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21 agosto, 2022

ROF-43 live: Otello

In una Vitrifrigo-Arena con almeno il 20% di poltrone vuote (ahi ahi…) il cartellone principale del ROF-XLIII ha emesso ieri sera il suo ultimo vagito, con la quarta recita di Otello, nuova produzione curata dalla coppia Cucchi-Abel. Qui il video della precedente realizzazione del 2007. Qui invece l’audio della prima dell’11 scorso.

In una stringata paginetta sul programma di sala, Rosetta Cucchi individua lucidamente i due pilastri sociologici della tragedia di Shakespeare, pur maldestramente adattata dal gallico Jean-François Ducis per il mercato francese e a ruota dal nobile librettista partenopeo, il Marchese Francesco Berio di Salsa (in origine Salza) al servizio del giovane e rampante Gioachino.

E i due pilastri sono le personalità (gli stereotipi, potremmo dire) di Otello e Desdemona. Sì, perché la tragedia del bardo di Stratford-upon-Avon titola The Tragedy of Othello, the Moor of Venice ma è in realtà la storia di Othello and Desdemòna. Proprio Desdemòna, con l’accento sulla… mòna, come soleva sottolineare argutamente il venerabile professor Carlo Bo nelle sue lezioni di inglese all’Università Commerciale Luigi Bocconi (quando ancora vi si sfornavano laureati in lingue e letterature straniere… mica solo i futuri finanzieri alla Draghi o gli economisti da strapazzo alla Giorgetti!)

Dunque: Otello, o l’incarnazione del diverso, un essere umano che a noi del Nord del mondo risulta abbastanza ripugnante, non fosse altro per il colore della pelle (nera-nera o anche solo olivastra, non fa differenza). Poi, se vince sotto le insegne tricolori qualche battaglia, oppure addirittura un’Olimpiade, sempre un alieno rimane.

La Desdemòna di Shakespeare incarna invece lo stereotipo della donna ridotta ad oggetto di consumo, cui si nega qualsivoglia autonomia e autodeterminazione. Se poi è una delle nostre che se la fa con il diverso, apriti cielo e pollice… verso!

Dunque, la Cucchi mostra di aver colto in pieno i due aspetti del dramma che lo rendono di assoluta attualità anche ai giorni nostri, caratterizzati da proclami para-razzisti di chi vorrebbe buttare a mare chiunque si avvicini a Lampedusa e femminicidi dilaganti, in nome del diritto di possesso del maschio: i ritagli di giornale proiettati mentre Ives Abel dirige passabilmente bene la Sinfonia ce ne danno prova.

Quindi: tutto a posto? Mah, la corretta analisi che la regista fa del soggetto, nella sua sostanza, viene in buona parte contraddetta dalla forma impiegata per portarlo sulla scena. Sì, perchè un’opera teatrale, oltre che presentare contenuti più o meno pertinenti con la realtà in cui vive lo spettatore, si caratterizza anche (e soprattutto) sotto aspetti che riguardano strettamente l’Autore (o gli Autori) dell’opera medesima e la loro concezione (sotto il profilo letterario e musicale) artistica ed estetica. Non a caso, tanto per schematizzare al massimo, si parla, nel teatro musicale, di classicismo, di romanticismo e di verismo, approcci artistico-estetici assai diversi fra loro (soprattutto nei contenuti musicali!) e piuttosto chiaramente associabili a periodi storici e alle relative produzioni. 

Ora vengo al dunque: Rossini come lo definiamo? Non certo romantico (o al massimo proto-romantico) né tanto meno verista. Peccato che la Cucchi abbia invece inscenato l’Otello di Rossini come un’opera di teatro squisitamente verista! E siccome – per nostra fortuna – Abel e tutte le voci impegnate sul palcoscenico hanno suonato e cantato il Rossini autentico (classico, come lui stesso  ebbe ad autodefinìrsi su Otello) ecco che si è creata una frattura quasi insanabile fra ciò che si sente (testo&musica) e ciò che si vede! Insomma: l’errore della Cucchi è lo stesso, ma proprio identico, a quello – tanto per fare un esempio ancora caldo – commesso da Mario Martone con il suo Rigoletto scaligero: tradire cioè alla radice l’approccio estetico dell’Autore.

