Un Figaro quasi ventennale è tornato a maritarsi a Firenze (dove debuttò nel 1992, dopo Vienna). È quello ideato da Jonathan Miller (e qui ripreso da Gianfranco Ventura) ormai alla terza apparizione fiorentina, dopo quella del 2003.
Eppure mantiene intatta tutta la sua freschezza e piacevolezza, a dimostrazione del fatto che regìe (cosiddette, con intento minimizzante se non spregiativo) tradizionali si conservano negli anni assai meglio di tante che vanno alla ricerca di qualche recondito significato dell'opera, su cui costruire Konzept improbabili o del tutto strampalati.
Che le Nozze – come il loro antesignano ispiratore Mariage – contengano impliciti o ammiccanti riferimenti a fenomeni di tipo socio-politico-cultural-eroto-psicologico lo si comprende e lo si apprezza perfettamente proprio dalla rappresentazione originale, senza bisogno che qualche regista in cerca di notorietà a buon mercato ce lo venga a spiegare con trasposizioni di vicenda e personaggi nel tempo e nello spazio. (Si perdonerà tranquillamente l'invenzione di Miller di presentarci due pargoletti della Contessa, uno ancora in fasce…)
Sapientissima poi è la direzione attoriale: già dall'entrata di Figaro&Susanna, e giù giù fino al gigantesco rimpiattino finale, magistralmente reso col semplice impiego di tre colonne, dietro cui far nascondere di volta in volta i personaggi. E va dato atto a tutti gli interpreti di aver assolto al meglio il compito relativo alla presenza scenica. (Qualche eccesso di palpeggiamenti non ha fatto scadere lo spettacolo in avanspettacolo.)
Sul fronte musicale, detto dei tagli alle due arie dell'Atto IV (Marcellina, scena IV, Il capro e la capretta e, per par-condicio, Basilio, scena VII, In quegli anni) arie che Massimo Mila definiva argutamente scritte per obblighi di natura sindacale, dirò che la direzione del nordico Arild Remmereit mi è parsa forse un po' troppo freddina (smile!) ma non del tutto disprezzabile: insomma, nel complesso positiva, a meno di non cercare il proverbiale pelo nell'uovo. Del pari rimarchevole la prestazione del Coro di Piero Monti e delle sue due soliste Sarina Rausa e Nadia Sturlese, tutti chiamati ad un compito peraltro non proibitivo.
Nel mio personalissimo cartellino (la vittoria delle azzurre del tennis mi ha richiamato alla mente il grande Rino Tommasi) la palma della migliore va alla Contessa Rachel Harnisch, quasi perfetta ed acclamatissima nella sua aria della scena VIII dell'atto III.
Vocina piccola, ma gradevole, quella della Susanna di Olga Peretyatko, cui mi sento di perdonare un paio di urletti di troppo.
Ruxandra Barac ha interpretato un Cherubino efficacissimo scenicamente, vocalmente discreto (nella sua Canzona della terza scena dell'atto II) ma non più.
La Marcellina di Laura Chierici (che non ha un sindacato a proteggerla, smile!) e la Barbarina di Paola Leggeri (che invece ha cantato – meschinella – la sua cavatina) se la son cavata onestamente.
Quanto ai signori, i due protagonisti principali meritano un plauso, anche se non sembrano dotati di voci particolarmente potenti (in particolare il Pietro Spagnoli del Conte, peraltro assai bene impostato). Vito Priante è stato un Figaro forse poco sanguigno e troppo sempliciotto, ma il pubblico non ha mancato di gratificarlo ampiamente.
Gli altri: Umberto Chiummo come Bartolo, Gianluca Floris (anche lui non iscritto a sindacati) in Basilio, Antonio Feltracco in Curzio e il fin troppo avvinazzato Giuseppe Di Paola in Antonio l'hanno sfangata onorevolmente, nelle scarse parti solistiche, ma soprattutto nei concertati.
Alla fine grandi applausi per tutti, in un Comunale pieno come un uovo, cosa che non può non far piacere, oltretutto in un pomeriggio (peraltro piovigginoso) dove il teatro doveva competere con pedatori viola e velleitari rottamatori.
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