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27 aprile, 2023

Pagelle sulla Lucia scaligera targata Oropesa-JDF/Chailly-Kokkos

La quinta (su 8) rappresentazione di Lucia di Lammermoor è andata in scena ieri sera alla Scala, in un teatro ben lungi dall'esaurito.

Tradita la prima per rispetto a… Rachmaninov, ho quindi iniziato l’approccio a questa nuova produzione attraverso lo streaming-on-demand di RaiPlay, che (ancora per pochi giorni, parrebbe) mette la recita del 13 aprile a disposizione del pubblico. (Nel frattempo è comparsa la registrazione anche su youtube, finchè qualcuno non reclamerà…) Come spesso accade, la ripresa televisiva dà assai di più (e non sempre meglio?) di ciò che si vede in teatro, soprattutto grazie alle angolazioni di ripresa e ai primi piani. 

Parto quindi dalla regìa, che in un’opera come questa conta (ad esagerare) per 20 su 100, rispetto alla musica, per dire che Jannis Kokkos ha fatto il minimo sindacale (ma per lui il salario minimo è un filino più alto degli stratosferici 9€ all’ora che tuttora si negano qui da noi…) limitandosi a coprire i personaggi con abiti contemporanei, il che ce li rende però ancor più antipatici e ridicoli, diciamolo francamente: volendo darci un riferimento all’attualità avrebbe potuto ambientare la vicenda fra le bande del Bronx (tipo West Side Story, per dire) visto che il soggetto è una scopiazzatura di Romeo&Juliet (con tanto di alias di Frate Lorenzo…)

E a proposito di scopiazzature, mi viene in mente la grande scalinata di Brockhaus-Svoboda del 2012, nella produzione del circuito lombardo; per il resto, trovate abbastanza bambinesche: animali di cartapesta – incluso un ramicornuto cervo -  assortiti qua e là e improbabili statue da Cimitero Monumentale… Insomma, una regìa inconsistente, che il loggione alla prima aveva disapprovato assai, e a ragione, mentre ieri sera è stato un filino più clemente (o talmente disinteressato, data l’assenza del regista alle uscite finali, da risparmiare anche sui buh…)

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I suoni - ancora una volta, e come sempre, se emessi come si deve! – hanno solo parzialmente rivalutato questa produzione.

Merito al 60% almeno di Direttore, buca e coro, davvero irreprensibili per ricercatezza di tempi, di suono, di sfumature e di pathosIl restante 40% se lo devono dividere i protagonisti, ai quali mi permetto di assegnare il premio di produzione nelle seguenti quote:

10% Lisette Oropesa (Lucia) [voce calda e morbida, acuti pennellati, agilità virtuosistiche, buona recitazione anche se un po’ contratta]

9% Boris Pinkhasovich (Enrico) [bella sorpresa, voce importante, sicura ed efficace presenza scenica]

7% JDF (Edgardo) [queste sue escursioni extra-rossini non (mi) convincono, fatta salva la sua grande professionalità e la voce ancora abbastanza integra; che però al loggione arrivava a malapena (la glassharmonica si sentiva di più!)]

5% Carlo Lepore (Raimondo) [ha fatto il possibile per non far rimpiangere Pertusi]

4% Giorgio Misseri (Normanno) [in proporzione al peso dei ruoli, all’altezza di JDF]

3% Leonardo Cortellazzi (Arturo) [minimo sindacale per lui]

2% Valentina Pluzhnikova (Alisa) [incoraggiamento per l’accademica]

Primo e terzo atto complessivamente discreti, il secondo francamente meno, con la punta di diamante dell’opera (il sestetto) passato via senza emozione.

Alla fine qualche bravo! per Oropesa, Pinkhasovich, Florez, Chailly e coro; applausetti per i restanti. Regista, come detto, non presentatosi. In tutto forse 7-8 minuti, poi tutti a nanna.

In conclusione, che dire? Maliziosamente: dovremmo ringraziare il Covid per averci risparmiato di sorbire questa passabile minestrina come cenone di un SantAmbrogio? 

19 gennaio, 2022

Giulietta&Romeo ante-Shakespeare (?)

La Scala, dopo lo Shakespeare originale, ne mette in scena uno... di là da venire: I Capuleti e i Montecchi di Romani-Bellini infatti poco o nulla ha a che fare con il Bardo di Stratford, ispirandosi invece alla leggenda originale italiana che lo anticipa di un secolo buono. (Sulle origini del testo rinvio ad un mio commento scritto per una produzione bolognese del 2018). E infatti le prime parole che si leggono (a firma di Claudio Toscani) sul programma di sala del Teatro recitano: Dimenticare Shakespeare!

Invece, neanche a farlo apposta e precisamente a smentire la premessa, ecco che il regista Adrian Noble viene proprio dal mondo di Shakespeare (è stato direttore della prestigiosa Royal Shakespeare Company). E infatti già le foto sul sito del teatro lasciavano presagire il... peggio: Pertusi in clergyman! (Del resto anche molte fonti della nostra quotidiana intelligenza ignoranza distribuita presentano il personaggio come Frate Lorenzo...)

