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16 dicembre, 2013

Violetta alla Scala: impressioni dal vivo

 

Ieri sera terza recita (in una Scala che presentava qualche buco in platea e parecchi vuoti nei palchi) del titolo che ha aperto a SantAmbrogio. Come accade non da oggi, dopo una prima contestata, quella di ieri (ma, dicono, anche la seconda) è invece stata accolta da convinti applausi e soprattutto senza aperti dissensi (per la verità è mancato il giudizio sulla regìa, renitente al momento delle uscite finali).


In ogni caso sul fronte dei suoni il risultato mi è parso di livello notevole, grazie ai tre protagonisti principali.

Diana Damrau si è confermata una Violetta di gran spessore, particolarmente convincente in quei passaggi di maggior lirismo (che lei canta a fior di labbra, quasi a bocca chiusa) ma sicura anche nel canto spiegato (e non solo per quel MIb che ieri ha staccato con grandissima autorità). Se proprio dovessi trovarle un pelo nell’uovo, direi di qualche acuto un filino calante e della cosiddetta ottava bassa che faticava a… percorrere gli enormi spazi del Piermarini. Per lei, un trionfo totale.

Piotr Beczala era partito un filino contratto e piuttosto impreciso nei passaggi di maggior virtuosismo, ma poi si è via via migliorato e nessuno ha trovato da ridire sulla sua prestazione complessiva.

Anche Željko Lučić (per la verità l’unico personaggio che il regista ha… lasciato in pace, smile!) ha confermato la prova discreta dell’esordio, ieri oltretutto anche Gatti lo ha supportato meglio che a SantAmbrogio.

Quanto ai comprimari, mi vien da citare per tutti il Gastone di Antonio Corianò. Sui suoi standard il coro di Bruno Casoni.

Daniele Gatti? La sua è una direzione improntata all’intimismo, quasi cameristica, che potrà non piacere del tutto a chi ama un Verdi più sanguigno. A me non è dispiaciuta affatto, e anche il pubblico si è mostrato di questo avviso: qualche timido dissenso  è stato ampiamente coperto da applausi calorosi su cui si è inserita una raffica ritmata di bravo, bravo, bravo! proveniente (mi è parso) da un singolo punto della prima galleria (evidentemente un supporter particolarmente agguerrito…)

Chi non si è fatto vedere, come detto, è il regista, sottrattosi all’esame-finestra: così non possiamo sapere se il pubblico di ieri abbia gradito oppure no la sua proposta.

E allora ci torno sopra io, cominciando col dire che la visione dal vivo non mi ha fatto cambiare idea rispetto a quella di SantAmbrogio in TV. Questo di Cerniakov è uno spettacolo assolutamente coerente in se stesso, incentrato su una visione attualizzata del soggetto originale, ma dove l’attualizzazione, ahinoi, comporta uno scollamento tanto evidente quanto stridente fra ciò che si vede in scena e ciò che si ascolta dalle voci e dagli strumenti, cioè da ciò che Piave e Verdi ci hanno lasciato. 

Ora, per non dar l’impressione di emettere giudizi sommari senza motivarli, prendo alla lettera il motto di Lissner (non siamo qui per farvi divertire, ma per farvi riflettere) e  provo precisamente a fare qualche riflessione. Lissner mi perdonerà se in queste mie riflessioni parlo di un prodotto (uso qui il linguaggio universale anche se freddo del business) che lui mi ha venduto come originale e genuino (a giudicare dalla locandina) e che io (sulla fiducia) gli ho comprato, pagandolo, e profumatamente, in anticipo.

Per non farla troppo lunga, parto direttamente dalla fine (del resto in ogni opera in fundo stat dulcis…) Dunque, nella Traviata di Verdi-Piave (musica-libretto) abbiamo una giovane donna che muore. Di cosa? Di una malattia del fisico, del corpo, già ampiamente diagnosticata come letale e della quale Violetta è perfettamente cosciente da tempo: sintomi si sono manifestati già nel primo atto; poi, pur senza nominarla, ne ha fatto cenno a Germont-sr nell’atto secondo. Certo, una malattia potenzialmente aggravata da componenti psicologiche avverse, prima fra tutte una felicità tanto improvvisa, insperata, inimmaginata e totalizzante rapidamente distrutta da fenomeni estranei a lei e alla persona che l’ha resa felice.

Ma una cosa è lampante, straordinariamente chiara: Violetta, che sa di morire (devolve in carità gli ultimi spiccioli) muore però contro-voglia, mentre vorrebbe cocciutamente vivere; immediatamente prima del finale collasso… si rialza rianimata - ci spiega Piave - e canta Cessarono gli spasimi del dolore… in me rinasce… m’agita insolito vigor! Ah!… ma io… ritorno a viver!… oh gioia! La vita le viene strappata proprio mentre le cause della drammatica interruzione della sua felicità sono state interamente rimosse, e ripristinate le condizioni (di natura privata e pubblica) perché quella felicità possa tornare concreta, tangibile, possibile e praticabile. Insomma, Violetta vuole vivere! E per questo c’è una drammaticità commovente in quel suo sfogo Gran Dio! …morir sì giovane.

Chi le è vicino al momento del trapasso? Precisamente quattro persone care (Grenvil, vedete? tra le braccia io spiro di quanti ho cari al mondo...) di cui sarà bene ricordare ruoli ed atteggiamenti. In primo luogo Alfredo, che da quando se n’è innamorato non ha cessato di amarla, e non solo nelle tre lune trascorse con lei (contenta in quegli ameni luoghi!) ma anche successivamente, persino mentre sfogava platealmente contro di lei tutto il suo risentimento. In fondo, si era reso conto ben presto che lei era stata costretta a fingere di tradirlo, con il solo nobile senso di salvare l’onore suo e della sua famiglia. Poi papà Germont, sinceramente pentito per aver interrotto quella felicità, ed ora pronto ad ogni riparazione. E il medico, che amorevolmente accorre ripetutamente al suo capezzale (trascurando magari migliori opportunità di guadagno) per curarla e per confortarla. E infine Annina, ormai una fedele amica, prima ancora che donna di casa.

Scenario strappalacrime ottocentesco? Improponibile e ridicolo ai giorni nostri, dove le lacrime sono merce sconosciuta a pochi e risorsa esaurita per i più? Forse, ma è precisamente a questo scenario che stupendamente si attagliano i versi di Piave e - soprattutto! - la musica di Verdi. Per dire, le 23 battute che precedono lo spirare della donna che vorrebbe a tutti i costi vivere sono una vera e propria Tod-und-Verklärung ante-litteram (rispetto a Strauss ma anche al Wagner di Isolde e al Puccini di Mimì). E da questo punto di vista benissimo ha fatto Gatti a riprendere l’orchestrazione del 1853, facendo suonare i due soli violini à-la-Lohengrin (l’abbassamento di un’ottava del 1854 è ormai appurato fosse esclusivamente dovuto alla palese insufficienza di strumenti e strumentisti dell’epoca…)

Ecco, questo è il prodotto che uno spettatore che riflette - caro Lissner - si attende di ricevere in cambio del (salato) prezzo del biglietto. Il regista ci metta pure (e ci mancherebbe!) tutta la sua fantasia e sensibilità, ma il prodotto finale deve avere quella sostanza, e in primo luogo possedere piena coerenza con quella mirabile miscela di parole e musica che gli autori ci hanno consegnato. Altrimenti è solo una (per quanto accurata) contraffazione

 

Che prodotto ci consegna invece Lissner, per tramite del suo regista russo? Una donna malata e morente sì, ma affetta da una tipica malattia nervosa (lo abbiamo constatato durante l’intera opera, anche ben prima della stroncante irruzione di Germont-sr); una donna malata non ai polmoni ma alla mente (grottesca davvero la scena di Grenvil che ammicca ad Annina indicando la condizione di Violetta con un inequivocabile picchiettare dell’indice della mano contro la tempia, mentre canta la tisi non le accorda che poche ore… !) una povera donna distrutta nella psiche, una che non sta curando con farmaci un male fisico, ma una che sta impasticcandosi con droghe e riempiendosi di alcol col risultato di aggravare il suo stato psicologico. In poche parole: una donna alienata che non vuole (più) vivere! In questo scenario la sua esternazione Gran Dio! …morir sì giovane suona come una stridente contraddizione.

