pure perdutamente innamorati. Il baritono è anche lui perdutamente innamorato (di solito del... soprano!) e fa quindi la figura del guastafeste e dello stalker.

Perchè il dramma stia in piedi è preferibile che il baritono sia persona di potere (altrimenti verrebbe facilmente snobbato) mentre il tenore è di solito un tipo di origini modeste ma di grandi qualità, in modo che il pubblico fin da subito parteggi per lui contro il baritono. Il soprano sarà tipicamente una dolce e integerrima signorina, pronta ad ogni sacrificio, anche della vita, per difendere il suo tenore e difendersi dal baritono.  

E così il libretto di Cammarano ci presenta il baritono nei panni del Conte di Luna, ricco, potente e... prepotente; e il tenore in quelli di Manrico (suo fratello a loro insaputa) un tipo squattrinato, sedicente figlio di una zingara, ma anche idealista, che sbarca il lunario mescolandosi a bande di rivoluzionari e dedicandosi ad attività canore. Il tenore mostra anche grande magnanimità, allorchè (consigliato da una specie di sesto-senso) risparmia la vita al baritono, ormai vinto in duello; mentre il suddetto baritono non esita in cambio a ferire il tenore, nella successiva battaglia. La sua protervia si manifesta poi nel modo con cui tratta il soprano: subito prima di cantarne le lodi in una grande aria (quella del... dardo, haha!) lui ha mostrato di considerarla una donna-oggetto, una cosa di sua proprietà (Leonora è mia!)

Le considerazioni fatte, insieme alla constatazione che (si scoprirà definitivamente alla fine) baritono e tenore sono fratelli, portano necessariamente a stabilire che il baritono sia (poco o tanto) più anziano del fratello tenore. E infatti Ferrando racconta, proprio all’inizio dell’opera, le vicende dei due fratelli ed esclama: fida nutrice del SECONDO nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli.

Quindi: tutto a posto... ? Ma allora, dove sta la curiosità cui ho fatto cenno più sopra? Nel fatto che, in Gutiérrez, l’età dei due fratelli è precisamente invertita: è Manrique (Juan) il maggiore, mentre il Conte (Nuño) è più giovane di due anni! Racconta infatti JimenoDon Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Però nell’opera lirica sarà difficile che il baritono sia più giovane del tenore. Lì la tessitura vocale viene regolarmente assegnata in base all’anagrafe: tenore=giovane; baritono=maturo; basso=anziano. Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma imponeva persino di falsificare i certificati di nascita dei protagonisti!

E anche di addolcire un poco certe... ehm, spigolosità del linguaggio di Gutiérrez: nelle ultimissime battute del cui dramma Azucena grida al Conte esterrefatto: él es... tu hermano, imbécil!
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E ora il tormentone della cabaletta più nota e bistrattata di tutto Verdi: la pira! Il tenore la canta in DO o in SI? E ripete o no l’esposizione?

Verdi la struttura così (numero di battute): prima esposizione (38); tempo di mezzo (intervento di Leonora in DO minore, 11); pedestre riesposizione (38); coda con pertichini del coro (38); e chiusura strumentale (8).

La tonalità è DO (maggiore-minore) e la nota più alta toccata (5 volte nell’esposizione) è il LA acuto (!) L’ultima nota reiterata dal tenore è la dominante (un SOL acuto).

Beh, dove sta il problema? Qualunque tenore che si rispetti può farcela, o no? Ma poi è arrivata la tradizione esecutiva di tenori dal DO-di-petto facile che hanno inventato di sana pianta, sul teco almeno della ri-esposizione e sul finale all’armi!, il famigerato DO4 (che Verdi mai esplicitamente autorizzò, limitandosi al massimo a tollerare il secondo...)

Dopodichè a qualcuno fare due volte l’esposizione e due volte un DO4 è parso evidentemente troppo rischioso, e così si è cominciato col tagliare l’intervento di Leonora e la ri-esposizione, spostando il DO4 alla prima.