Il regista albionico cerca una difficile quadratura del cerchio, sostenendo (come titola il suo intervento sullo stesso programma di sala) che il soggetto sarebbe la stessa storia vista da angolazioni differenti (Shakespeare e Romani, ndr). Il che non giustifica però il presentarla mescolando le due angolazioni! Un esempio, proprio citato dal regista in chiusura del suo intervento, riguarda l’uccisione del fratello di Giulietta da parte di Romeo (che viene mostrata proprio all’inizio): che sarebbe null’altro che uno spiacevole incidente di gioco fra ragazzini, dove si fatica a trovare il vero responsabile. Eh no, caro Adrian, lo rivela lo stesso Romeo che il responsabile è proprio lui: solo che si trattò di una regolare uccisione avvenuta durante un conflitto armato fra due eserciti!

 

Ecco, evidentemente per deformazione professionale (e magari con un pizzico di spocchia british) il regista prova a convincerci di una cosa che è già chiara a tutti coloro che perlomeno conoscono la tragedia di Shakeapeare ed hanno letto non distrattamente il libretto di Romani: la prima supera il secondo di parecchi piedi! Peccato però che tutta l’opera musicata da Bellini si basi sul povero testo di Romani e non su quello ricco del Bardo. E che quindi trasferire parti del secondo sul primo è operazione simile a quella di mescolare lasagne al forno e vellutata al curry in un unico piatto da servire a tavola: ‘na schifezza.

 

Fin dalla scena mostrata alla fine della Sinfonia (quella dove si contrabbanda una scazzottata fra ragazzacci - Shakespeare - per un episodio di guerra in piena regola - Romani) è chiaro come il regista sia schiavo di Shakespeare, che appunto ambienta tutta la vicenda in una faida locale fra bande di bad-boys di buona famiglia, ignorando del tutto l’aspetto squisitamente e prevalentemente politico del testo di Romani, dove la storia di Verona è parte di un quadro assai più grande: le lotte fra Guelfi e Ghibellini come scontri fra le due Istituzioni dominanti nel mondo di allora: il Papato e il Sacro Romano Impero.

 

L’ambito locale e familiare - Shakespeare - viene sottolineato dal regista ad ogni piè sospinto: innanzitutto tramite la ripetuta presenza in scena del cadavere del figlio di Capellio (nel second’atto addirittura di due, uno morto e un secondo... morto che cammina). Ora, se nella prima scena dell’opera la cosa può anche starci, dal momento che Romeo ricorda quel fatto (giustificandolo però con lo scenario bellico in cui esso si verificò) poi diviene francamente stucchevole.

 

Andiamo avanti: l’ambientazione è negli anni ’30 del ‘900 e i costumi (armi automatiche incluse) dei ceffi che si aggirano in scena ricorda cosche mafiose dell’America di Al Capone e Joe Aiello: Guelfi e Ghibellini? Hahaha!

 

Torniamo a Lorenzo: Shakespeare - ed è una geniale intuizione - lo inventa frate, e come tale lo fa agire: super partes, dedito alla difesa di un sincero amore fra due giovani e alla ricerca della composizione del conflitto fra i rappresentanti veronesi dei due partiti politici che si fronteggiano. Come tale possiede anche le credenziali per celebrare matrimoni... segreti. Ora, nel testo di Romani Lorenzo è uno speziale, un medico al servizio della famiglia di Capellio, che prende le parti di Giulietta e cerca di facilitarne il legame amoroso con Romeo. Domanda: perchè mai il regista vuole anche qui chiamare in causa Shakespeare e mostrarci Lorenzo nei panni di un religioso, che in tutta l’opera non ha una sola occasione per esercitare la sua missione? (Salvo farsi il segno della croce di fronte al cadavere del fratello di Giulietta nella prima scena del second’atto!) A parte il fatto che un medico-di-famiglia è cosa del tutto plausibile, mentre assai meno lo è un prete-di-famiglia... a voler credere al regista si dovrebbe pensare che Lorenzo sia un agente ghibellino travestito da prete per meglio infiltrarsi come quinta colonna nel quartier generale dei Guelfi... roba da ridere!

 

Infine, quasi a discolparsi per le sue malefatte, il regista si inventa uno squarcio di attualità politica, ispirandosi al Patria oppressa del risorgimentale Verdi: così ci mostra - in miniatura - una scena simile a quella proposta da Livermore nel recente Macbeth: famiglie di poveri rifugiati bistrattate da militari violenti e spietati. E come colonna sonora, cosa sceglie? La mirabile introduzione (col clarinetto solista) alla seconda scena dell’atto secondo. Peccato però che quella musica celestiale evochi sì uno strazio, ma per nulla pubblico, bensì privatissimo: quello di Romeo che si sente abbandonato da tutti e da tutto!