 

E chi si agita attorno a lei? Persone innamorate, pentite e caritatevoli? Nemmeno per idea: tre persone che – letteralmente! – non vedono l’ora che lei tiri le cuoia! Alfredo, che sembra infastidito, proprio come fosse lì controvoglia e avesse altro di meglio da fare. Suo padre che le si avvicina quasi timoroso (proprio come si fa con i matti…) E il dottore, che resta lì impalato, quasi fosse impaziente di tornare al suo ambulatorio per fare visite più lucrose. Alla povera Annina non resta che cacciarli tutti perché quella disgraziatissima Violetta possa finalmente morire senza disturbatori attorno.


Orbene, e vengo al punto cruciale dell’intera questione: con una scena simile la musica di Verdi (ma anche il testo di Piave, infatti in parte cassato, cosa del resto non nuova) ci sta proprio come i cavoli a merenda. Meglio le si attaglierebbe magari la musica che fu composta (80 anni dopo!) per un altro capolavoro: Lulu…

E al resto dell’opera si possono tranquillamente estendere le considerazioni fatte riguardo al finale: Cerniakov – a differenza della sua Violetta - non è mica fuori di testa, e quindi tutto il suo spettacolo è coerente con la sua concezione, fin dall’inizio non fa che preparare adeguatamente quel finale.

Non altrimenti si spiega l’approccio letteralmente parodistico del regista alla scena dell’incontro di Violetta con Alfredo e a quella successiva di Violetta sola: nella prima Alfredo dovrebbe lanciare un seme (Di quell’amor…) che germoglia in Violetta nella seconda (A quell’amor…) Noi invece vediamo un Alfredo di credibilità zero e una Violetta che sembra farsi beffe dei suoi sentimenti.

E così la scena d’esordio del second’atto viene banalizzata in modo indisponente, a partire dall’ambiente: invece di un salotto dove gli oggetti principali dovrebbero essere dei libri e l’occorrente per scrivere (capita l’antifona, Cerniakov?) noi siamo in cucina, in mezzo ad ingredienti assortiti per pizze e minestroni. E con Alfredo che ci racconta della sua nuova vita al fianco di Violetta con parole e musica che esprimono rapimento e felicità celestiale, mentre lei si aggira proprio lì attorno, impegnata come lui in prosaiche faccende domestiche. Dico: una presa in giro!  

Poco dopo, solo una Violetta isterica (che è diverso dallo sconvolta e preoccupata) può aggredire letteralmente a pugni e spintoni un esterrefatto Alfredo cantandogli …perché tu m’ami, tu m’ami, Alfredo, non è vero?

Prima di trattare del secondo quadro, un’osservazione di passaggio sulla cervellotica idea di fare l’intervallo lungo fra le due parti del second’atto. Non parlo degli aspetti legati alla struttura stessa dell’opera, che prevede, canonicamente, un finale d’atto in crescendo, con il concertato conclusivo, ma semplicemente degli aspetti pratici, proprio terra-terra, della questione. Dunque, qui ci sono tre intervalli: questo, lungo ben 40 minuti, più altri due – pubblico inchiodato alle poltrone - di ben 8 minuti ciascuno, in corrispondenza della fine del primo e del secondo atto. Totale, 56 minuti. Adesso, anche un bambino che sa far le somme arriva a capire che, a parità di tempo totale, dividendo l’opera come si deve, si potevano fare due intervalli di 25 minuti fra gli atti, più uno di 6 minuti fra i due quadri del secondo. Cosa normalissima per chiunque ed ovunque, ma qui le cose normali evidentemente sono considerate delle stupidaggini.

Ecco, la festa in casa di Flora. Si potrà anche sorridere dell’idea di Verdi-Piave di aprirla con i due cortei di invitati mascherati da zingarelle e toreri, ma ci spiega Cerniakov perché la trasforma in una specie di goliardico de-profundis per il povero Alfredo? Che arriva una prima volta per ricevere le condoglianze da parte degli invitati, prima di uscire per poi subito rientrare al momento previsto dal libretto? Quello che, con un riso nevrastenico, fa volare per aria mazzi di banconote per pagare Violetta non è un individuo alterato che sfoga dolorosamente il suo rancore, ma un povero idiota, in preda ad una crisi di nervi.   

La finisco qui (ma ci sarebbe ancora assai da contestare): insomma, un’idea-portante dello spettacolo semplicemente bizzarra e cervellotica (per quanto realizzata con indubbia maestrìa) che – manco a dirlo – è del tutto inconsistente con la musica e le parole che si ascoltano.

Ecco, caro Lissner: questo è ciò che uno spettatore che cerca di riflettere – eh sì, non un talebano infiltratosi in loggione – deduce dall’osservazione del tuo prodotto. Giudizio: buh!

17 luglio, 2013

Il Ballo scaligero, della serie: le regìe inutili (ma costose)


Dopo la prima, alcune reazioni abbastanza… premeditate parlavano di una montagna di volgarità, violenza gratuita, degrado materiale e morale dispensati a piene mani: tutti ingredienti che con la poetica di Verdi farebbero semplicemente a cazzotti. Un Ballo inventato di sana pianta, rivoltando l’originale come un calzino, da un regista che si crede un genio. Una roba vomitevole che grida vendetta! Puro trash da teatrini underground. Da denuncia penale per scempio di opera d’arte! E a nulla serviva ricordare a mo’ di giustificazione scempi anche peggiori, come così… o cosà!

Poi, dalla seconda in avanti, e anche ieri sera per la quarta (in un Piermarini con vasti spazi vuoti) tutto è rientrato nella più grigia normalità: successo tiepido o caldino in dipendenza dei gusti, nessuno scandalo, nessuna denuncia, nulla di nulla.

Comincio dalla parte più importante, cioè da Verdi (Michieletto mi perdonerà se lo tratto dopo). Le cose qui, almeno secondo il mio modestissimo parere, non sono andate poi così male come si era stigmatizzato in precedenza.

Daniele Rustioni (beato lui) non è ancora Toscanini e chissà se lo diventerà mai. Però, eccettuato qualche eccesso di irruenza che lo ha portato in un paio di occasioni ad esagerare con il fracasso, nel complesso giudicherei la sua direzione fra il sufficiente e il discreto, avendo mostrato una apprezzabile dimestichezza con questa partitura fra le più difficili di Verdi. Ecco, se volessimo proprio fare una classifica basata sul demerito, allora lui verrebbe dopo colleghi come Battistoni e Wellber, tanto per far due nomi di giovani comparsi in tempi recenti sul podio scaligero.

Avendo Álvarez datala buca, è stato Piero Pretti (secondo cast) a ripetersi dopo un sol giorno di riposo nel ruolo chiave. Che dire? La voce non è propriamente di quelle che lasciano il segno, e probabilmente la parte ancora non gli è entrata, come dire, nel sangue: ha alternato cose interessanti a momenti di chiara difficoltà, soprattutto all’inizio. Nei duetti con Amelia ha dovuto soccombere, sovrastato dalla voce di lei.

La quale lei era Sondra Radvanovsky, una che ha un vocione da far tremare i palchi, anche se la capacità di controllarlo non sembra delle più sviluppate. Però nei momenti topici o critici in cui deve fare accapponare (in senso positivo, sia chiaro) la pelle dello spettatore, lei è splendidamente riuscita nell’impresa. Uno su tutti, il Miserere d’un povero cor, con quella sbudellante salita al DO acuto, che le ha meritato un’autentica ovazione a scena aperta.

Zeljko Lucic ha una voce sguaiata proprio di natura, adatta magari a brutti ceffi wagneriani come Hunding o Hagen, per dire. Il suo Renato è francamente troppo truce. Alla vita che t’arride dovrebbe in effetti… arridere un po’ più di dolcezza; a Eri tu un po’ più di cuore esacerbato. Invece, sempre un piglio da energumeno.

L’Ulrica di Marianne Cornetti è abbastanza convincente: l’esperienza, anche nel ruolo specifico, garantisce sempre prestazioni all’altezza.

Non così dicasi di Patrizia Ciofi, un Oscar piuttosto incolore e con pochi decibel. Fernando Rado e Simon Lim, così come Alessio Arduini perlomeno si son fatti sentire chiaramente anche dal loggione.

In conclusione – sto ripetendomi come un disco rotto, lo so - una prestazione complessiva sufficiente erogata però da un fornitore di fascia alta, anzi (secondo lui) al top. Come se la Lexus, al prezzo e con la prosopopea della Lexus, ti rifilasse una… Tata (smile!)
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Ed ora passo a Michieletto, che qualcuno sostiene – anche con plausibili argomenti – essere stato vittima di vili attacchi premeditati e di complotti di palazzo (leggasi appunto: loggione…)

Intanto, leggendo questa intervista, qualcuno potrebbe addirittura trovarvi la confessione del reato, il distillato più puro ed esiziale di quella degenerazione della professione di portatore in scena di opere musicali che va sotto il nome di Regietheater:

(per il regista è quindi) importante trovare un racconto che serva il dramma.