Ma non è finita qui: la tradizione ha fatalmente imposto le sue ferree regole e il pubblico ha cominciato a pretendere il DO4 da tutti i tenori. Ma allora quei tenori che il DO4 hanno difficoltà a staccarlo, o che forse lo potrebbero staccare, ma non si arrischiano a farlo? Chiunque penserebbe alla soluzione più logica (oltre che filo-logica!): tornare al Verdi d.o.c. che non va oltre il LA. Peccato che un tenore che facesse ciò verrebbe ormai considerato un minus-habens e irriso sulle pubbliche piazze. E così la moda dell’acuto a tutti i costi ha partorito un’ancor più grande ipocrisia: per turlupinare il pubblico-bue e fargli credere a millantati DO di petto, si abbassa tutta la cabaletta di un semitono, portandola al SI! Per curiosità, ecco dove si trova il bivio che porta o al DO o al SI:
Se il tenore, sul fi(-glio) invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema all'orecchio dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa… poi tanto finisce l’atto e chi s’è visto s’è visto!

Chi si vuol divertire (si fa per dire...) può andare su youtube (munito di tastiera, materiale o informatica) e cercare di quella pira... e troverà una quantità industriale di riferimenti, scoprendo ad esempio che tenori (DelMonaco, Pavarotti, Domingo, per far solo alcuni nomi illustri...) da giovani eseguivano i DO e da... maturi abbassavano al SI. O che Bonisolli, Corelli e DiStefano si sparavano i DO a gogò, e così via. Interessante il doppio-Licitra:  a SantAmbrogio 2000 (Muti imperante!) esegue il Verdi originale; poco dopo, alla ROH (con Rizzi) si fa anche i due DO4.

Fra pochi giorni a Milano ci sarà Francesco Meli, cimentatosi da anni nella parte, che sempre (salvo prova contraria) ha cantato la cabaletta in SI: così fece a Salzburg nel 2014 e anche qui alla ROH (ripetendo peraltro l’esposizione). 

Staremo a vedere e - soprattutto - sentire!

19 febbraio, 2014

Un Trovatore… trovatello?

 

No, il titolo non è farina del mio sacco, ma qualcuno lo coniò ai tempi di Muti, ultimo a proporre l’opera in Scala nell’ormai lontano 2000 (ma l’allestimento è proprio quello ripreso oggi).

 

Certo, se era un trovatello quello di Muti con Nucci-Frittoli-Urmana-Licitra (tutti al loro top, ai tempi) allora per quello di oggi si dovrebbe inventare un nomignolo davvero imbarazzante! Invece, dopo la prima semi-burrascosa (a leggere in giro) di sabato scorso, ieri la seconda è passata (come da cliché, che vuole la Scala trasformarsi in MET) non solo senza danni, ma in modo più che positivo. Però in un teatro che purtroppo presentava numerosi vuoti: brutto segno, trattandosi della riproposta dopo anni di uno dei titoli che dovrebbero immancabilmente fare cassetta.

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Come si sa, Salvadore Cammarano scrisse il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez. Protagonisti sono due uomini (il Conte di Luna e Manrico) che fino alla fine non sanno di essere fratelli e sono innamorati della stessa donna (Leonora). Ecco, riguardo i due personaggi il buon librettista si prese una non marginale libertà rispetto all’originale ispanico, come vado a spiegare.


Sappiamo che il Conte fa la parte del cattivone: viene risparmiato da Manrico in un duello rusticano (a proposito di Leonora) e per tutta… riconoscenza più tardi lo ferisce quasi mortalmente in battaglia; poi vuole conquistare Leonora - che non lo ama affatto - a tutti i costi e con tutti i mezzi, proprio come fosse un oggetto (Leonora è mia!) Ergo gli viene affibbiata, secondo i sacri crismi del melodramma, la tessitura vocale di baritono. A Manrico – buono, disinteressato, amorevole e soprattutto… riamato da Leonora (soprano) – tocca ovviamente, secondo gli stereotipi della lirica, la voce di tenore.