Ecco, una regìa strampalata quanto pretenziosa, del tutto irrispettosa del soggetto da mettere in scena, che piacerà solo a chi fa di ogni erba un fascio e non distingue fra Romeo&Juliet e I Capuleti e i Montecchi. A giudicare dall’accoglienza indifferente ma non ostile del pubblico all’uscita del team registico, vien da pensare che siano in molti ad ignorare tale differenza.

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Per nostra fortuna i suoni hanno ampiamente riscattato le immagini. 


Dato che il famigerato Covid ha tradito il Kapellmeister titolare Evelino Pidò (che avrei ascoltato volentieri dati i suoi precedenti, come questoè toccato alla quota-rosa Speranza Scappucci di sostituirlo, anticipando di qualche tempo il suo debutto al Piermarini. E al proposito dico che il suo esordio qui mi è parso del tutto positivo, come ha inequivocabilmente sentenziato la trionfale accoglienza del pubblico. Avevo di lei un buon ricordo dal ROF di quasi 6 anni fa, quando lei era ancora - appunto - poco più che una speranza. Che mi sento di dire sia evoluta (ormai è in vista dei... 49 a dispetto della presenza da ragazzina) in piacevole realtà.


Va detto che lei è arrivata a prove già inoltrate e non ha dovuto partire da zero, ma la sua è stata una prestazione davvero convincente: precisione nel gesto e negli attacchi, moderazione nei non pochi fracassi che il pur elegante Bellini non ci risparmia, attenzione a non coprire mai le voci, dettagli di espressione sempre ben curati: un rapporto evidentemente ben avviato con l’Orchestra, che ha risposto al meglio in tutte le sezioni e nelle parti solistiche che impreziosiscono la partitura.

 

Detto della proverbiale compattezza e precisione del Coro di Alberto Malazzi, vengo alle cinque voci protagoniste.

 

Su tutti Lisette Oropesa: il soprano cubanamericano ha ormai raggiunto una sicurezza e continuità di rendimento eccellenti e anche ieri ha sciorinato la sua voce calda e rotonda, negli acuti pieni e in quelli smorzati, oltre ad una grande espressività che ne ha fatto una Giulietta quasi perfetta.


Accanto a lei si è ben portata Marianne Crebassa che ha creato un Romeo duro e autoritario nei momenti di scontro con i Guelfi ma anche tenero e sentimentale negli approcci con Giulietta. Forse la voce, proprio femminile, non è quella che personalmente preferirei per il ruolo (certo non dico ci vorrebbe per forza una voce cavernosa, sia chiaro...) ma non posso che elogiarne la prestazione e la presenza scenica.

 

Jinxu Xiahou (che ha rimpiazzato René Barbera) è stato un Tebaldo più che dignitoso, in una parte non proibitiva (al massimo tocca, se non erro, il SI naturale) che però lui ha reso in maniera apprezzabile: è giovane e avrà modo di crescere ancora.

 

I due bassi Jongmin Park (Capellio) e Michele Pertusi (Lorenzo) hanno dato il loro valido contributo all’insieme. Va da sè che il navigatissimo Pertusi abbia mostrato più sicurezza e controllo della voce rispetto al più giovane Park, a volte troppo schiamazzante.

 

In definitiva, una proposta bifronte, che però (a mio modesto giudizio) ha mostrato il lato-A proprio dove più è importante (del suo lato-B farei sinceramente a meno...)

19 giugno, 2019

Masnadieri alla Scala dopo 41 anni


Ieri sera ecco alla Scala la prima de I masnadieri, tornati a farsi vivi qui - rilasciati per buona condotta? - dopo un lungo ergastolo e accolti peraltro da un pubblico per nulla folto (anche l’altro ieri sera, all’ultima della Tote Stadt, paurosi vuoti ovunque...) Prima dell’inizio Pereira ha fatto la sua comparsa al proscenio per ricordare Zeffirelli.

Ma prima di entrar nel merito, una domanda frivola: che tinta hanno I masnadieri?

Sappiamo che per definire l’ambientazione (prima drammatica - il soggetto - e, conseguentemente, musicale) delle sue opere Verdi usava questo termine assai stimolante, ma anche diversamente interpretabile: la tinta. Termine che richiama concetti pittorici, quindi innanzitutto caratteristiche cromatiche: i colori (tenui o forti, brillanti od opachi). Ma anche caratteristiche di luminosità: luce, ombra e, soprattutto, contrasto. Ma poi anche elementi relativi al tratto della pittura: pennellate morbide o scabre, sfondi omogenei o irregolari. Ma ancora: oggetti o personaggi o fatti dipinti con precisione fotografica o visti attraverso lenti deformanti o caleidoscopi... E altro ancora.

Venendo alla musica, cosa contraddistingue la tinta di un’opera? La tonalità prevalente? Il metro prevalente? Il trattamento strumentale (brillante, trasparente, magmatico, pesante...)? L’impiego di particolari forme chiuse, chiaramente distinguibili (arie, romanze, cabalette, duetti, concertati)? La reiterazione di temi conduttori o di motivi associati a personaggi o sentimenti, o oggetti?   