Eccola là: il regista deve inventare un soggetto suo proprio – ecchissenefrega se l’originale va a farsi benedire - per giustificare la sua salata parcella messinscena di un’opera d’arte! Ciò si configurerebbe come adulterazione o, se si preferisce, come commercio di prodotti contraffatti: reati puniti dalle vigenti leggi, come lo spaccio di Rolex, o Lacoste, o vanGogh falsi.

E poi, perché mai si dovrebbe spostare l’ambientazione rispetto all’originale? Ecco qua:

Cambiare l'ambientazione ha come obbiettivo potenziare il dramma, renderlo più efficace, creare le circostanze per una messa in scena più vivida rispetto all'etichetta di un conte del 1600 con cui oggi nessuno di noi può condividere nulla.

Quindi quei sentimenti, quelle pene, quegli amori, quegli odi, quei sospetti e quelle ipocrisie del 1600 che, nobilitati e poetizzati dall’arte di Verdi, sarebbero stati perfettamente comprensibili e condivisibili dal pubblico di ben 250 anni dopo (= 150 anni fa) al punto che ne andava in delirio, oggi farebbero solo cadere le braccia a noi scafati del terzo millennio? E invece tornerebbero a toccarci il cuore e a commuoverci se appiccicati a qualche tamarro dei giorni nostri? Senza cambiare una virgola di parole e musica?
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Però, si sa, le interviste che pubblicano i quotidiani sono sempre da prendere con le molle: non sai mai se ciò che è messo in bocca all’intervistato sia uscito per davvero dalla bocca sua, o non da quella dell’intervistatore, se non addirittura da quella del redattore dell’articolo (per dire, il 99% di ciò che si scrive abbia detto Berlusconi viene regolarmente smentito il giorno dopo dal diretto interessato… smile!)

Così, per meglio accertare le idee e l’approccio del regista, proviamo a scorrere un’altra intervista, che però ha tutti i crismi dell’autorevolezza (Franco Pulcini) e soprattutto ha avuto verosimilmente la piena certificazione da parte dell’interessato, essendo ciò che si può leggere sul Programma di sala (le parti cui farò riferimento sono trascritte verbatim).

E qui Michieletto parte davvero con il piede giusto, quando afferma:

Un regista deve servire il racconto, la sua drammaturgia, l’archetipo narrativo.

Beh, intanto si ammetterà che è un filino diverso da quel trovare un racconto che serva il dramma

Ora, non tutte le opere si prestano all’individuazione di archetipi narrativi, ma certamente ci si presta molto bene il Ballo, quindi fin qui tutto OK: Michieletto a) si propone di derivare, dal racconto particolare di Somma&Verdi, l’archetipo (cioè un modello universale, astratto) per poi b) da questo far scaturire la sua personale versione di quel racconto originale, versione che sia più e meglio godibile dal pubblico di oggi. Se l’archetipo è derivato correttamente, per conseguenza anche la sua nuova materializzazione (se a sua volta correttamente desunta dall’archetipo) sarà coerente con l’originale.

Ora, da dove cominciamo? Beh, direi dalla figura del protagonista, leggendo ciò che ne dice Michieletto:

Riccardo è un leader politico occidentale, idolatrato da alcuni e odiato da altri. Tipico di chi gestisce il potere. Del resto ai due congiurati ha fatto uccidere il fratello e sequestrato un castello. Per alcuni quindi è un criminale che si è sporcato le mani, un uomo senza scrupoli che per salire al potere ha compiuto delitti e soprusi; per altri invece, sedotti anche dalla propaganda, è un salvatore da amare ed adulare (vengono descritti come “una servil genìa che sta lambendo l’idolo e che non sa il perché”). Come leader politico, Riccardo ha bisogno delle conferme, del consenso. Da queste riflessioni ho cominciato a pensare a lui come a un importante politico occidentale alla vigilia della sua rielezione, durante la campagna elettorale, nel momento della massima tensione nervosa.

Certo, ad una lettura superficiale, parrebbe una descrizione abbastanza fedele del protagonista del dramma. Ma basta un minimo-minimo di approfondimento per far scricchiolare questa vision del regista.

Tanto per cominciare, Riccardo non è un leader politico, eletto dal popolo (anzi, da una parte, e nemmeno maggioritaria, se parliamo degli USA, di esso). E quindi non è né poco né tanto condizionato dalla maggioranza (o peggio, minoranza) che lo ha eletto. È una pubblica autorità, nominata da Sua Maestà Britannica come Governatore di una provincia coloniale (non dimentichiamo che in origine era addirittura un RE!) Io deggio su’ miei figli vegliar, perché sia pago ogni voto, se giusto… Quindi, una persona investita di un’autorità che le viene dall’alto, non da una parte del popolo, ma che ha come fine primo e ultimo il bene dell’intero popolo che gli è stato affidato. (I governanti eletti dal popolo affermano la stessa cosa, ma in realtà fanno interessi di parte, o di classe, o di lobby, cosa del resto assolutamente legittima, in democrazia perlomeno…)   

Ancora: proprio perché a Riccardo il potere viene dall’alto, l’insinuazione che Michieletto prospetta, interpretando i casi personali di Sam&Tom (per salire al potere ha compiuto delitti e soprusi) appare quanto meno azzardata. Primo: lui non ha dovuto affatto salire al potere, ma vi è sceso (nel senso che ci è stato messo da una decisione superiore). Secondo: dal contesto si dovrebbe evincere che condanne a morte e sequestri di beni altro non fossero che regolari sentenze di tribunali, che il Governatore ha semplicemente controfirmato, non avendo ragioni per cassarle. La prova di ciò? L’atteggiamento di Riccardo che rifiuta di controfirmare la sentenza di bando per Ulrica, che testimonia della sua magnanimità e serenità di giudizio: non dimentichiamo che tale era la personalità di Gustavo III, l’archetipo (smile!) del personaggio di Somma&Verdi.

A proposito della maga-santona-imbonitrice, suvvia: nessun uomo politico farebbe mai visita - in campagna elettorale poi - al suo show, né a viso aperto, né in incognito (sai il rischio!) E di certo non prenderebbe quell’occasione per comunicarle la grazia e consegnarle un bell’assegno come risarcimento, chiudendo la puntata con una manifestazione di propaganda (della serie: come perdere le elezioni)! Invece, ancora una volta, un sovrano o un suo nominato dotato di un minimo di humor se lo può benissimo permettere, non dovendo temere di perdere voti ma – qui, più che al ballo – potendosi mostrare come governante illuminato e benigno.

Quindi la campagna elettorale e la conseguente tensione nervosa c’entrano con la vicenda di Riccardo narrata da Somma&Verdi proprio come i cavoli a merenda (ahi, ahi, caro Damiano!) E una conseguenza di ciò è la natura stessa del ballo. Leggiamo cosa si inventa al proposito Michieletto:

Nella mia idea, questo “ballo splendidissimo” è il party conclusivo della campagna elettorale: un momento di esaltazione dell’immagine pubblica di Riccardo, sintetizzato dallo slogan da lui dichiarato nel primo atto (“Incorrotta gloria”).

E nella citata intervista così si era espresso:

La necessità di consenso lo porta (Riccardo) a organizzare un party elettorale che catalizzi su di sè l'attenzione, e una campagna mediatica condotta a colpi di slogan promozionali, che nello spettacolo diventano simboli scenici importanti.

Conclude il nostro, sempre a proposito del ballo:

La solita storia propagandistica: un potere per il popolo, per chi soffre, per chi non riesce ad arrivare alla fine del mese… Quella scritta s’incendia alla fine. L’epitaffio conclusivo “Notte d’orrore” non è solo la sua fine, ma anche la fine della sua immagine, col crollo delle sue sagome, che cadono a terra con lui.

Anche qui purtroppo il nostro inventore di personaggi e di soggetti (inventore è peraltro eccessivo: i mega-poster di contenuto politico li ha già usati tale Vick nel suo recente Macbeth fiorentino…) ha preso un bell’abbaglio. Intanto, il ballo del Governatore (come quello del RE che lo ispirò) non è una manifestazione di parte o di partito (tipo una festa dell’unità sotto elezioni o una convention elettorale americana). Al contrario, è una manifestazione di popolo (cui certo non è estraneo il desiderio dell’autorità di dare lustro alla propria immagine di potere illuminato); anzi, è fatta proprio per il popolo, è un (piccolo o grande) regalo che il Governatore fa ai suoi governati; lui non ha bisogno di essere rieletto, né di raccogliere fondi per la sua campagna elettorale, al contrario spende risorse pubbliche per far contento il popolo intero. E lui parrebbe nemmeno volervi intervenire, al ballo: se lo fa, è per sfidare i presunti congiurati (Renato è il primo ad essere scettico sulla di lui presenza) e per rivedere Amelia, non certo per mettersi in bella mostra davanti ai suoi… sudditi. Insomma: il ballo è una specie di appuntamento tradizionale, sia pure nell’ambito del panem et circenses che caratterizza lo scenario descritto e musicato da Somma&Verdi.