Il primo atto è ambientato in una grande sala da pranzo con attiguo foyer dove gli invitati, fra i quali lo stesso Otello (?!) vagano chiacchierando amabilmente in attesa di accomodarsi alla lunghissima tavola e fregandosene del merito dell’evento e del premiato. Poi si accomodano a tavola e lì restano a pasteggiare ignorando, nell’ordine: l’esternazione e la cavatina di Otello, l’incontro Elmiro-Rodrigo e il successivo duetto Rodrigo-Iago. Insomma, una scena lontana le mille miglia dalla solennità dell’evento e della musica che lo sottolinea.

Il second’atto è ambientato nel guardaroba attiguo al salone, dove si aggirano inservienti che hanno il solo scopo di distrarre l’attenzione dello spettatore dal drammatico confronto Rodrigo-Desdemona e dalla confessione di quest’ultima ad Emilia. Verismo misto a comicità nella scena del diverbio Otello-Rodrigo, con i due che si sfidano alla roulette russa con un revolver che fa regolarmente cilecca, mentre per nostra fortuna i DO e i RE sovracuti sparati dai due vanno perfettamente a segno! Poi Desdemona, invece di svenire, casca al suolo maltrattata con crudo verismo da Rodrigo (ma ovviamente anche Iago con le femmine che gli capitano a tiro non scherza, in fatto di sexual harassment…) La scena di Emilia che soccorre la padroncina è anch’essa funestata dalla gratuita e disturbante presenza di comparse. Poi nel finale le damigelle del coro appaiono tutte macchiate di sangue, per ricordarci che sono… carne da macello.

Nel terzo atto, invece dell’intimità della camera da letto di Desdemona, torna in primo piano la gran tavola da pranzo, attorno alla quale la povera donna si dispera, poi ascolta il gondoliere, canta meravigliosamente le sue canzoni e infine vi si addormenta sopra, raggiunta poi da Otello che la finirà (forse) per shakespeariano soffocamento, strangolata con la di lei sciarpona. Si riapre alle spalle la vista sul foyer, dove ad un’altra tavola stanno banchettando gioiosamente gli invitati, tutti felici e contenti per lo scioglimento del dramma e il prossimo lieto fine (quello del 1820 a Roma?!) Ma Otello – non si sa con quale strumento – li delude, chiudendo l’opera come si deve.

Il pubblico di ieri sera ha accolto la Rosetta solo con applausi, depurati da mugugni e dissensi che si erano chiaramente uditi alla prima. Evidentemente viene confermato il moderno andazzo di giudicare prestazione musicale e presentazione scenica come due compartimenti stagni del tutto indipendenti, dimenticando di valutare – sul piano estetico - la coerenza tra le due componenti essenziali del teatro musicale.
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Detto dell’allestimento, non mi resta che accomunare in un giudizio di assoluta positività l’intera compagnia di canto (solisti e il coro di Farina) e i Musikanten della OSN-RAI, diretti con salda autorevolezza dal veterano Abel. Punte di eccellenza per i due protagonisti, Eleonora Buratto (una Desdemona vocalmente perfetta) ed Enea Scala (più tenore che bari-tenore, ma ci sta). Ma sugli scudi anche Dmitry Korchak (che farebbe bene a ri-dedicarsi solo al canto, lasciando le velleità di Kapellmeister ad un lontano futuro…) e Antonino Siragusa. Evgeny Stavinsky mi ha lasciato ancora qualche perplessità, per alcune forzature vociferanti, mentre più che discretamente ha fatto Adriana Di Paola come Emilia. Julian Henao Gonzales ed Antonio Garès hanno completato dignitosamente il cast.
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Il ROF-XLIII chiude i battenti questa sera con il Gala per i 40 anni pesaresi di Pier Luigi Pizzi. Dato che io ho un filino di idiosincrasia per questo tipo di spettacoli, non sarò alla famigerata Vitrifrigo Arena, ma nel cuore della città, a seguirlo in mezzo alla ggente di Piazza del Popolo, dove come sempre verrà irradiato su schermo gigante a cura del Comune.

Poi, arrivederci – Meloni permettendo, hahaha! - al 2023, quando finalmente il Festival toglierà anche l’ultimo zero dal suo glorioso tabellino: Eduardo&Cristina

10 agosto, 2022

ROF-43: le tre prime da Radio3

Una nuova produzione de Le Comte Ory ha aperto il 9 agosto a Pesaro (Vitrifrigo Arena) la 43esima edizione del ROF. Per quel che posso giudicare dall’ascolto radiofonico, una partenza decisamente positiva.