Verdi peraltro mai ha definito con precisione e dettaglio la tinta di ogni sua opera; ci ha semplicemente informato di averla immaginata (ed anzi cercata nei soggetti che personalmente sceglieva) per poi trasferirla al suo prodotto musicale. Ma di certo sui frontespizi delle sue partiture si è ben guardato dallo specificarne gli attributi di tinta: siamo noi a doverli casomai desumere ed etichettare dall’ascolto della sua musica!

Quindi ancora: che tinta hanno I masnadieri?

Lasciamo la risposta ad un illustre contemporaneo di Verdi, un vero esperto in materia, che nel 1859 così sentenziava: Nei Masnadieri non vediamo traccia di questa tinta generale, e sembra di scorgervi varj pezzi cuciti insieme, anziché una tela continua con differenti disegni. (Abramo Basevi: Studio sulle opere di Giuseppe Verdi).

E, a parte la tinta, Basevi scrisse - fra pochi, onesti e sinceri elogi - un sacco di stroncature: sul soggetto, innanzitutto, accusato di volgarità e di pretendere che poi la musica (la cui qualità dovrebbe essere l’amore del bello) possa attagliarsi a far amare il turpe. Ma anche sulla musica di Verdi, accusata di volta in volta di essere monotona, dal ritmo fiacco; di proporre un volgarissimo coro; nella cavatina di Amalia... il canto seguita con ritmi comunissimi... apparendo lungo, slegato, floscio e gonfio; nel duetto Carlo-Massimiliano Verdi si abbassa fino al posto de’ più volgari copisti (!) Infine, il Maestro ha qui galvanizzato un cadavere! Insomma, ecco un antesignano di Massimo Mila, che catalogò senza appello l’opera fra quelle brutte di Verdi.

Certo, qui abbiamo un Verdi che - forse come contrappeso all’innovativo e coevo Macbeth - torna a vecchie abitudini e a comodi stilemi: Attila! E come in Attila, anche qui abbondano eroismi (musicali) a buon mercato ma di sicuro effetto. Come è stato giustamente osservato, nel primo atto manca del tutto ogni parvenza di azione, ma il pericolo di monotonia viene scongiurato - come in Attila - dalla trascinante vitalità delle cabalette, che poi innervano anche buona parte del second’atto. Sempre Basevi apparenta Nell’argilla maledetta di Carlo a É gettata la mia sorte di Ezio. E poi trova analogie fra il quartetto che chiude l’atto primo con il terzetto di Attila, il quale Attila rifà capolino all’inizio dell’atto conclusivo, con l’incubo vissuto da Francesco.
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Stabilito quindi che I masnadieri non è propriamente un capolavoro, vengo a dire la mia su come Michele Mariotti lo ha tinteggiato. Premetto di non concordare del tutto con i chiarissimi buh che hanno accolto il Maestro all’uscita finale. Però mi sento di dire che la sua è stata una lettura troppo sostenuta, o poco aggressiva, se si preferisce. Insomma, questo, credo di averlo chiarito a sufficienza, è ancora il famigerato Verdi della vanga, il Verdi dell’Attila, e costringerlo in una camicia di forza rossiniana o mozartiana non gli rende giustizia. In ogni caso, personalmente darei al Direttore ampia sufficienza, soprattutto riguardo la concertazione e l’equilibrio delle dinamiche.

Bruno Casoni ha, come sempre del resto, ottenuto il massimo dal suo coro, che qui deve impersonare due tipi diversi di gentaglia: i masnadieri, ovviamente, ma anche i compari di Francesco, che come disprezzo dell’etica non sono certo da meno della banda di Carlo.

Trionfatrice della serata è stata la cubanamericana Lisette Oropesa, che ha sfoggiato perfetta impostazione di voce in tutta la tessitura, con acuti morbidi e portamento impeccabile, sia nelle arie che nei tre duetti che la vedono protagonista. Per lei davvero un gran bell’esordio alla Scala.

Fabio Sartori ha risposto con una prestazione apprezzabile, non solo nelle cabalette e nei duetti, ma anche nell’intimistica, lirica e romantica Come splendido e grande il sol tramonta. Convinti applausi e consensi per lui alle uscite finali.

Meno convincente il Francesco di Massimo Cavalletti (non per nulla fatto oggetto di moderate contestazioni finali) che ha stentato, a parer mio, a dare profondità a quello sbifido personaggio che anticipa (pur a grande distanza) nientemeno che Jago. 

Perfetto invece Michele Pertusi, un Massimiliano autorevole e commovente, applauditissimo alla fine. Anche l’altro basso, Alex Spina, si è ben portato, nella sua parte piccola ma impegnativa, che ricorda il Papa dell’Attila e anticipa il Grande Inquisitore del Carlos.

Francesco Pittari e Matteo Desole hanno onestamente dato voce ad Arminio e Rolla.
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Vengo ora al team di David McVicar, responsabile dell’allestimento e fatto oggetto alla fine di sonorissime contestazioni. Che, proprio come nel caso di Mariotti, personalmente non mi sento di condividere in toto. L’impostazione del regista scozzese ha peccato forse di eccessiva cerebralità, ma va riconosciuto che non ha minimamente intaccato, nè tanto meno stravolto (come accade spesso a regìe troppo creative) i contenuti del soggetto da presentare.