Ma soprattutto il finale di Somma&Verdi è le mille miglia lontano dal proporci il crollo di Riccardo e la fine della sua immagine: è vero esattamente il contrario, my dear Michieletto!  

Sulla personalità di Riccardo così si esprime il regista:

Inoltre è un uomo in conflitto fra il suo essere pubblico e la sua sfera privata. C’è il Riccardo che sta sotto ai riflettori, brillante e sorridente mentre firma autografi e distribuisce strette di mano. Poi c’è il Riccardo che vediamo quando i riflettori sono spenti: la sera arriva per tutti, e Riccardo, spente le luci della ribalta, è un uomo solo; questo il suo dramma di potente. Ama la donna del suo migliore amico, annulla nella risata il suo nervosismo, tradisce un certo forzato esibizionismo, è un narcisista pieno di sé, con tratti infantili.

Mah, qui qualcosa di vero ci può stare, ma il libretto e la musica per la verità ci mostrano un uomo abbastanza genuinamente ottimista, sereno e disincantato; un poco esibizionista forse, ma per nulla nervoso. Di sicuro: nessuno stress da elezioni! Certo: innamorato e, come sempre, l’amore, in specie se è difficile, porta con sé le sue inevitabili pene.

Ecco, fin da qui purtroppo si deve rilevare come il processo tipo1->archetipo->tipo2 operato dal regista sia inficiato da qualche grande o piccola imprecisione, che finisce per rendere abbastanza incoerenti tipo1 (Somma&Verdi) e tipo2 (Michieletto).
___
Veniamo ora alla figura di Amelia (e con lei a quella di Renato). Il punto cruciale si tocca nelle scene dell’atto secondo, che hanno suscitato le maggiori e più scomposte reazioni negative di una parte del pubblico della prima.

Intanto: il campo abbominato (quello dei patiboli, nell’originale) e l’erba miracolosa che vi cresce sono evidenti allegorie (anche senza dover scomodare Freud) che ciascuno può interpretare come crede. Allo stesso modo, il vaneggiamento di Amelia - che sente qualcuno piangere davanti a lei - e soprattutto l’apparizione (allo scoccare di mezzanotte) della testa di una delle persone giustiziate in quel campo, potrebbero avere mille significati, tranne però uno solo: essere delle presenze reali, da rappresentarsi con il più crudo verismo.

Tutta la scena dell’arrivo dei congiurati, con le due sorprese (quella di Sam&Tom di trovarsi di fronte Renato e non Riccardo e poi quella generale della rivelazione dell’identità di Amelia) è - parliamoci chiaro - la parte del libretto di Somma tra le più gratuite e le meno plausibili dell’intera opera (anche se ha dato modo a Verdi di comporci una delle più straordinarie pagine di musica). Sarà anche stata voluta così dal librettista (per irridere i carbonari mazziniani, essendo lui un monarchico simpatizzante per la Società Nazionale Italiana) ma è un fatto che sul piano della logica fa acqua da ogni punto la si guardi.

Se immaginiamo che i congiurati si convincano che Renato (e non Riccardo) fosse l’uomo che avevano inseguito, allo scoprire che la donna con lui è Amelia non avrebbero motivo per gridare (o cantare) allo scandalo: poiché sarà pure strano che due coniugi si trovino in piena notte in quel postaccio ma, visto che son lì da soli - del miele sulle rugiade (a) corcar(si) - fino a prova contraria non si vede perché il fatto in sé dovrebbe poi finire sulle prime pagine dei giornali (cosa che invece sarebbe plausibilissima se i congiurati – come è capitato a Renato - avessero colto in flagrante Amelia con Riccardo).

Se invece immaginiamo che i congiurati restino convinti che fino a poco prima lì ci fosse, con Amelia, proprio Riccardo, allora certamente avrebbero motivo per canzonare Renato e per far circolare lo scandalo (avente per oggetto le corna, null’altro, si badi bene) per la città. Ma in cambio non si capirebbe perché si accontentino dello scandalo, invece di inseguire in ogni dove la loro vittima, che non può certo essersi di molto allontanata…

Delle due versioni la seconda è quella diciamo… meno strampalata (e anche più accreditata): vero è che nell’atto terzo Renato non rivela a Sam&Tom la ragione del suo passaggio nelle loro file, ma chiunque sarebbe portato – a quel punto - ad ipotizzare che sia proprio la questione di corna.

Ora, che fa Michieletto? Intanto sposa decisamente una delle due alternative (e fin qui possiamo seguirlo): precisamente la prima, cioè la meno credibile, che comporta che i congiurati si convincano di aver preso un abbaglio, avendo scambiato il segretario per il Governatore. E che si chiedano perplessi cosa ci stessero a fare due coniugi in un posto come quello. Ed ecco che Michieletto pensa di migliorare il libretto mostrandoci una ragione più che plausibile perché si possa da ciò sollevare un grande scandalo, altrimenti davvero miserello e gratuito: siamo in un luogo frequentato da puttane e ai congiurati Amelia si rivela precisamente come una di loro, e il marito come un magnaccia! Ecco come il regista, nell’intento (lodevole?) di chiarire la situazione allo spettatore un po’ interdetto, si inventa la presenza delle prostitute:
 
Quando Renato presume di aver scoperto il tradimento da parte della moglie, ci sono tanto la gelosia e la rabbia per essere stato tradito proprio con un amico, quanto il fatto che i congiurati gli ridano in faccia per la situazione imbarazzante di essere stato scoperto con la consorte di notte in un luogo particolare, in una periferia tra le prostitute. Ecco lo scandalo. Vedrai domani, cantano, “che baccano sul caso strano e che commenti per la città”: finirai sui giornali, sarai sbeffeggiato, la tua immagine è finita. Amelia viene ridicolizzata perché sembra una delle prostitute che erano in quel luogo. Amelia infatti era stata rapinata della pelliccia e, per celare la sua identità, indossa l’impermeabile bianco della prostituta. Che ci stanno a fare lì, si chiedono i congiurati, quei due? Giochetti di scambisti? Una signora inquieta alla ricerca di novità eccitanti?

Qui il problema non è che Michieletto porti in scena delle luride battone (ciascuno di noi può avere la sua idea di come Verdi avrebbe giudicato la cosa) una delle quali rapina Amelia della pelliccia, lasciandole in cambio il suo soprabitino da sgualdrina. No, qui il problema è squisitamente artistico-estetico. Domanda: è il Ballo per caso un’opera verista? Ahinoi e ahilui, Michieletto – almeno per queste scene dell’atto secondo - pare proprio aver risposto di SI (!?) L’errore che il regista ha commesso qui è, per così dire, di aver voluto strafare, inserendo indebite componenti iper-realiste e veriste in una scena che è invece tutta pervasa da introspezione psicologica e da indecifrabile quanto comica ambiguità.

Per dire, un accenno alle prostitute (purchè fatto con… discrezione e senza farle intervenire nell’azione) avrebbe anche potuto indicare il senso di colpa di Amelia, che si sente (almeno spiritualmente) un’adultera; il che da lontano (ma plausibilmente, secondo un’analisi freudiana) potrebbe apparirle come il primo passo verso la prostituzione (ecco come finiscono le adultere, le suggerirebbe il suo subconscio…) Invece Michieletto si immagina una scena perfettamente e compiutamente verista – quindi totalmente estranea alla natura dell’opera – solo per raggiungere uno scopo tutto sommato secondario: spiegarci in modo più convincente di Somma il perché del riferimento allo scandalo fatto dai congiurati.

E senza accorgersi di aprire così un’autentica voragine sulla credibilità delle vicende successive del dramma. Sì perché, oltre ai congiurati, anche Renato non può non sospettare che la moglie fosse lì non per fargli le corna, ma nell’esercizio di un… secondo lavoro! Ma allora, accipicchia, il buon Riccardo non è più il suo cornificatore unico, bensì uno dei tanti utilizzatori finali delle prestazioni di quella troia di sua moglie! E perché quindi dovrebbe essere lui, e non lei, la prima e unica vittima della sua sete di vendetta? Insomma, il resto del Ballo qui va precisamente a… meretrici (smile!)