Cast ben assortito, capeggiato dall’inossidabile JDF, la cui voce non ha perso lo smalto di un tempo, resistendo bene all’inevitabile usura legata all’ampliamento del repertorio che ha caratterizzato questi ultimi anni del tenore peruviano.

Per me è stata una bella sorpresa la Contessa di Julie Fuchs (che prima avevo solo ascoltato in spezzoni del DVD del 2017 disponibili in rete): praticamente perfetta, timbro chiaro e pulitissimo, colorature impeccabili, voce svettante nei concertati, sensibilità espressiva sempre adeguata alla psicologia del personaggio.

Da apprezzare Maria Kataeva, che fra l’altro ha brillantemente contribuito, come Isolier, al mirabile quanto equivoco terzetto al buio del second’atto.  

Bene anche le due comprimarie: la veterana ma sempreverde Monica Bacelli e la giovane Anna Doris-Capitelli (uscita dall’Accademia).

All’altezza dei rispettivi compiti Andrzej Filonczyk e (un filino sotto) Nahuel Di Pierro. Così come il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, che ormai da qualche anno coabita con quello della Fortuna sulle scene pesaresi.  

Diego Matheuz ha guidato da par suo la ritrovata OSN-RAI, forse eccedendo nella corposità di suono (ad esempio nella polonaise del primo atto). Ma può essere impressione mia legata alla ripresa audio.

Successo pieno, si direbbe, anche se gli applausi mi pare non abbiano superato i 5 minuti… 
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La Gazzetta (ripresa/rivisitazione della produzione del 2015) è andata in scena il 10 agosto al Teatro Rossini, con un cast completamente rinnovato rispetto a 7 anni orsono (un’eternità, se si pensa che a Palazzo Chigi c’era tale Matteo Renzi al culmine della sbornia da successo, oggi mutatasi in disperata ricerca di un qualunque mezzuccio Calenda per evitare il definitivo trasloco nell'arido paese del nuovo rinascimento…)

Carlo Rizzi ha guidato la Sinfonica Rossini (che da qualche anno si alterna con l’omonima… Filarmonica come seconda orchestra del cartellone principale) in questa sbarazzina opera comica, mettendone in luce la freschezza dell’ispirazione rossiniana (genuina ma con spruzzate, anche abbondanti, di auto-imprestiti) coniugata con l’impronta napoletanissima del libretto di Giuseppe Palomba.

E il partenopeo Carlo Lepore ne è stato il protagonista assoluto, calandosi anche (complice Marco Carniti) nei panni del grande Totò, di cui ha citato testualmente alcune battute della famosa lettera dal film Totò-Peppino-Malafemmena

Come lo era stata Julie Fuchs per l’Ory, anche qui la protagonista femminile Maria Grazia Schiavo ha meritatamente guadagnato gli applausi del pubblico interpretando una Lisetta davvero convincente, per timbro di voce, varietà di virtuosismi ed espressività.

Sugli scudi anche Giorgio Caoduro, autorevole Filippo e Pietro Adaìni, un Alberto convincente e applaudito in particolare nell’aria del second’atto.

Gli altri interpreti tutti su un più che discreto standard, a partire dalle due voci femminili, la Doralice di Martiniana Antonie e la Madama La Rose di Andrea Niño; così come onorevoli mi son parse le prestazioni di Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen).

Apprezzabile infine l’apporto del Coro del Teatro della Fortuna di Mirca Rosciani che ha contribuito alla generale godibilità della serata.
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Otello (nuova produzione affidata alla pesarese Rosetta Cucchi) ha chiuso l’11 agosto (Vitrifrigo Arena) il primo dei 4 cicli di rappresentazioni del cartellone principale del ROF-43.

Un’edizione che sul piano musicale - almeno a giudicare dall’ascolto radiofonico e dall’accoglienza del pubblico – si direbbe sia di un livello più che apprezzabile, il che costituisce un buon viatico per chi come il sottoscritto si prepara a seguirla dal vivo nei prossimi giorni.