Ne consegue che il Conte (laido, protervo e libidinoso) deve apparire anche piuttosto attempato, se non proprio vecchio; Manrico (puro, eroico e idealista) giovine. E infatti il libretto di Cammarano ci conferma che il Conte è il fratello maggiore; infatti Ferrando racconta, proprio all’inizio della prima parte, le vicende dei due fratelli ed esclama: fida nutrice del secondo nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena (mezzosoprano) per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli.

Bene, qual è la libertà che si è preso Cammarano? Semplice: invertire l’età dei due personaggi! In Gutiérrez Manrique è infatti il maggiore, e Nuño (il Conte) è più giovane di due anni. Racconta infatti Jimeno: Don Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma imponeva persino di falsificare i certificati di nascita dei protagonisti!

E anche di addolcire certe …ehm, spigolosità del linguaggio di Gutiérrez: nelle ultimissime battute del cui dramma Azucena grida al Conte: él es... tu hermano, imbécil!  
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Ora vediamo come mi è parsa la recita di ieri.


Maria Agresta si conferma cantante di gran talento: una Leonora convincente, proprio in virtù della sua voce, che non è da soprano drammatico spinto, e quindi è aderente a questo personaggio verdiano, lontano assai dalle Abigaille e consimili. Piccola pecca la scarsa penetrazione (negli ampi spazi scaligeri) del registro basso.   

 

Ekaterina Semenchuk mi è parsa musicalmente un po’ troppo… zingarella (smile!) Nel senso di non avere un chiaro indirizzo di casa, quanto ad approccio interpretativo. Però la voce c’è, e tanta: andrà (se lei lo vorrà e saprà fare) meglio coltivata.

 

Marcelo Álvarez si è difeso con mestiere, distribuendo bene le sue (non esuberanti) energie per arrivare sano e salvo alla fine. (Mi chiedo ancora perché, per le parti da eseguire fuori scena - qui sono due - il cantante venga seppellito chissà dove, cosicchè la voce pare arrivi dall’aldilà…) Quanto alla pira, anche lui ha scelto la soluzione (relativamente) più conservativa: intanto si è scontato la ripetizione, poi non volendo rinunciare a far colpo sul pubblico, con lo sparo della tonica finale (invece di fermarsi, come scrive Verdi, alla più comoda dominante) e nel contempo evitare figuracce (il DO è pur sempre un azzardo…) è prudentemente degradato sul SI, come del resto hanno fatto e fanno spesso anche i tenori più titolati. Per curiosità, ecco dove si trova il bivio che porta o al DO o al SI:

Se il tenore, sul fi-glio, invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema agli orecchi dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa…

Franco Vassallo così e così: chissà, forse per cercare di conquistare Leonora, lui prova a cantare come… Manrico (stra-smile!) Quello che ne esce fuori è un Luna…tico (!)

Chi ha fatto la sua bella figura (ma pochi avevano dubbi, data la caratura del basso coreano) è Kwangchul Youn: un Ferrando assolutamente di alto livello.

Marzia Castellini (Ines) e Massimiliano Chiarolla (Ruiz) bene nelle loro piccole parti. Come sempre onesti comprimari l’immarcescibile Ernesto Panariello e Giuseppe Bellanca.

Il Coro di Casoni in queste opere si trova proprio a casa sua e non si è smentito.

Che dire di Daniele Rustioni? Che non sarà il migliore, ma nemmeno il peggiore del pacchetto di ggiovani che in questi ultimi anni la Scala ha deciso di mandare… allo sbaraglio. Per prudenza, si è portato sul leggìo una seconda bacchetta di scorta (non si sa mai…) Così anche lui – piuttosto contestato, così si racconta, alla prima – ha ricevuto, come tutti, solo applausi e pure qualche bravo!
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Quanto alla messinscena (di Hugo De Ana, a.d. 2000) è di quelle – magari fin troppo - serie e rassicuranti (qualità ai giorni nostri sempre meno reperibili in natura e sempre più vituperate dalle élite che contano).

In definitiva, un trovatello (smile!) non proprio disprezzabile.