Il sospetto che tutto ciò sia quindi una premeditata provocazione del regista (perché Michieletto è di sicuro tutto fuorchè scemo) non mi pare proprio campato in aria. E se ne tira dietro un altro: che la frase dell’intervista citata all’inizio non fosse affatto un’invenzione dell’intervistatore…
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Il processo tipo1->archetipo->tipo2 relativo alla maga Ulrica doveva essere facile-facile, datosi che questa è, fra tutte, la figura indubbiamente più semplice da attualizzare: perché, in fondo, è essa stessa già un archetipo! Eppure Michieletto ha voluto anche qui esagerare, trasformando una veggente e lettrice di carte, di tarocchi e mani in una santona guaritrice di paralitici e di affetti da HIV. Roba da circo equestre! 

Quanto alla caratterizzazione di Oscar - cui Michieletto toglie la dignità di travesti, presentandolo proprio come una donna, e pure professionalmente super-attiva e diligente - mi pare che abbia più difetti che pregi: il personaggio finisce col perdere tutta la sua verve da Cherubino; e soprattutto la musica di cui Verdi lo riveste mi pare del tutto incoerente con l’immagine che ce ne dà il regista, della classica segretaria-racchia-tuttofare-innamorata-del-capo. Infine, si tenga presente che l’equivoco sul sesso di Oscar potrebbe essere, nell’originale, un raffinato accenno alle tendenze omosex di Gustavo III, un’allusione che il regista cancella del tutto.     

Bene, fin qui abbiamo fatto a Michieletto l’esame di teoria e – a mio modestissimo parere – il regista di Scorzè non se l’è cavata per nulla bene: dopo aver impostato correttamente il lavoro, ha finito per contravvenire alle sue stesse premesse, con una serie di scelte discutibili e incoerenti con i suoi presupposti e, ciò che più conta, con l’originale.
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Passiamo quindi all’esame di pratica.

La prima parte del primo atto è presentata con grande efficacia, non c’è che dire. Salvo per gli smaccati riferimenti alla campagna elettorale, che fatalmente gettano sull’ambiente di Riccardo una luce, come dire… faziosa: lì non c’è il popolo, cui il Governatore elargisce magnanimi favori, ma soltanto i fan del candidato che devono aiutarlo nella campagna (e magari qualcuno che invece gli vuol fare le scarpe…) Beh, la distanza dall’originale non è proprio da poco, si ammetterà.

La maga Ulrica, nell’originale, è di pelle nera (dell’immondo sangue dei negri scrive Somma, attirandosi sdegnate accuse di razzismo). Perché noi invece vediamo una megera bianchissima e biondissima? Cos’è, una specie di affirmative action alla rovescia? (smile!)

E poi, chi può mai pensare che uno show televisivo americano di un santone-predicatore venga introdotto da una sigla musicale fatta dalle prime 22 battute della scena sesta del primo atto? Sai quanti trafelati zapping di gente con le mani sui coglioni? (stra-smile!)

Qui mi permetto di fare un appunto tecnico a Michieletto: ad uno spettatore che non conosca bene il libretto risulta del tutto incomprensibile la scena in cui Silvano si ritrova… miracolato. Nessuno riesce a distinguere il momento in cui Riccardo (che è circondato da un nugolo di persone, e nemmeno si capisce quando entri in scena) scrive il biglietto da infilare nella tasca della giacca del suo marinaio. E anche poco dopo, quando Amelia è a colloquio con Ulrica, la presenza di parecchie altre comparse oltre a Riccardo fa perdere gran parte dell’efficacia drammatica di quella scena.

Nella scena del campo abbominato Michieletto si presta anche a critiche a buon mercato, del tipo: ma perché Riccardo, arrivato in BMW, non ci carica Amelia e se ne va, invece di scappare a piedi, lasciando lì la sua lussuosa auto e la sua amante in preda a malviventi? Qui ci si inoltra in uno stucchevole ginepraio di ipotesi, del tipo: sulla strada ci sono posti di blocco di congiurati e lui deve scappare a piedi per un sentiero fra roveti e immondizia (lei no, per via dei tacchi-13). Ma allora: possibile che i congiurati non riconoscano poi che quella è l’auto di Riccardo? Fosse così, andrebbe però a… meretrici (smile!) tutto il discorso sullo scandalo Renato-Amelia nella versione così alacremente  e ingegnosamente costruita dal regista. Risposta: sì, possibile, perché si tratta di una delle tante auto-blu della flotta del Governatore, a disposizione di tutto il suo staff… E via inventando un’obiezione e una giustificazione dopo l’altra, mentre la musica di Verdi… se ne va inascoltata!   

Poi, non contento della sua dettagliata spiegazione del libretto, Michieletto ci mostra apertamente il significato dei versi Ve’, se di notte qui colla sposa l’innamorato campion si posa, e come al raggio lunar del miele sulle rugiade corcar si sa! mostrandoci una simulazione di ciò che avviene in quel lurido luogo, mediante alcune effusioni finocchiose di congiurati sulla medesima BMW. Avanspettacolo puro!

L’estrazione del nome dell’assassino di Riccardo è un altro esempio di quel misto di velleitarismo e di ingenuità che caratterizza la messinscena di Michieletto. Sì, d’accordo, sappiamo bene che sono dei bambini ad estrarre le palline dei numeri vincenti del superenalotto e della lotteriaitalia, e di tutte le riffe di questo mondo. Ma qui il miserevole concetto che il regista ci trasmette è che le colpe dei padri (anzi delle madri) ricadono sui figli! Mammamia…

La scena finale, con tutte quelle sagome di Riccardo che mandano i congiurati in confusione, appare assai suggestiva e ben realizzata. L’idea di sdoppiare corpo (morto) e anima di Riccardo, facendone cantare l’anima nell’atto della lettura, da parte di Amelia, del dispaccio del Governatore è assai poetica e interessante. Senonchè lascia l’effetto che delle ultime volontà di Riccardo venga a conoscenza solo la donna, e non l’intero popolo.

Il che è coerente con l’idea portante di Michieletto (il crollo della figura di Riccardo, accompagnato dall’incendio dei poster elettorali) ma stride maledettamente con la musica di Verdi, che è invece un’autentica apoteosi per il Governatore ingiustamente ucciso. Il conclusivo Notte d’orror! non è certamente il pollice-verso del popolo contro il suo capo, al contrario, rappresenta l’esecrazione per un delitto odioso e per la fine immeritata della guida tanto amata (cui si associano, ipocritamente, anche gli stessi congiurati!)  
   
Ecco, anche l’esame di pratica non mi sembra proprio sia stato superato.

Insomma, una regìa che – come altre di Michieletto – parte da lodevoli presupposti, ma poi finisce per smentirli, poco o tanto, lungo la strada. Ecco perché personalmente non mi sento di promuoverla, pur non arrivando a stroncarla a prescindere. È semplicemente un’interpretazione che non arreca alcun valore aggiunto all’originale, ed anzi paradossalmente lo rende più astruso ed incomprensibile per lo spettatore medio.   

Caso mai, direi che il regista ha qui perso l’occasione per fare una bella profezia su qualche membro della… Casa Reale Britannica (stra-smile!!!)
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Adesso basta Scala per un po’ (conveniva forse che chiudesse per ferie dopo il successo del doppio Ring…) e proiettiamoci verso Pesaro (passando, via-radio, per Bayreuth).

23 febbraio, 2011

Tosca (di Bondy, purtroppo) alla Scala


Dopo Cavalleria-Pagliacci (o viceversa!) ecco ancora un classico del melodramma italico fine-800 alla Scala. Introdotto da una corposa presentazione del professor Michele Girardi (da non confondersi con Enrico Girardi, occhio…) un'autorità in merito, nel consueto appuntamento Prima della prima del 9 scorso. In effetti – sarò sadico, magari, in questa esortazione – ma prima di entrare in teatro a godersi (o a maledire) lo spettacolo, chiunque dovrebbe leggere - meglio ancora: studiare - analisi come questa (vedi pagg. 37 e seguenti) redatta proprio da Girardi, anni fa, per La Fenice. Di sicuro, dalla lettura di un'analisi come questa ci si farebbe un'idea concreta (meglio ancora se si buttasse anche uno sguardo alla partitura) di ciò che è l'originale, in modo da poter poi apprezzarne o censurarne la rappresentazione – scenica e musicale - con un minimo di cognizione di causa, e non sulla base di estemporanee e più o meno viscerali sensazioni. In caso contrario, meglio non far assurgere le proprie pur rispettabili, ma viscerali, sensazioni a giudizi assoluti, di condanna o santificazione che siano. (non parlo qui di giudizi – in un senso o nell'altro – a vario titolo interessati).