E una costante emersa dalle tre serate pare proprio essere l’affermazione delle altrettante protagoniste femminili di questo Festival: anche in Otello ha particolarmente brillato la Desdemona di Eleonora Buratto, trionfatrice della serata.

Accanto a lei i tre tenori protagonisti, tutti veterani del ROF – Enea Scala nel ruolo del titolo, Dmitry Korchak (Rodrigo) e Antonino Siragusa (Jago) – hanno completato un cast ben assortito e capace di valorizzare una partitura che è a torto troppo spesso sottovalutata, messa fatalmente in ombra dall’avvento della coppia di tali Verdi&Boito

Evgheny Stavinsky (un Elmiro un po’ troppo vociferante), Adriana Di Paola (un’onesta Emilia) e gli altri due tenori (Julian Henao Gonzales, apprezzabile Gondoliere e il Doge di Antonio Garès) hanno dato il loro onesto contributo alla riuscita dello spettacolo.

Ovviamente insieme al Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina e all’impeccabile OSN-RAI sotto la guida del solido Ives Abel, altro veterano avendo diretto a Pesaro fin dal 1995.

La radio ci ha portato anche reazioni del pubblico alle regìe, positive per Ory e Gazzetta e contrastate per Otello: vedremo poi dal vivo.


01 dicembre, 2020

Il Moro di Firenze

Ieri sera RAI5 ha diffuso in streaming un apprezzabilissimo Otello dall’Opera di Firenze.  

Mehta e la sua Orchestra sempre più in forma, cast senza stelle ma... planetario!

E sabato prossimo Roma apre (RAI3 alle 16) con il Barbiere della coppia Gatti-Martone.

Nonostante tutto, ci sono Teatri (Firenze e Roma sono solo gli ultimi esempi di una lunga serie) che continuano a fare... teatro d’opera!

La Scala invece... teatro di varietà?

05 ottobre, 2015

A Parma un Otello un po’… basso

 

Il FestivalVerdi2015 mette in scena in questi giorni un capolavoro assoluto del Maestro di Roncole: ieri sera seconda delle quattro rappresentazioni, in un Regio abbastanza affollato e… ben disposto.

La produzione ha avuto qualche vicissitudine non proprio tranquilla, con defezioni e cambi nel cast fino all’ultimo. E proprio il protagonista (delle prime due recite) Rudy Park è arrivato quasi all’ultimo momento e gli va dato atto di aver tenuto la barca a galla (a dispetto della sua mole, smile!)  

Lui ha un vocione quasi da… basso con estensione tenorile, che alle prime lascia un filino perplessi; ma poi si deve riconoscere che il suo Otello non è proprio malaccio: caso mai gli si può rimproverare un certo approccio monocorde (tendenza a cantare sempre forte) e quindi una scarsa varietà di accenti. Comunque il coreano si merita un’ampia sufficienza, ed anzi il pubblico lo accoglie proprio come un… salvatore della patria!    

Altro protagonista subentrato in corsa è Marco Vratogna: il cui Jago mi è parso di livello onesto: se non altro scevro da facili gigionerie. Voce chiara e sempre ben passante, anche nei difficili concertati dove personaggi diversi cantano insieme frasi indipendenti, che spesso si fatica a decifrare.      

Aurelia Florian mi è parsa una Desdemòna (pronunciato all’albionica, niente di offensivo, smile!) a corrente alternata. Vociferante nei passaggi acuti e poco udibile nell’ottava bassa, si è però riscattata… prima di morire, con apprezzabili salice e Avemaria.  

Questi i protagonisti-chiave. Il resto della ciurma (vedi locandina) cerca di fare onorevolmente il suo dovere e per mio conto ci riesce abbastanza. Buona la prova del coro di Martino Faggiani e bravissimi i piccoli di Gabriella Corsaro.

Daniele Callegari (anche lui assoldato a rimpiazzare l’originale Bignamini) ha diretto con mestiere la ruspante Filarmonica Arturo Toscanini, forse eccedendo talvolta con indebiti fracassi. Buona però anche la sua concertazione con le voci sul palco.


Solo due parole sull’allestimento del venerabile Pier Luigi Pizzi. Che di questi tempi è da giudicarsi semplicemente scandaloso, avendoci presentato l’Otello precisamente come è scritto in libretto e partitura!