Il regista ha immaginato un antefatto al dramma (presentato durante l’esecuzione del Preludio) in cui si mostra il giovane Carlo in un’Accademia militare (il riferimento è evidentemente all’esperienza conosciuta dal giovane Friedrich Schiller) mentre subisce una dolorosa punizione corporale (sarà questa a far scattare la molla della ribellione?) Vediamo anche il giovane Carlo estrarre da una teca un libro, verosimilmente Le vite parallele di Plutarco (che il Carlo dell’opera leggerà proprio nella prima scena). Questo giovane Carlo è impersonato da un mimo che rimane in scena per l’intera opera, a costituire evidentemente la presenza costante del protagonista (la corporatura cicciottella del mimo deve aver qualcosa a che fare con quella di... Sartori!) che significativamente compie anche piccoli ma importanti gesti: stare vicino, quasi abbracciato ad Amalia quando lei ricorda i bei giorni passati con l’amato; poi fornire alla donna la spada con cui difendersi da Francesco (Atto II) oppure trafiggere lo stesso Francesco (Atto IV) scaraventandolo poi nella stessa segreta dove era rinchiuso Massimiliano. Infine, recare al Carlo vero la spada con cui trafiggere Amalia e gettarsi poi sul corpo di lei mentre cala il sipario. Il fascicolo con il testo di Plutarco resta perennemente fra le mani del Carlo, a ricordare la nobile infatuazione del protagonista per i grandi personaggi che han fatto la Storia: pagine del libro cadono poi svolazzando sulla scena proprio mentre cala l’ultimo sipario.

La scena di Charles Edwards ha una struttura unica: totalmente aperta e limitata sul fondo da una parete (che lascerà intravedere l’incendio di Praga...) alla quale si appoggia una passerella sulla quale si muovono talora le comparse (e raramente i protagonisti). Durante il Preludio (Accademia militare) la scena è occupata da tavoloni e panche, poi parzialmente rimossi per il primo atto. Nel second’atto troviamo invece i letti di un ospedale da campo, dove si rifugiano i masnadieri, ma che serve anche da ambientazione per la prima sortita di Amalia dal castello. Per il resto, pochi oggetti consunti. Sulla destra torreggia in permanenza una statua, rappresentante una qualche autorità militare (il padre di Schiller era capitano...) o magari un antenato della dinastia dei Moor. Le luci di Adam Silverman collaborano a mantenere la tinta cupa del dramma. I costumi di Brigitte Reiffenstuel sono plausibilmente dell’epoca indicata dal testo di Schiller e dal libretto di Maffei (secolo XVIII). Jo Meredith è responsabile delle coreografie, che prevedono l’intervento di mimi e figuranti in alcune fasi concitate dell’opera.

In conclusione, un allestimento intelligente che forse ha sfidato eccessivamente le doti di perspicacia di parte del pubblico, che deve averlo trovato piuttosto incomprensibile e cervellotico (della serie: perle ai porci?...)

Dal mio punto di vista: uno spettacolo complessivamente più che dignitoso, che credo potrà migliorare ancora lungo le prossime sei recite.

11 giugno, 2019

Una masnada si prepara a mettere il Piermarini a ferro-e-fuoco


Dopo più di 41 anni la Scala ripropone fra qualche giorno una delle opere brutte (© Massimo Mila) di Giuseppe Verdi. Guarda caso a dirigerla nel lontano 1978 - con unanimi apprezzamenti di pubblico e critica - fu l’attuale Direttore Musicale (!) Che in questa occasione cede la bacchetta ad un (relativamente, ormai, a 40 anni) giovane, rispondente al nome di Michele Mariotti. David McVicar firma la regìa dello spettacolo.
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Questo olio su tela (di autore anonimo) raffigura Friedrich Schiller mentre legge ad alcuni amici, in un luogo segreto, nel 1781, il suo dramma Die Räuber.


Beh, l’atmosfera carbonara potrebbe benissimo applicarsi alla seconda scena dell’opera, laddove un invasato Carlo, lettera del fratello in mano, si auto-proclama - cantando una smaccata cabaletta, Nell’argilla maledetta - capo della masnada!

Il raffinatissimo cavalier Andrea Maffei (il cui cenacolo culturale, condiviso con la moglie Clara, aveva contribuito non poco a promuovere Verdi sulla piazza milanese) aveva appena finito di tradurre il dramma in prosa (con parti versificate) di Schiller quando Verdi gli commissionò il libretto dell’opera. Il soggetto è di quelli davvero al limite dell’assurdo (proprio un’enormità da Sturm-und-Drang) tanto che lo stesso Schiller in seguito ebbe quasi a vergognarsene, arrivando ad auto-sbeffeggiarsi (... produssi un mostro che, per buona sorte, non è mai esistito al mondo.)