Cast annunciato da mesi e mesi e – regolarmente – smontato pezzo per pezzo alla vigilia della prima. C'è ancora un intero mese di inverno, quindi sono da aspettarsi altre vittime (una già annunciata per Britten, ma scommetto che si salverà Francesconi) Però, fossi Mozart, Puccini, Gounod, Verdi e Rossini, non mi fiderei neanche di primavera ed estate: dentro il Piermarini le correnti d'aria devono essere sempre più sbifide.

La prima del 15 – tenuta rigorosamente segreta, come ogni altra replica, alla diffusione radio-tele-web (coda di paglia, come l'inversione Pag-Cav, caro Lissner?) – pare fosse passata secondo recente tradizione: fra irrisioni, più che contestazioni, alla regìa, e alcuni chiassosi, contestati buh per il povero Kapellmeister. Da taluni definito, in pratica, un maestro di cappelle, nel mentre altri lo hanno già elevato al rango di profeta (sarà forse per via della sua provenienza da luoghi biblici, smile!) Accoglienza mista che – sempre stando alle cronache – si era ripetuta anche alla seconda (che recuperava la Dyka) e alla terza, in cui era riemerso dal nulla il bel Jonas. Ieri? Invece, pure. Il loggione mi è parso diviso fra centro-destra (battimani fragorosi e bravi! a josa) e sinistra (secondo piano, in particolare, da cui sono piovuti pesanti buh ai principali protagonisti, direttore escluso peraltro). Che il loggione sia diventato uno specchio del Paese politico, diviso in fazioni ed opposti estremismi?

Ieri sera la prestazione di Omer Meir Wellber mi è parsa francamente apprezzabile, forse perchè alla quarta tornata l'affiatamento con orchestra e interpreti ha potuto migliorare. Qualche fracasso che personalmente trovo eccessivo (non le campane, come riportato da qualcuno per le precedenti recite) ma per fortuna mai a coprire il canto; per il resto una direzione rispettosa della partitura, quindi tutt'altro che da stigmatizzare, né tanto meno da buare. Certo, da qui a vedere in Omer il messia ce ne corre assai e del resto, avendo 30 anni, il nostro non può che migliorare ancora, a meno che non cada vittima della sindrome da notorietà precoce.

Zeljko Lucic è uno Scarpia indecente sotto il profilo della recitazione, ma ciò è quasi certamente da addebitarsi al regista (vedi sotto). Viceversa i suoni che sono usciti dalla sua bocca, pur non incantando, mi son parsi perlomeno dignitosi e lui non meritevole della porzione di buh arrivatigli insieme agli applausi. Imponente la sua entrata nel primo atto ed abbastanza efficace anche la sua prestazione nel secondo, forse con qualche eccesso di declamato/gridato. Per me, comunque, dovrebbe citare il regista per procurato danno di immagine.

Oksana Dyka, come già di recente in Pagliacci, ha mostrato doti naturali notevoli accompagnate da una certa immaturità. Paradigmatico il suo Vissi d'arte (unica aria su cui il pubblico è intervenuto, col loggione diviso fra brava! e buh) in cui ha sfoggiato gran chiarezza di suono, accompagnata da una certa monotonia nell'espressione (e da un singhiozzino anticipato, sul Signor, ah) Insomma, una dignitosa prestazione da parte di questa 33enne, per me meritevole di incoraggiamento.

Il divo-redivivo Jonas ormai lo si conosce, in tutto e per tutto: a voce spiegata, un autentico gigante; nei mezzo-forte e nei piano, o di gola o di testa. Sulla scena è l'unico a fregarsene (anche qui: nel bene e nel male) del regista: lui è sempre lui, Werther, Josè, Mario, tutti fatti con lo stesso stampino. Alla fine anche per lui il mix di bravo! e buh: in questo caso (per me) abbastanza appropriati in proporzione alle qualità positive e negative sopra descritte (smile!)

Bravo lo Spoletta di Luca Casalin, almeno come rapporto prestazione/difficoltà.

Renato Girolami era il Sagrestano, che il regista ha pervicacemente ridicolizzato. Da sufficienza la sua prestazione vocale.

Un discreto Angelotti è stato Deyan Vatchkov, mentre Davide Pelissero e il prezzemolo Ernesto Panariello si son guadagnati la pagnottina, nei panni di Sciarrone e Carceriere. Da elogio anche la prestazione della "pastorella" Barbara Massaro.

Sui suoi abituali standard il Coro di Casoni, integrato da bianche voci, che ben ha reso la scena madre del Te-deum, a dispetto della regìa.

Ecco appunto, la messinscena: il fatto che il MET e München già ci avessero messo sull'avviso nulla toglie alla sensazione di autentica pena che si prova assistendo a questa pagliacciata. Purtroppo, oltre a soffrire le contingenze di stagione, Tosca deve avere un qualche strano e arcano potere: risultare indigesta a parecchia gente. È rimasta famosa l'idiosincrasia di Mahler per quest'opera (non per Puccini, attenzione) da lui definita, al primo e forse unico ascolto, un lavoro magistralmente abborracciato, che qualunque apprendista-calzolaio era in grado di scrivere… e conseguentemente e coerentemente mai diretta in vita sua.

Ecco, Luc Bondy si deve esser fatto suggestionare dal giudizio di Mahler, e quindi ha deciso – bontà sua - di riscrivere Tosca. Interessante ed istruttivo quanto si ascolta in questa sua intervista, dove il regista spiega il suo approccio. Attorno a 1':10" il nostro afferma candidamente che il libretto (parla dell'omicidio di Scarpia) è stupido e che quindi lui (il genio!) ci ha dovuto mettere le mani, mostrandoci Tosca che minaccia di buttarsi dalla finestra (apperò!) Poco dopo (1':43") per giustificare le sue efferatezze, Bondy spara un'autentica carognata, affermando che Sardou fu spesso in disaccordo con Puccini riguardo a scelte del libretto, e proprio mentre si parla del finale secondo. Ciò è un clamoroso falso: ci furono, effettivamente, divergenze fra Sardou e i librettisti di Puccini, ma sempre il compositore si schierò con il drammaturgo, e convinse i suoi librettisti a seguirlo. La chiusa dell'atto è pari-pari, ma proprio nei minimi dettagli, come la descrive Sardou, non come ce la mostra Bondy! E lo stesso dicasi per il finale terzo, dove Puccini impose di rispettare il dramma di Sardou (Tosca che si getta dallo spalto) ai suoi librettisti, intenzionati a farne una ridicola, tristaniana Liebestod. Ancora, a 2':02" il candido Luc afferma "non è originale!", e poi "non è nulla di originale, né di speciale, in fondo è solo un'opera". E quindi rivendica il diritto di farne strame (?!) Insomma: parodia e dissacrazione elevate a principio assoluto. A 2':45" si incarta poi in un ragionamento senza capo né coda, affermando che Puccini non è Berg (ma l'ha ascoltata bene la scena della tortura, il nostro genio?) e che Schönberg era un ammiratore di Puccini, ma che fra loro ci fu sempre rivalità (sic!) Poi, bontà sua, riconosce che Tosca (insieme a Salome) è il top dell'opera, è molto buona, ma che ciò non basta (?!) Mah, o era ubriaco, oppure è del tutto fuori di melonera.

Domanda: ma se un'opera non ti va a genio, mio caro Luc, perché non ti limiti semplicemente ad ignorarla, come fece il saggio Gustav? Occupati d'altro, di cioccolatini ad esempio, invece di accanirti su un oggetto che disprezzi. Questa regìa fu sonoramente contestata al MET nel 2009, poi a Monaco nel 2010: si disse, ad opera di nostalgici di Zeffirelli. Ma buare è ancora nulla: qui ci vorrebbero punizioni e multe severe per chi si macchia di simili nefandezze. Come gridava Bracardi? In galera!