21 luglio, 2015

Ultime del Moro alla Scala

 

Ieri sera una Scala con parecchi vuoti ha offerto la penultima recita di Otello (quello di Rossini, reso obsoleto - secondo la vulgata – da Verdi) accolto alla prima da feroci contestazioni seguite poi da blande approvazioni.

Sul podio Muhai Tang, un cinese! A dirigere Rossini?! Evidentemente a qualcuno la cosa deve far venire l’orticaria… però, ricordato che quella cinese è una civiltà che poco ha da imparare dalla nostra, io mi limito, nel mio microscopico, a far funzionare la memoria, ricordando una sua eccellente interpretazione di Sheherazade nel non troppo lontano 2010, all’Auditorium con laVERDI, in un concerto tutto russo.

E poi, per quante remore si possano avanzare sulle registrazioni elettroniche, la sua direzione dell’Otello a Zurigo nel 2012 non mi parrebbe proprio da… Alcatraz, tutt’altro! In effetti anche ier sera il 65enne da Shanghai a me personalmente non è per nulla dispiaciuto, avendo fatto suonare l’orchestra in modo apprezzabile e diretto e accompagnato i cantanti con sicurezza: insomma, una più che dignitosa concertazione. Da elogiare in buca il primo corno nella mozartiana (K467) introduzione all’entrata di Desdemona e clarinetto e flauto nell’accompagnamento al salice, con l’arpa peripatetica sul palco.

I tre tenori. Gregory Kunde è un Otello magari un po’ troppo verdizzato, senza tentazioni pericolose (si guarda bene dall’inventare – come fa Osborn a Zurigo - il RE sovracuto nel sento infiammarsi il cor) e ciò non guasta affatto, mettendo meglio in risalto le differenze di carattere con il Rodrigo di Juan Diego Florez, sempre sicuro e convincente in tutta la gamma (RE compreso). Chi ha una bella voce, ma ahilui di portata limitata, è Edgardo Rocha, uno Jago che fatica a farsi udire specie nell’ottava bassa.

La Desdemona di Olga Peretyatko è condizionata dalla… voce del soprano russo, che scarseggia di profondità nei centri e ghermisce gli acuti con qualche approssimazione: ormai ad anni di distanza dai suoi esordi mi pare arduo immaginare che possa salire ulteriormente di livello, il quale rimane discreto e non di più.

Efficace invece suo padre, Roberto Tagliavini, bella voce corposa e penetrante, così come quella dell’Emilia di Annalisa Stroppa: due comprimari davvero all’altezza. Anche Nicola Pamio è un Doge più che dignitoso. Sehoon Moon (con tanto di pizzo lungo e intrecciato, alla mandarino) canta in scena e non dietro le quinte, il che fa perdere parecchio pathos alla sua dantesca esternazione.

I seguaci di Otello e il Coro di Casoni hanno dato il loro valido contributo alla generale buona riuscita della recita sul fronte musicale. E il pubblico ha infatti tributato a tutti calorosi applausi con punte di trionfo per JDF. Allo spegnersi del MIb conclusivo un isolatissimo buh si è udito dalla seconda galleria, immagino indirizzato alla regìa, visto che durante tutta la recita non c’erano stati che applausi, anche ai due ritorni di Tang sul podio. E quindi facciamo un po’ di conti in tasca a Jürgen Flimm.

Dico subito che il regista - qui anche in veste di co-produttore, essendo lui sovrintendente dell’Unter-den-Linden, che affianca la Scala in questa proposta – non ha fatto troppi danni al soggetto originale, e questo è già un merito. Magari ha cercato di re-shakespeare-izzarlo, viste le distanze che il libretto di Berio (mutuato da Ducis) presenta rispetto la tragedia del genio di Stratford.    

O magari di Boito-izzarlo, se prendiamo ad esempio il personaggio di Jago: che in Shakespeare è un genio del male mosso da cieco vittimismo e in Boito il genio del male tout-court, mentre per Ducis-Berio è un poveraccio frustrato in cerca di rivincite. Ecco, Flimm ci presenta il suo Jago come dominus dell’intera vicenda, infatuato di una per lui irraggiungibile Desdemona (che surroga accompagnandosi spesso ad una controfigura della protagonista). La spiegazione esplicita del movente dello sbifido individuo ci viene mostrata all’inizio della scena V del prim’atto, dove lui entra subito dopo che Desdemona ed Emilia dovrebbero essere uscite: qui invece Jago grida la sua maledizione alla donna rovesciandola su un tavolo in un atto quasi di stupro… E Jago fa spesso capolino dalle quinte ad origliare conversazioni, poi quale arbitro dell’incontro di fioretto Otello-Rodrigo (che peraltro si svolge in un ring di boxe) fino a comparire – dopo morto! – alla fine, nel corridoio della platea (sempre accompagnato dalla sua finta-Desdemona) e cantando la parte di Lucio (così si risparmia un quarto tenore, smile!) quasi a pilotare anche la conclusione della vicenda.  

