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22 luglio, 2022

Muti chiude il Ravenna-Festival con la sua Cherubini

L’ultimo appuntamento del Ravenna-Festival 2022 (poi ci sarà la stagione operistica autunnale) è stato riservato al consorte della padrona di casa (aka Riccardo Muti) reduce dall’ormai tradizionale puntata delle Vie dell’Amicizia che quest’anno lo ha portato a Lourdes e a Loreto con la sua Cherubini e – doveroso rispetto all’attualità e al gemellaggio Ravenna-Kiev del 2018 – a componenti di Orchestra e coro dell’Opera Nazionale Ukraina, con un programma significativamente imperniato su Vivaldi-Mozart-Verdi ma con inserti ukraini e baschi nelle due tappe.

Ieri Muti si è invece esibito – al PalaDeAndré con la sola Cherubini (cui si sono aggiunti due strumentisti dell’Opera di Kiev, il primo oboe Dmytro Gudyma e la violinista Oleksandra Zinchenko) - in un concerto di insolita ma interessante impaginazione. Ha infatti aperto la serata la Sinfonia in DO maggiore di George Bizet, battezzata Roma perché colà composta in occasione della permanenza nella città eterna del vincitore del Prix-de-Rome del 1857. Rispetto a quella più sbarazzina del 1855, rivelata al pubblico a Bizet ormai scomparso da tempo, questa è un’opera più pretenziosa e cerebrale, che anticipa nella forma e nel contenuto il più famoso e posteriore Aus Italien di Strauss (brano prediletto dal giovane Muti in odore di… Scala): vi si evocano Roma (una caccia nella foresta di Ostia), Venezia, Firenze (una processione) e (proprio come Strauss) Napoli (carnevale).

Chissà se è l’ignoranza del pezzo ad aver portato il pubblico ad applaudirne regolarmente anche i tre primi movimenti. Va in ogni caso riconosciuto a Muti e ai suoi ragazzi di aver fato di tutto per… indorare la pillola, ecco!
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Dopo l’intervallo ecco un siparietto dedicato ad una premiazione: il Festival ha voluto così offrire un pubblico riconoscimento a Silvia Lelli che da 40 anni (con il compagno Roberto Masotti) fotografa artisti ed in particolare musicisti. Fra questi anche Muti, da lei seguito fin dai primi passi ed in particolare nei suoi anni di presenza alla Scala. Così il Maeschtre non ha perso l’occasione per suggerire al teatro che lo cacciò in malo modo di impiegare il materiale fotografico della Lelli per farci una mostra permanente…  
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Un brano che di solito apre la serata concertistica è stato invece qui eseguito per aprire la seconda parte del concerto: si tratta del brevissimo schizzo sinfonico (meno di 8 minuti, 82 battute in tutto) di Anatoli Ljadov, titolato Il lago incantato (ma anche Leggenda). Arabeschi dell’arpa e della celesta accompagnano le ondeggianti semicrome dei violini mutuate dal wagneriano Waldweben in un’atmosfera che non presenta nemmeno una piccola increspatura, terminando proprio come era iniziata e lasciando francamente perplesso l’ascoltatore che si aspettasse almeno un sussulto, non dico un temporale.

Anche qui facciamo i complimenti all’Orchestra per la raffinatezza e la trasparenza del suono, ingredienti indispensabili per non far scadere il pezzo nella banalità.
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Ha chiuso il concerto il celebre poema sinfonico di Liszt Les Preludes. Del quale ripropongo una succinta analisi pubblicata anni fa in occasione di un concerto de laVerdi.

Muti si è mantenuto fedele al suo approccio originale all’opera, approccio assai sostenuto e severo, come possiamo constatare in questa registrazione del 15 agosto 2012 a Salzburg con i Wiener. Ieri se possibile Muti mi ha dato l’impressione di calcare ancor più la mano in fatto di prosopopea e retorica.

Tanto per confrontare il suo approccio con uno assai diverso (che si materializza in quasi 2 minuti di durata in meno, su più di 17…) ecco come ci propose il brano Zubin Mehta con i Berliner, nel lontano 1995. Un’analisi più puntuale delle differenze mostra che esse non si distribuiscono uniformemente su tutta la durata del brano, il che porta a concludere che l’approccio di Mehta sia – nell’agogica quanto meno – assai più ricco di contrasti rispetto a quello di Muti.

Ma l’importante è che la Cherubini abbia confermato le sue ottime qualità (su quelle del Direttore-Fondatore non si discute…) che il folto pubblico non ha mancato di apprezzare distribuendo applausi e bravo! a tutti.

Altro intervento maieutico di Muti, che ha ricordato con colorite espressioni l’insipienza con la quale i nazisti impiegarono il tema principale dell’opera per farsi propaganda bellica… dopodichè ci ha lasciato con l’Intermezzo della Fedora, non senza una punta di bonaria polemica con i romagnoli, sedicenti esperti verdiani che però ignorano questa non disprezzabile musica di uno che veniva da… Foggia.
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Oggi sulle spiagge romagnole la vita riprende con il solito, sonnolento tran-tran: nessun sintomo (ancora) dell’apocalisse che si prevede scatenarsi sull’ingrato Paese reo di aver cacciato il suo magnifico quanto disinteressato benefattore…

09 novembre, 2010

Gergiev-Kavakos aprono la stagione dei Trepper Philharmoniker



Con un programma tutto russo è stato Valeri Gergiev ad inaugurare la stagione della Filarmonica della Scala. Fosse per lui, i fabbricanti di bacchette da direzione d'orchestra andrebbero inesorabilmente falliti. Ma lui non ne ha bisogno poiché di bacchette ne ha 10, quante le dita delle sue mani, che muove vorticosamente, come fossero ali di colibrì. Ospite di riguardo Leonidas Kavakos, che invece si guarda bene dal suonare a mani nude (smile!)