A Milano il nostro – mostrando pure una buona dose di vigliaccheria (leggi: non avere il coraggio delle proprie scelte) – ha edulcorato o eliminato i particolari più dissacranti (chi non ha visto dal vivo le recite del MET e di Monaco, o si è perso la diffusione di arte, può trovare ampi documenti su youtube che testimoniano delle scelte al limite della provocazione fatte dal regista svizzero) credendo così di farla franca a buon mercato (o pensando che il pubblico italiano sia fatto da trogloditi bigotti, non abbastanza intelligenti per capire un genio come lui). In pratica, dal suo mix dissacrazione+parodia ha tolto la dissacrazione. Quindi indovinate voi cosa è rimasto…

La sua vittima principale, quanto a rappresentazione dei personaggi, è il povero Scarpia, che non è propriamente un comprimario insignificante, ma nientemeno la zeppa che sostiene l'intera volta strutturale dell'opera. Nel primo atto, in chiesa, alla fine del Te Deum, lo Scarpia di Bondy evita (come faceva al MET) di palpeggiare la statua della Madonna (forse perché qui siamo a Milano, a duecento metri dalla Madunina) ma le si avvicina fin quasi a baciarla sulla bocca! Sarebbe questo il modo di rappresentare la sua perversa personalità, il suo abietto uso della Religione e della Politica per soddisfare la sua concupiscenza (Tosca, mi fai dimenticare Iddio)?

Nella scena iniziale del secondo atto, avevamo visto (al MET e a Monaco) Scarpia farsi pompinare non da una, ma da tre puttane, regolarmente pagate in contanti dallo Spinelli… ops, dallo Sciarrone di turno. Alla Scala il blowjob è censurato (c'è paura del mite Tettamanzi, per caso?) ma il risultato non cambia. Bondy – da svizzero, pur zurighese – dovrebbe conoscere un po' di italiano; altrimenti, chieda al primo che passa per la strada di spiegargli cosa canta Scarpia, in modo da farsi un'idea di quale pasta sia fatto il barone siculo al servizio dei borboni appaltato dal Vaticano. Ha più forte sapore la conquista vïolenta che il mellifluo consenso. Che è la splendida, fulminante e concisa rappresentazione dell'originale di Sardou: Une femme qui se donne, la belle affaire... J'en suis rassasié, de celles-là!... Mais ton mépris et ta colère à humilier... ta résistance à briser et à tordre dans mes bras!... Pardieu, c'est la saveur de la chose, et ta résignation me gâterait la fête!... Queste parole, Luc Bondy, che non può non conoscere il francese, le ha lette? Ha idea di cosa raccontino della personalità di Scarpia? Evidentemente no: lui, come ha del resto candidamente ammesso nell'intervista di cui sopra, del libretto (e della musica?) dell'opera che deve allestire, non si cura, essendo una cosa stupida.

Ancora Scarpia: Io di sospiri e di lattiginose albe lunari poco mi appago. Non so trarre accordi di chitarra, né oroscopo di fiori, né far l'occhio di pesce, o tubar come tortora! Bramo. La cosa bramata perseguo, me ne sazio e via la getto, vòlto a nuova esca. Ora, cosa vediamo noi in tutta la scena della tortura? Uno Scarpia che fa il cascamorto con Tosca, che le fa precisamente l'occhio di pesce e che comicamente tuba come tortora. Roba da matti… anzi, da Berlusconi, con il terzo piano di (quello che dovrebbe essere) Palazzo Farnese ridotto a scantinato da bunga-bunga, vomitevole.

Quanto a Floria, Bondy ne ha attenuato, a Milano, i caratteri di schizoide, nevrotica, volgare e pure scema e vanesia che le aveva appioppato al MET. Resta la stupidaggine dello sfregio al dipinto della Maddalena (a proposito, scusate: ma qualcuno ha imposto che abbia sempre la tetta sinistra al vento? Ronconi, Carsen e adesso Bondy così ce la rappresentano) E resta l'assurdo finale secondo: dopo aver pugnalato Scarpia nelle palle (il libretto, si sa, è stupido e prescrive una sola coltellata al cuore) gli dà un'altra coltellata, precisamente sull'unico colpo di piatti previsto in partitura, proprio al cuore (altrimenti il bruto farebbe una fine atto come Amfortas nel Parsifal) e poco dopo, altre due coltellate (l'ultima a due mani, orripilante) sulle parole muori, muori, muori! Poi fa per buttarsi dalla finestra (appunto, a proposito della stupidità del libretto… di Bondy!) quindi ci ripensa e si stende stanca, ebete ma soddisfatta sul sofà, ad asciugarsi il sudore col ventaglio dell'Attavanti (?!)

E pensare che Puccini nel comporre Tosca ci ha messo tutta la sua inventiva e la sua pignoleria, arrivando a scrivere in partitura particolari come questo:
Di cui Bondy si sbatte altamente i coglioni, come di tutto il resto… Il terzo atto è addirittura stravolto nella sua originaria drammaticità. Non parlo della partita a scacchi fra Mario e il carceriere, roba da avanspettacolo. No, è che per Bondy i due protagonisti si comportano come se fossero consapevoli che l'imminente esecuzione sarà proprio vera e non simulata: già la scena rimane sempre avvolta nella totale oscurità (la fantastica alba su Roma dev'essere stupida cosa, ovviamente) e poi Cavaradossi che appallottola e getta via il salvacondotto, i due che cantano il Trionfal come fossero al funerale… insomma, siamo al totale ribaltamento della situazione emotiva costruita dal libretto (e dall'originale di Sardou) il che priva il finale del drammatico colpo di scena determinato dalla non simulazione della pena. E, coerentemente con la stupidità della sua regìa, Bondy fa salire Tosca lungo una scala, con studiata compostezza e la fa lentamente scomparire in una torre. Penoso.

E che dire delle scene di Peduzzi? Ma perché continuano (no anzi, continuiamo noi!) a pagarlo per le sue scenografie sempre uguali? Per restare solo alla Scala negli ultimi anni: Tristan, Carmen, Casa di morti, Tosca: tutto uguale! Muraglie da archeologia industriale, cupe e deprimenti. Sant'Andrea, Palazzo Farnese, Castel Sant'Angelo: non c'è differenza alcuna fra una basilica barocca, una quasi-reggia rinascimentale ed un castello di origine adriana, il tutto è ridotto peggio delle più sconce stazioni del metro del Bronx.

Quanto ai costumi della Canonero, sono almeno vagamente plausibili, e ciò va tutto a suo merito.

Non aggiungo altro, salvo la constatazione che la stagione – iniziata così-così con Wagner e proseguita cosà-cosà con il dittico – non mi pare si stia riprendendo alla grande con questa Tosca, passabile sul fronte musicale, ma deprimente su quello scenico. E ci attende ora una Morte… già depauperata del primattore.

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Girovagando attorno a Tosca.

Sui cambi d'abito.

Qualcuno si è - del tutto a torto – scandalizzato per il fatto che l'abito indossato nel terzo atto da Tosca in questa edizione è visibilmente diverso da quello che la cantante indossa nel secondo. Perché a torto? Perché la cosa è invece naturale e direi quasi doverosa (e infatti quasi tutte le produzioni ce la propongono così). In effetti chi ha presente il dramma di Victorien Sardou (cui si ispirarono Giacosa-Illica per il libretto del melodramma) può essere tratto in inganno, poiché in Sardou il colloquio finale fra Scarpia e Tosca non avviene a Palazzo Farnese e nel bel mezzo di una festa in onore della regina, ma proprio a Castel Sant'Angelo, nell'appartamento di Scarpia, a due passi dalla prigione dove è detenuto Mario e a tre dalla piattaforma sulla quale verrà fucilato. Tosca vi è stata portata dopo la drammatica serata-nottata nella casa di campagna dell'amato (atto III) durante la quale lei ha rivelato il nascondiglio di Angelotti, poi suicidatosi. Lei veste (verosimilmente) ancora gli abiti da cerimonia che indossava precedentemente (atto II) a Palazzo Farnese, a meno di ipotizzare un suo passaggio da casa a cambiarsi, prima di andare da Mario, cosa peraltro inverosimile, data la fretta che Tosca ha di cogliere in flagrante i supposti trescanti (e poi è tutto sommato ininfluente sulla questione dibattuta qui). Dopo aver ucciso Scarpia (fine atto IV) Tosca si reca immediatamente alla prigione di Mario (inizio atto V) e quindi non può certo avere un abito diverso da quello indossato nei tre (o come minimo due) atti precedenti. Si noti che Tosca non fa cenno alcuno a Mario di eventuali preparativi da lei fatti in vista della fuga (non ne avrebbe avuto materialmente la possibilità): si limita a dire che loro hanno da 4 a 7 ore di margine (prima che si scopra l'ammazzamento di Scarpia) per abbandonare lo Stato e che non avranno problemi a raggiungere Civitavecchia, disponendo della carrozza che Scarpia ha (meglio: disse di aver…) messo a loro disposizione.