Siccome si rimprovera sempre al libretto la sostituzione – quale prova dell’infedeltà di Desdemona – del fazzoletto con un biglietto galante, ecco che Flimm fa comparire la donna, anziché alla scena IV, già in quella iniziale, dove lei lascia cadere, con malcelata indifferenza, un fazzoletto ai piedi di Otello (?!?)

A queste quasi innocue trovate va aggiunta – nell’atto finale - la comparsa in scena di una gondola (per la verità, la forma è più quella di una piroga indiana) che spiega a noi ignoranti il perché della canzone del gondoliere (cinese, poi! qui siamo davvero avanti con i tempi della globalizzazione…) la quale fungerà anche da letto di morte della protagonista.

Quanto all’ambientazione, si può solo dire che – salvo al finale piombare al suolo dei velari-scena, che mostrano i macchinari del teatro e coro e comparse in abiti moderni – sia collocata in un tempo imprecisato: c’è un po’ di Shakespeare (e dagli!) a giudicare dalle lattughe (o gorgere) che circondano i colli di senatori e nobili, tutti in rigoroso nero-da-cerimonia; ma i cappelli a cilindro ci portano come minimo nell’800, così come gli abiti delle signore. Magari le sedie in plastica da giardino sono ancora un filo più moderne, ma comunque non si sono notati i-pad, smart-phone, beretta-m92, mitragliette a canna corta né sigarette elettroniche, ecco.

Per tirare le somme: magari questa riproposta scaligera dell’Otello rossiniano dopo… secoli meritava qualcosa in più, ma diciamo che poteva andare assai peggio: almeno Rossini lo si è potuto gustare (parlo per me, ovviamente) con una certa soddisfazione. E ciò è un buon antipasto per il ROF-36, che arriva fra poche settimane.     

09 luglio, 2015

Scala : fra un buh e l’altro…

 

Di questo Otello (solo un dettaglio insignificante: è quello di Rossini!) dopo le prime due recite non si sente dire un gran bene: la prima contestatissima (ma potrebbe essere il ritorno di una tradizione scaligera che recentemente aveva un poco latitato) e la seconda così-così, almeno a leggere recensioni e commenti. Insomma, ci sarebbe da preoccuparsi per chi, come il sottoscritto, si appresta ad assistervi fra qualche giorno. (Però io sono convinto, e spero proprio di non sbagliarmi nemmeno stavolta, che l‘arte di Rossini stia al di sopra di ogni possibile tradimento; così continuo ad immaginare di vedere – no, come minimo di ascoltare - prossimamente un Otello per lo meno non denunciabile per truffa, ecco.)

Nel frattempo parliamo un po’ di imprestiti: strumento di abituale impiego per Rossini (ma non solo per lui) allorquando si trattava di produrre musica a tambur battente e mancava il tempo per inventarne di nuova. Così si scopiazzava, o si prendeva proprio di peso, musica già pronta e la si impiegava per fini anche diversi e persino opposti a quelli per i quali era stata composta. Il numero di auto-imprestiti rossiniani è davvero enorme e Otello non fa eccezione, presentando nel corpo dell’opera tre casi specifici, che richiamerò sommariamente alla fine.

Ma vorrei invece porre l’attenzione su quelli che riguardano le 9 Sinfonie/Ouverture di opere presentate nei poco più di 3 anni compresi fra il dicembre 1813 (Aureliano) e il gennaio 1817 (Cenerentola): poiché in esse troviamo attinenze dirette (Turco e Sigismondo) o indirette (puramente temporali) con Otello. Subito prima del Turco (dal quale germoglierà Sigismondo e da qui Otello) Rossini aveva presentato appunto l’Aureliano, la cui Sinfonia (che richiama temi dell’opera) fu poi re-impiegata tal quale in Elisabetta e Barbiere (che si collocano temporalmente fra Sigismondo ed Otello). Sempre in questo lasso di tempo Rossini compone Torvaldo, che alimenterà parzialmente la Sinfonia della Gazzetta (secondo tema, in LA maggiore nell’esposizione e RE nella ripresa, trasposto a SIb e MIb nella Gazzetta); la quale Sinfonia verrà poi impiegata tal quale per la successiva Cenerentola.