 
Prima del concerto, in un Piermarini esaurito - bene, bene! - Ernesto Schiavi, Direttore artistico della Filarmonica, insignisce Gergiev del titolo di Socio onorario dell'Orchestra, in omaggio ai suoi 20 anni di consuetudine con i filarmonici, iniziata nel 1990 con un concerto di contenuto assai vicino a quello odierno.

 
Che come antipasto prevede Il lago incantato, un breve (neanche 8 minuti) poema sinfonico di Anatoli Ljadov, sottotitolato Leggenda. Non è propriamente il classico brano con cui spesso si apre fragorosamente un concerto (qui ci poteva stare a meraviglia, per dire, l'ouverture di Ruslan&Ludmila) per consentire a qualche ritardatario di prender posto senza disturbare troppo, o per richiamare all'ordine il solito indefesso chiacchieratore, o magari per consentire a qualche appisolato-precoce di rimettersi in linea. No, questa è musica fatta apposta per prender sonno, cullati dagli arpeggi… dell'arpa (smile!) dagli arabeschi carillon-eschi della celesta e dalle semicrome dei violini, mutuate dal wagneriano Waldweben. Cosa simile fu perpetrata già lo scorso maggio da laVerdi all'Auditorium, con esiti ugualmente imbarazzanti. Francamente, la barcarola di Offenbach è (in questo genere) davvero imbattibile… ma qui ci voleva – evidentemente – il passaporto russo!

 
Si comincia a far sul serio (ecco, per la verità qui qualcuno potrebbe obiettare…) con l'Opus 35 di Ciajkovski. Che il concerto sia diventato famoso (almeno da noi) grazie allo spot brandy-brindereccio dei mai abbastanza rimpianti Vianello-Mondaini è peraltro cosa da non demonizzare, datosi che il buon Piotr per primo, per fargli una bella campagna pubblicitaria, si servì nientemeno che dei favori di tale Carmen (una escort di cui il nostro gay si era maledettamente infatuato, smile!):


 
Kavakos cavalca a meraviglia questa partitura – che ai tempi fu considerata ineseguibile – passando disinvoltamente dalla leziosità dell'iniziale Allegro, alla struggente malinconia della Canzonetta, al vorticoso e impervio Allegro vivacissimo che chiude l'opera. L'orchestra lo spalleggia a dovere, eccetto forse alcuni interventi troppo invadenti dei due corni. Trionfo per lui, ricambiato da un lungo bis distensivo quasi a disintossicarsi dalla droga ciajkovskiana.

 
A bilanciare l'impalpabilità e i tratti morfeici del Liadov che aveva aperto la serata, la chiusura è un Ciajkovski che – perlomeno nei due movimenti esterni della sua Quarta - più assordante e fracassone non si potrebbe. Questa sinfonia è – con l'eccezione di parte dei due movimenti interni – una specie di distillato di retorica del dolore, un romanticismo che in certi momenti parrebbe in avanzato stato di decomposizione, ma che sa ancora scatenare forze smisurate. Diciamo la verità, il Ciajkovski serio verrà fuori più avanti, un 15 anni dopo, allorquando tutti i suoi nodi esistenziali arriveranno fatalmente al pettine, con la Patetica. Qui invece siamo in buona misura all'affettazione, all'autoflagellazione piuttosto gratuita; assai poco giustificata, fra l'altro, dai casi dell'esistenza (per dire, l'idea della sinfonia venne a Ciajkovski nell'inverno del 1876, cioè assai prima della crisi seguita al matrimonio immediatamente naufragato con Antonina, e quando il compositore stava pensando anche all'Onegin). Una cosa simile accadrà al Mahler della sesta (rispetto alla nona, per intenderci). In effetti, perlomeno a me, questa sinfonia lascia proprio l'impressione di un gigantesco fuoco di paglia: ti dà l'illusione di un'eruzione vulcanica ma poi, in quattro e quattr'otto, non ne resta che poca cenere, che se ne vola via con la prima folata di vento.

 
Detto tutto il male possibile (smile!) dell'opera, va invece dato a… Valery quel ch'è tutto suo, di diritto. Una lettura strepitosa, per me, con punte di diamante nei contro-soggetti, come il passaggio in SI maggiore del primo movimento, dove i legni dialogano con i violini in una specie di gioco a rimpiattino; o l'emozionante entrata, nel secondo movimento, del tema in SOL maggiore (un tema in sè insulso, che scende e sale banalmente da tonica a dominante) che davvero è parso emergere come una venere dalle acque, pieno di freschezza e leggerezza; e la prima irruzione dell'oboe nello scherzo, dopo il generale pizzicato degli archi; e poi il tema della betulla del finale, che nelle mani di Gergiev trasloca dagli archi a tutti gli ottoni con un crescendo mozzafiato.

In due parole: un trionfo.

 
Quanto alla Filarmonica, quando viene strigliata a dovere da un Kapellmeister che evidentemente non tollera approssimazioni e facilonerie, mostra di non essere poi così da discarica come molti la descrivono. Ecco perché la nomina, da parte del Teatro alla Scala - che è allo stesso tempo cliente e fornitore unico dell'orchestra (per le due stagioni concertistiche) oltre che datore di lavoro dei professori (per la stagione opera-balletto) - di un Direttore musicale, che la prenda per mano (e magari pure per le orecchie, quando serve!) si mostra ogni giorno di più come improcrastinabile.