In effetti i masnadieri di cui Carlo si mette a capo poco o nulla hanno a che fare con movimenti politico-rivoluzionari (tipo brigate-rosse, per dire, o anche ISIS) nè con organizzazioni di stampo mafioso, nè - a dispetto del titolo schilleriano - con fenomeni di comune brigantaggio. Si tratta invece di sbandati-plebei che uno sbandato-nobile organizza in banda armata con l’unico fine - quasi goliardico, non ci fosse di mezzo il sangue - di far casino, sfogando la propria rabbia contro l’universo intero! Ammazzando, rubando, stuprando, incendiando e così via terrorizzando, in un’autentica miscela di anarchismo e nichilismo autodistruttivi.

E qual è stata la molla che ha spinto Carlo ad una tale iniziativa? L’essere stato di fatto ripudiato e diseredato dal padre Massimiliano (plagiato attraverso un intervento criminoso dal fratello minore, l’invidioso, deforme, cinico e malvagio Francesco) a causa di proprie giovanili scapestrerie (per usare la colorita definizione datane da Mila; invero delle smargiassate sesquipedali, come quella ricordata nella seconda scena del dramma, compiuta a Lipsia e avente a pretesto il moribondo mastino di Carlo); e aver di conseguenza perso anche l’amata Amalia.

Certo, si dirà che anche oggi assistiamo a fenomeni simili - i gratuiti ammazzamenti che si registrano in scuole, chiese e uffici - che curiosamente avvengono proprio nel Paese che nella sua Dichiarazione di Indipendenza (secondo paragrafo) propugna il perseguimento della felicità per l’individuo; ma lì si tratta, appunto, di reazioni individuali (e per lo più suicide) a presunte ingiustizie subite. Schiller invece ci inventa sopra un fenomeno di massa, inesistente ai suoi tempi: siamo di fronte ad un’accozzaglia di individui sfigati che si organizza militarmente, non già per cercare di sovvertire il potere costituito che sarebbe plausibilmente accusabile di produrre, appunto, le loro disgrazie... ma per abbandonarsi ad azioni ciecamente e sconsideratamente violente, che finiscono oltretutto per penalizzare, quali vittime, proprio povera gente come loro! Un fenomeno che potrebbe caso mai (dò un’idea gratis al regista...) aver qualche lontana parentela con i moderni black-bloc (che peraltro si pongono - con le loro azioni violente - obiettivi comunque politici).  

Dopodichè, per dare alla sua inverosimile storia anche un sapore maieutico, ecco che Schiller ci propina un finale ancora più inverosimile. Venute meno le ragioni della sua originaria sfiga (con l’auto-punizione del fratello ingannatore e il ricongiungimento con padre e amata) il protagonista Carlo pare per un attimo rinsavire, trovare pace e perdono nelle braccia di Amalia. Ma sono i suoi masnadieri a richiamarlo al... dovere, reclamando il suo ritorno alla loro guida, in cambio di tutti i sacrifici sopportati e delle ferite da loro subite in nome suo! E allora Carlo che fa? Morto nel frattempo di crepacuore il padre, accontenta Amalia (che si vuole morta piuttosto che privata di lui) con una precisa pugnalata al cuore; e infine va a costituirsi alla giustizia, ma non senza prima compiere un’ultima (o prima?) opera di bene: farsi consegnare ai gendarmi da un povero padre di 11 figli, in modo da procurargli i 1000 Luigi d’oro della taglia che gli pende sulla testa! 

Tutto ciò diede modo allo scrittore di giustificare così - non senza un tocco di spocchia - anche le esagerazioni del suo granguignolesco dramma: 

“Mi confido che questo mio scritto, quando si guardi al notabile suo svolgimento, possa a ragione annoverarsi fra i libri morali. Il vizio v’ottiene il castigo che merita; il traviato si ravvia nel cammino della legge, e la virtù ne riesce trionfante. Chi vuol meco esser giusto leggami da capo a fondo, e cerchi comprendermi; e se non loda lo scritto, apprezzerà, non v’ho dubbio, l’onesto scrittore.”
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Com’è naturale, nello stendere il libretto il Maffei dovette necessariamente tagliare, ridurre e semplificare molto, rispetto al dramma. Ma lo fece senza dover pagare eccessivo dazio, in altre parole, riuscendo a mantenere sufficientemente integre le fondamentali caratteristiche dell’originale. Qui si può trovare una sinossi dell’intero dramma schilleriano e - chiaramente evidenziate - le parti che Maffei ha trasferito nel libretto, insieme ad alcuni essenziali traguardi sui principali passaggi musicali.

Anche a colpo d’occhio ci si può rendere conto della quantità dei tagli: intere scene del dramma - che pure sarebbero importanti per comprendere le recondite ragioni che muovono l’azione dei protagonisti o per rivelarci il loro pensiero su problemi di primaria grandezza - sono state ignorate; diversi personaggi, soprattutto masnadieri (Spiegelberg e Kosinsky ad esempio, due chiari alter-ego di Carlo) ma non solo (vedi il servitore Daniele) non hanno trovato posto nel libretto; Maffei conserva il Pastore Moser, uomo di grande fermezza ma anche di totale integrità, mentre trascura il frate che si presenta ai masnadieri alla fine del second’atto del dramma di Schiller: un chiaro esempio di Chiesa asservita allo Stato!