Lo schema che segue intende mostrare in forma grafica questi imprestiti (i colori e le frecce - continue o spezzate - rappresentano impieghi parziali o totali):


Come si può notare, 6 Sinfonie su 9 sono frutto di copiature integrali o di parziali imprestiti da altre: una vera e propria moltiplicazione di pani e pesci! 

Veniamo adesso all’Otello e alla genesi della relativa Sinfonia (si veda lo schema riportato più sotto). Tutto nasce dal Turco e in particolare dalla sua Introduzione in RE maggiore e in tempo Adagio la quale - con il suo tema (TI) - verrà riproposta, con due varianti sostanziali (il tempo accelerato ad Andante e l’assolo in FA-RE del corno trasferito all’oboe e arricchito nella cadenza) nel Sigismondo e da qui trasportata pari-pari nell’Otello.

La struttura delle tre Sinfonie è sempre la stessa: un tempo in forma-sonata privo di sviluppo. Quindi, dopo l’Introduzione (Adagio o Andante) abbiamo, sempre in Allegro o Allegro vivace, l’Esposizione di due temi (il primo nella tonica RE, il secondo nella dominante LA) entrambi seguiti dai rispettivi crescendo, il primo dei quali si conclude con una serie di quarte ribattute, che ritroviamo nelle tre Sinfonie. La Ripresa ripresenta entrambi i temi nella stessa tonalità (in ossequio ai canoni della forma-sonata). Una Coda, variamente basata sul tema TI dell’Introduzione, chiude i tre brani.

Le differenze principali fra questi riguardano i contenuti. Nel Turco vengono esposti e poi ripresi due temi, dei quali il primo (TT1) è originale, mentre il secondo altro non è se non il TI (Introduzione) arricchito da svolazzi di flauti e oboi e da un bellissimo intervento della tromba. Anche il secondo crescendo si basa su TI. La Ripresa si struttura diversamente (è abbreviata) dall’esposizione, in quanto ripresenta TT1, ma senza il suo crescendo (CT1) né quindi le quarte ribattute: si passa direttamente al tema TI e al relativo crescendo (CT2).

Il Sigismondo comporta una radicale rivisitazione (salvo l’Introduzione) dei contenuti tematici del Turco. Infatti vengono esposti (e poi ripresi) due nuovi temi (TS1 e TS2, quest’ultimo mutuato da TI) con i relativi crescendo (CS1, in cui appare TI, e CS2). Dopo una diversa transizione (che rispetto al Turco non ha gli stessi chiari riferimenti alla coda dell’Introduzione) la Ripresa, a parte la tonalità uniforme, rispecchia assai fedelmente la struttura dell’Esposizione.

L’Otello mutua in pieno la struttura e in gran parte i contenuti del Sigismondo. A parte scostamenti nella strumentazione (qui ignorati per semplicità di analisi) la differenza fondamentale è rappresentata dal secondo tema (TO) che sostituisce il TS2, mantenendone però il successivo crescendo (CS2); inoltre il primo crescendo (CS1) non presenta gli incisi TI. Difficile legare la sostituzione del secondo tema del Sigismondo con uno nuovo per Otello a specifiche esigenze estetiche legate alla nuova opera, dal momento che anche questo motivo (come gli altri) non vi comparirà più: forse l’averlo già proposto nel finale del prim’atto dell’Elisabetta, oppure chissà, forse Rossini si ritrovò a Napoli con qualche ora di… imprevista libertà, e così impiegò il tempo per inventare un nuovo tema, tanto per rompere la monotonia.

Come detto, la tre Code si basano su TI, ma sono di diversa ampiezza (decrescente dal Turco all’Otello).

Chi vuole approfondire con i suoni può seguire le tre Sinfonie su youtube, con i minutaggi riportati in tabella: Turco, Sigismondo, Otello.