Invece sappiamo che il libretto del melodramma prevede che il colloquio, seguito dall'accoltellamento, fra Tosca e Scarpia avvenga appunto a Palazzo Farnese, al piano superiore a quello in cui è in corso la festa per la regina, di cui Tosca è stata la protagonista canora. E quindi Tosca, prima del terzo atto dell'opera, deve necessariamente spostarsi (di circa 1 Km) da Palazzo Farnese a Castel Sant'Angelo. Una volta lì, cosa racconta a Mario? Cito dal libretto: (mostrando la borsa) io già raccolsi oro e gioielli… una vettura è pronta. Questa frase, del tutto assente in Sardou (vettura a parte) e inventata di sana pianta dai librettisti di Puccini, ci dice senza la minima ombra di dubbio che Tosca, dopo aver abbandonato Palazzo Farnese e prima di recarsi a Castel Sant'Angelo, è passata da casa, a recuperare oro e gioielli (non poteva di certo averne portato con sé una borsa piena a Palazzo Farnese, quando l'ultima cosa che poteva immaginare era la brutta piega che avrebbe preso la serata!) e procurarsi una carrozza. E quindi non può non aver ragionevolmente approfittato di questa sosta anche per cambiarsi d'abito, togliendosi quello (verosimilmente ingombrante, scomodo ed appariscente) della cerimonia regale, per indossarne uno più adatto all'imminente viaggio (che sarebbe in verità una fuga in piena regola).

La richiesta di grazia alla regina

A proposito di inesattezze (un assoluto dilettante come me ci gode un mondo a prendere simpaticamente in castagna qualche autorità…) nel peraltro interessante ed approfondito scritto del prof. Giulio Paduano pubblicato sul programma di sala, si sostiene che l'onnipotenza di Scarpia sia tratto innovativo della situazione operistica rispetto a Sardou (…) in Sardou la posizione di Scarpia è subalterna (…) Tutto questo orizzonte è sgombrato nell'opera di Puccini per lasciar posto ad un incontestato diritto di vita e di morte, a proposito del quale non fa aggio neppure il potere della regina; è nominato sì: da lei Tosca può ottenere la grazia per Mario, ma Scarpia ha il potere di far sì che arrivi troppo tardi. In poche parole, Paduano cerca di convincerci che Illica-Giacosa-Puccini siano più convincenti di Sardou, portandoci un esempio che… dimostra proprio il contrario! Vediamo perché.

Nel dramma di Sardou Tosca è, come sappiamo, a Castel Sant'Angelo, quasi all'alba. Pur avendo una carrozza a disposizione (come le garantisce Scarpia) Tosca dovrebbe: uscire dal castello, andare a Palazzo Farnese (e fin qui son pochi minuti); ma poi farsi aprire, buttare letteralmente giù dal letto la regina (!?) convincerla a firmare la grazia e tornare al castello in tempo per bloccare l'esecuzione. Francamente una mission impossible, come la poveretta deve subito constatare, convinta dell'inutilità dei suoi sforzi dalle parole di Scarpia che l'avverte che la grazia arriverebbe con almeno un'ora di ritardo. Cosa forse esagerata quantitativamente, ma ben plausibile nella sostanza, dato che Scarpia potrebbe far impiccare Mario, detenuto lì accanto, nel giro di pochi minuti.

Invece nel libretto italico le cose stanno in modo assai diverso ed assai meno plausibile: perché, nonostante Scarpia cerchi di dissuadere Tosca affermando che a Mario resta solo un'ora di vita, è pur vero che Tosca si trova a distanza di pochi metri dalla regina (terzo e secondo piano dello stesso Palazzo Farnese); e la regina è probabilmente ancora sveglia, o si sta appena preparando a ritirarsi, dopo la festa; e soprattutto, se convinta da Tosca, potrebbe addirittura convocare Scarpia seduta stante per ingiungergli di non dar corso all'impiccagione, se non addirittura di far immediatamente riportare lì il Cavaradossi in carne ed ossa. E del resto – a differenza del dramma di Sardou - Scarpia non ha Cavaradossi lì accanto (il condannato è per strada verso Castel Sant'Angelo) e non potrebbe quindi farlo giustiziare in pochi minuti. Perciò il fattore-tempo, addotto dal barone per far desistere Tosca, qui è assai debole: su questo punto è Sardou ad essere impeccabile quanto a plausibilità e realismo, molto meno i librettisti di Puccini.

Il terzo atto, prima e dopo

Sempre sul programma di sala di questa edizione di Tosca, compare un interessantissimo articolo di Pier Giuseppe Gillio, che riporta documenti inediti riguardanti la prima versione del libretto del terzo atto, ad opera di Luigi Illica, con successivi interventi di Giuseppe Giacosa. Versione che fu ampiamente tagliata e drasticamente modificata per arrivare a quella finale.

La didascalìa che Illica aveva steso per presentare l'inizio dell'atto (largamente espunta nell'edizione definitiva) reca una minuziosa descrizione dei rintocchi di campana che si odono dopo la canzone del pastorello (che mancava in questa originaria versione). E si può verificare sulla partitura come Puccini vi abbia tenuto fede, peraltro dilatandone poi l'estensione. Illica scrive: Lontanissimo, nell'estremo fondo, da San Pietro Montorio viene fioco fioco il suono di campana che chiama a mattutino. In effetti la chiesa si trova a sud di Castel San'Angelo, a circa 1.500m in linea d'aria. In partitura Puccini segna questo suono con indicazione lontanissimo e con una successione di 3, poi 4, poi 5 minime (siamo in 4/4) separate da una pausa di minima. La nota è SI naturale sotto il rigo della chiave di violino. Prosegue Illica: subito, dopo breve intervallo, vi risponde la piccola campana del convento di Sant'Onofrio, nel medio fondo, a destra. In effetti Sant'Onofrio si trova a circa 500m a sud-ovest di Castel Sant'Angelo, quindi giustamente a destra, guardando dal castello. Puccini indica meno lontano e segna il suono come una successione di semiminime (campana piccola!) di RE naturale, intervallate da pause di semiminima. I primi cinque rintocchi si alternano-sovrappongono a quelli di San Pietro Montorio. Ancora Illica: poi, sola ancor, e più accelerata, la campana della Chiesa de' Miracoli, vicinissima, a sinistra, batte mattutino. Qui Illica si prende una certa libertà, in quanto la chiesa è sì a sinistra (sta a nord-est del castello) ma non è proprio vicinissima (è a circa 1.000m di distanza). Puccini indica vicino e segna il suono come tre serie di 3, 4, 5 semiminime consecutive (più accelerata!) separate da una pausa di semiminima. Come si vede, una rappresentazione musicale assolutamente fedele alla descrizione del librettista, descrizione poi espunta dal testo dato alle stampe.

Puccini poi estende la presenza dello scampanìo fino a far intervenire, prima dell'aria di Mario, anche il campanone di San Pietro, segnato come MI naturale gravissimo in minime.

Di qualche interesse anche l'orario degli avvenimenti. Nel libretto definitivo il terzo atto si apre poco dopo le tre del mattino, come si può dedurre dal fatto che l'esecuzione avviene alle 4 (suonano le 4 del mattino, è scritto in didascalìa) e prima il carceriere ha avvertito Cavaradossi con il famoso vi resta un'ora. Invece Illica, nella stesura originale, posticipava tutto di ben due ore (suonano le ore sei, si legge sul libretto originario al momento dell'esecuzione di Mario, dopo il famoso inno latino, che Puccini sbeffeggiò come trionfalata, cassandolo senza pietà). Credo che tutto sommato abbia avuto ragione Puccini a restar fedele ai tempi di Sardou, anche per ragioni, come dire… astronomiche: non dimentichiamo che siamo al mattino del 18 giugno, praticamente al solstizio d'estate!

Di grande interesse anche la versione originaria dell'epilogo. Illica ne voleva fare un finale à la Lucia, o Linda, o Macbeth (così scriveva Eugenio Checchi nel 1897, come ci informa sempre l'articolo di Pier Giuseppe Gillio). In realtà a me pare che il modello più calzante fosse il wagneriano Liebestod. Tosca tesse le lodi dell'amato rivolgendosi a donne preganti; poi chiude con questi versi, rivolti ad un immaginario gondoliere: Non è morto – Sai. Dorme… è stanco. Via tutti, via tutti! – L'onde dei tremuli – Canali baciano – Le vecchie istorie – Le vecchie glorie… - Non cantar gondoliero… piano, piano… - Voglio un grande silenzio a noi d'intorno – Silenzio eterno con eterno amore… (E Tosca, col cadavere di Mario in grembo, rimane immobile col dito sulle labbra nell'atto di imporre silenzio al fantastico gondoliero che essa vede nel suo pensiero). Roba da chiodi! Un monumento a Puccini per aver dato retta a Sardou, e definito 'sta roba come aria del paletot.
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