Numerose scene sono state disposte da Maffei in ordine diverso da come appaiono nel dramma: esempio eclatante la seconda Parte dell’opera, dove le 7 scene, se riordinate come nel dramma, darebbero la sequenza 4-5-6-7-1-3-2! Diversa la sorte che Maffei riserva a Francesco, rispetto a Schiller: per quest’ultimo, dopo l’anatema di Moser il cattivone si suicida, strangolandosi; Maffei invece lo lascia perdere del tutto, finito chissà dove.

Si noterà anche qualche libertà presa dal librettista, come ad esempio il momento dell’agnizione fra Carlo e Amalia (Parte III, Scena 2) fortemente anticipato rispetto al dramma (ultima scena) per raggiungere un obiettivo squisitamente melodrammatico: inserire a circa metà dell’opera - al posto dell’incontro in quadreria fra il Carlo travestito da Conte di Brand e Amalia - il classico duetto d’amore fra i due protagonisti! (E pazienza se quell’incontro resta lì appeso senza capo nè coda, con Amalia e Carlo che spariscono insieme per poi ricomparire alla spicciolata: lui dopo poco fra i suoi masnadieri, bivaccanti lì attorno; lei solo alla fine dell’opera, catturata nel castello assaltato dai masnadieri medesimi! E pazienza se Maffei - nell’inventare questa scena, forse tratto in inganno da una frase sibillina che Amalia pronuncia nel citato incontro in quadreria - incorre in un marchiano errore, facendo dire ad Amalia che Massimiliano è morto, quando nella seconda scena della Parte precedente Arminio le aveva rivelato, suscitandone l’esultanza, che il vecchio era ancora in vita...)

Allo stesso modo, Maffei lascia in vita Massimiliano (che Schiller fa spirare prima del finale, all’auto-accusa di Carlo) per potersi permettere un ultimo terzetto (Amalia, Massimiliano, Carlo) con coro, a chiudere l’opera. Con il sipario che cala appunto sul tragico trapasso di Amalia circondata dal dolore di tutti: un finale classicamente melodrammatico che rimpiazza quello ingenuamente buonista dello schilleriano Carlo, pentito e divenuto improbabile benefattore...
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Sul fronte musicale, Verdi, reduce dal completamento del quasi contemporaneo e rivoluzionario Macbeth, sembra qui tornare al seguito delle orde di... Attila. Le cabalette sparse a piene mani e certa rozzezza delle parti corali fanno concludere a molti critici che I masnadieri sia un passo indietro rispetto all’innovativo dramma sul soggetto shakespeariano. Peraltro di questo non sarebbe giusto incolpare il solo Maffei, che invece aveva appena contribuito a sistemare nel migliore dei modi proprio il Macbeth claudicante di Piave. Forse c’è per il fenomeno una spiegazione più semplice: fu in realtà il Macbeth ad essere una splendida quanto isolata eccezione all’interno di un cammino ancora lungo che avrebbe faticosamente portato Verdi dal lontano Nabucco (passando per Luisa) a Rigoletto

Il pesarese-rossiniano-doc Michele Mariotti (fra un paio di mesi, al ROF, tornerà a cimentarsi con la tremenda Semiramide) è atteso a questa nuova prova verdiana dopo precedenti positive esperienze. Lo spettacolo sarà garantito da David McVicar, che di spunti d’attualità per renderci digeribile il truce soggetto schilleriano ne ha quanti ne vuole, dati i tempi... 

Le voci in campo sono quelle collaudatissime di Michele Pertusi (Massimiliano) o collaudate di Fabio Sartori (Carlo) e Massimo Cavalletti (lo sbifido Francesco). La povera Amalia sarà nelle mani (e soprattutto nella voce) di Lisette Oropesa, che ho personalmente apprezzato al ROF ultimo come Adina, ma che qui dovrà rivaleggiare virtualmente con la mitica e leggendaria Jenny Lind, che ebbe la parte proprio cucita addosso da Verdi in persona: trattandosi di parte piuttosto rossiniana (anche se la Lind mai cantò opere del pesarese) le premesse perchè il soprano cubano-americano faccia bene ci son tutte. 

La prima martedi 18, alle 20.

19 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Adina



Ieri al Teatro Rossini (con qualche vuoto di troppo, probabilmente dovuto al bizzarro orario di inizio, le 16:00, quando anche i melomani più incalliti sono ancora in spiaggia o in barca) è andata in onda la terza recita di Adina.

