Con un programma tutto russo è stato Valeri Gergiev ad inaugurare la stagione della Filarmonica della Scala. Fosse per lui, i fabbricanti di bacchette da direzione d'orchestra andrebbero inesorabilmente falliti. Ma lui non ne ha bisogno poiché di bacchette ne ha 10, quante le dita delle sue mani, che muove vorticosamente, come fossero ali di colibrì. Ospite di riguardo Leonidas Kavakos, che invece si guarda bene dal suonare a mani nude (smile!)
Prima del concerto, in un Piermarini esaurito - bene, bene! - Ernesto Schiavi, Direttore artistico della Filarmonica, insignisce Gergiev del titolo di Socio onorario dell'Orchestra, in omaggio ai suoi 20 anni di consuetudine con i filarmonici, iniziata nel 1990 con un concerto di contenuto assai vicino a quello odierno.
Che come antipasto prevede Il lago incantato, un breve (neanche 8 minuti) poema sinfonico di Anatoli Ljadov, sottotitolato Leggenda. Non è propriamente il classico brano con cui spesso si apre fragorosamente un concerto (qui ci poteva stare a meraviglia, per dire, l'ouverture di Ruslan&Ludmila) per consentire a qualche ritardatario di prender posto senza disturbare troppo, o per richiamare all'ordine il solito indefesso chiacchieratore, o magari per consentire a qualche appisolato-precoce di rimettersi in linea. No, questa è musica fatta apposta per prender sonno, cullati dagli arpeggi… dell'arpa (smile!) dagli arabeschi carillon-eschi della celesta e dalle semicrome dei violini, mutuate dal wagneriano Waldweben. Cosa simile fu perpetrata già lo scorso maggio da laVerdi all'Auditorium, con esiti ugualmente imbarazzanti. Francamente, la barcarola di Offenbach è (in questo genere) davvero imbattibile… ma qui ci voleva – evidentemente – il passaporto russo!
Si comincia a far sul serio (ecco, per la verità qui qualcuno potrebbe obiettare…) con l'Opus 35 di Ciajkovski. Che il concerto sia diventato famoso (almeno da noi) grazie allo spot brandy-brindereccio dei mai abbastanza rimpianti Vianello-Mondaini è peraltro cosa da non demonizzare, datosi che il buon Piotr per primo, per fargli una bella campagna pubblicitaria, si servì nientemeno che dei favori di tale Carmen (una escort di cui il nostro gay si era maledettamente infatuato, smile!):
Kavakos cavalca a meraviglia questa partitura – che ai tempi fu considerata ineseguibile – passando disinvoltamente dalla leziosità dell'iniziale Allegro, alla struggente malinconia della Canzonetta, al vorticoso e impervio Allegro vivacissimo che chiude l'opera. L'orchestra lo spalleggia a dovere, eccetto forse alcuni interventi troppo invadenti dei due corni. Trionfo per lui, ricambiato da un lungo bis distensivo quasi a disintossicarsi dalla droga ciajkovskiana.
A bilanciare l'impalpabilità e i tratti morfeici del Liadov che aveva aperto la serata, la chiusura è un Ciajkovski che – perlomeno nei due movimenti esterni della sua Quarta - più assordante e fracassone non si potrebbe. Questa sinfonia è – con l'eccezione di parte dei due movimenti interni – una specie di distillato di retorica del dolore, un romanticismo che in certi momenti parrebbe in avanzato stato di decomposizione, ma che sa ancora scatenare forze smisurate. Diciamo la verità, il Ciajkovski serio verrà fuori più avanti, un 15 anni dopo, allorquando tutti i suoi nodi esistenziali arriveranno fatalmente al pettine, con la Patetica. Qui invece siamo in buona misura all'affettazione, all'autoflagellazione piuttosto gratuita; assai poco giustificata, fra l'altro, dai casi dell'esistenza (per dire, l'idea della sinfonia venne a Ciajkovski nell'inverno del 1876, cioè assai prima della crisi seguita al matrimonio immediatamente naufragato con Antonina, e quando il compositore stava pensando anche all'Onegin). Una cosa simile accadrà al Mahler della sesta (rispetto alla nona, per intenderci). In effetti, perlomeno a me, questa sinfonia lascia proprio l'impressione di un gigantesco fuoco di paglia: ti dà l'illusione di un'eruzione vulcanica ma poi, in quattro e quattr'otto, non ne resta che poca cenere, che se ne vola via con la prima folata di vento.
Detto tutto il male possibile (smile!) dell'opera, va invece dato a… Valery quel ch'è tutto suo, di diritto. Una lettura strepitosa, per me, con punte di diamante nei contro-soggetti, come il passaggio in SI maggiore del primo movimento, dove i legni dialogano con i violini in una specie di gioco a rimpiattino; o l'emozionante entrata, nel secondo movimento, del tema in SOL maggiore (un tema in sè insulso, che scende e sale banalmente da tonica a dominante) che davvero è parso emergere come una venere dalle acque, pieno di freschezza e leggerezza; e la prima irruzione dell'oboe nello scherzo, dopo il generale pizzicato degli archi; e poi il tema della betulla del finale, che nelle mani di Gergiev trasloca dagli archi a tutti gli ottoni con un crescendo mozzafiato.
In due parole: un trionfo.
Quanto alla Filarmonica, quando viene strigliata a dovere da un Kapellmeister che evidentemente non tollera approssimazioni e facilonerie, mostra di non essere poi così da discarica come molti la descrivono. Ecco perché la nomina, da parte del Teatro alla Scala - che è allo stesso tempo cliente e fornitore unico dell'orchestra (per le due stagioni concertistiche) oltre che datore di lavoro dei professori (per la stagione opera-balletto) - di un Direttore musicale, che la prenda per mano (e magari pure per le orecchie, quando serve!) si mostra ogni giorno di più come improcrastinabile.
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