Prima dell’inizio si ode l’annuncio che la protagonista Lisette Oropesa canterà regolarmente, anche se afflitta da una non meglio precisata indisposizione (di certo non una scottatura...) Invece un doveroso minuto di raccoglimento per ciò di cui il Paese è ancora sotto choc è stato rispettato solo perchè uno spettatore ne ha urlato la richiesta a Diego Matheuz, che stava ormai dando l’attacco del preludio. E meno male che il Direttore venezuelano ha meritoriamente raccolto l’invito.
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Adina è opera notoriamente controversa, quanto alle origini e alle circostanze della sua composizione. Fabrizio Della Seta, che alla fine del secolo scorso ne curò l’edizione critica, ne ha ricostruito i contenuti musicali in un saggio pubblicato sul programma di sala. Da esso ho ricavato questo schema che sintetizza la struttura del lavoro, con l’indicazione della fonte di ciascuna sua parte, inclusi gli auto-imprestiti (dal Sigismondo). Come si nota, oltre al compositore, le musiche sono di mano di un non meglio identificato Collaboratore (così lo apostrofa Della Seta) e di copisti/collaboratori capaci di predisporre i recitativi secchi o di riprendere e adattare musiche auto-imprestate. Ma alcune parti sono di mano del compianto Philip Gossett e dello stesso Della Seta.

numero
Rossini
Collaboratore
copista / collab.
1. Introduzione
X


    recitativo


X
2. Cavatina (Adina)
(deriv. Gazza Ladra)
orchestrazione

3. Coro


(Sigismondo - Viva Aldimira)
    recitativo


Gossett - Dalla Seta (Coro 3b)
4. Duetto

X

    recitativo


X
5. Aria (Califo)

X

6. Sc.-Aria (Selimo)


(Sigismondo - Cavat. Ladislao)
    recitativo


X
7. Quartetto
X


    recitativo


X
8. Aria (Alì)


(Sigismondo - Rondò Anagilda)
    recitativo


X
9. Aria (Adina) - Fin.
X



Insomma, un bel pot-pourri che si spiega con la fretta di Rossini (che era occupato in ben più importanti impegni a Napoli) oltre che con le difficoltà relative al luogo della prima rappresentazione (Lisbona); difficoltà che spiegano probabilmente anche il ritardo di ben 8 anni fra composizione e andata in scena!
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La recita di ieri (mi) ha confermato le positive impressioni ricevute dalla prima ascoltata in radio. Lisette Oropesa ha sfoggiato la sua voce cristallina, oltre che una bella presenza scenica. Levy Sekgapane ha una vocina sottile-sottile, ma adatta a questo ruolo di ragazzo timido e ingenuo. Efficace Vito Priante nella parte del ruvido Califo, capace peraltro anche di slanci affettuosi. Di buona fattura le prestazioni dei due comprimari: Matteo Macchioni che impersona la... macchietta di Alì e Davide Giangregorio, un simpatico Mustafà. Eccellente il Coro della Fortuna (Mirca Rosciani) ben disimpegnatosi anche sul fronte dellla presenza scenica.

Diego Matheuz  ha diretto con sobrietà la Sinfonica Rossini, senza sbracature e con attenzione all’equilibrio fra buca e voci.
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La farsa fu originariamente definita come un’opera in un atto unico, di contenuto serio o comico. La trama si fonda tipicamente su equivoci, qui-pro-quo, malintesi, fischi-per-fiaschi, roma-per-toma e simili bizzarrie, che possono dar luogo indifferentemente ad esiti esilaranti o tragici. Con l’andar del tempo per farsa si è sempre più intesa una pièce di carattere umoristico e improbabile, e il termine farsesco è divenuto sinonimo di ridanciano, sboccato e cialtronesco.

E proprio in questa accezione Rosetta Cucchi ha interpretato il soggetto di Adina, a dispetto del suo sottofondo potenzialmente tragico. Così l’ambientazione è in un’allegra festa di matrimonio (fra Califo e Adina) e poco traspare del dramma della protagonista e del suo innamorato Selimo. Salvo il loro arresto al momento della tentata fuga, arresto peraltro eseguito da guardie abbigliate come nelle più classiche vignette di cartoon satirici. 

La scena di Tiziano Santi è assolutamente statica: una gigantesca torta nuziale a tre piani, sui quali si muovono protagonisti e figuranti (o coristi) e all’interno della quale si intravedono ambienti domestici. I costumi di Claudia Pernigotti nulla hanno a che vedere con il testo del Bevilacqua, riproducendo una fauna umana popolata da tamarri o capi-cosca (Califo) e moderni eunuchi (Alì, che calza scarpe da donna, peraltro con tacco basso per evitare... cadute) con la quale devono convivere i poveri Selimo e Adina (anche loro tutt’altro che sobri nei rispettiivi abbigliamenti). Anonimo invece il giardiniere Mustafà, con qualche vegetale in testa. Daniele Naldi firma l’impiego delle luci, piuttosto elementare: sempre chiaro abbagliante, salvo che nel siparietto notturno.

Tutto sommato uno spettacolo accattivante e scorrevole, che il pubblico ha mostrato di gradire assai, con calorosi applausi e numerose chiamate per tutti.