Per chiudere, solo un cenno ai tre auto-imprestiti che compaiono nel corpo dell’opera: il primo riguarda il duetto Desdemona-Emilia (Quanto son fieri i palpiti) dell’atto I, derivato da Se libertà t’è cara da Aureliano (atto II, duetto Aureliano-Zenobia); il secondo riguarda la cabaletta L’ira d’avverso fato (Otello-Jago, atto II) che deriva da quella del Duca Ordow (Ah, qual voce) nel second’atto di Torvaldo; infine (atto III, duetto Desdemona-Otello, Non arrestare il colpo) Rossini richiama due volte e poi sviluppa il famoso tema della Calunnia dal Barbiere (questo imprestito fu però successivamente sconfessato dallo stesso Autore, a seguito della popolarità acquisita dal Barbiere, che era invece ancora sconosciuto nella Napoli del 1816).

04 luglio, 2015

Un Moro qualunque alla Scala

 

Franza o Spagna, purchè… (Pereira prego, completi pure lei). Tradotto nella fattispecie: di Verdi o di Rossini, sempre un Otello è, o no, che ‘vve frega? Quindi perché inalberarsi se, invece del primo annunciato, si dà il secondo ripiegato? Dopotutto siamo alla Scala oh, mica nel più importante teatro del mondo!

Ma certamente a qualcuno (il sottoscritto non escluso) avrà fatto immenso piacere che la Scala – quasi senza volerlo - abbia riproposto un Otello… retrocesso: sì, certo, retrocesso perché sconfitto (per KO, nemmeno ai punti!) da quello del Giuseppe da Roncole (favorito peraltro da uno sfacciato fattore-campo che si chiamava Arrigo Boito!) ma pur sempre un’opera di livello assoluto, che meriterebbe di stare in A1 (o A2, vero, Scala?) a vita.

Si suole indicare come lato debole dell’opera il libretto del Marchese Francesco Berio di Salsa (in origine Salza). Si parlò ai tempi (Byron, Stendhal) e si parla ancor oggi di un Otello illegittimo, un Otello napoletano, quindi un Otello… taroccato (Salvini, da quel buon illetterato che è, potrebbe imbastirci su una teoria secessionista).

Ma in realtà le cose non stanno proprio così. Intanto perché il librettista, lungi dall’essere un ingenuo ignorante, aveva nella sua biblioteca una messe di pubblicazioni in diverse lingue delle opere di Shakespeare, che quindi doveva conoscere assai bene. Poi perché tra fine ‘700 e inizio ‘800 l’accoglienza di Otello (e del suo autore in generale) fuori da Albione era stata tutt’altro che entusiastica, tanto da consigliare pesanti adattamenti al testo. In Francia Jean-François Ducis aveva presentato una sua versione (che influenzerà non poco il libretto berio-rossiniano) dove Jago veniva retrocesso da personificazione del male a semplice cattivone di passaggio; dove persino la pelle di Otello veniva rischiarata (Michael Jackson ante-litteram) da nera a olivastra; dove il fazzoletto di Desdemona era sostituito da un biglietto galante e dove l’uccisione della donna avveniva con una sbrigativa pugnalata e non con un lungo e insopportabile soffocamento. Non solo, il finale tragico (anche questo particolare verrà accolto episodicamente da Berio-Rossini) venne addirittura reso trasformabile a piacere (dell’occasionale pubblico) in un lieto-fine con soddisfazione di tutti.

Altra fonte di ispirazione per il librettista fu l’Otello di Giovanni Carlo Cosenza, rappresentato a Napoli pochi anni prima dell’opera rossiniana: in esso, oltre alle modifiche di Ducis, si trovano tracce evidenti di ciò che apparirà nel libretto di Berio, come l’ambientazione nella sola Venezia e - in particolare nel terz’atto - la tempesta, la canzone del gondoliere, il nome della protagonista del salice (Isaura e non Barbara) oltre al lieto-fine (presentato poi a Roma nel 1820).

Insomma, le apparenti stranezze del libretto vanno doverosamente inquadrate nel contesto storico e non liquidate sommariamente come frutto di incultura. Dopodichè spetterà comunque alla mano (o alla penna, o alle note, fate voi) di quel Re-Mida che rispondeva al nome di Rossini di costruire su un siffatto testo un eccelso dramma musicale. 

Da stasera le recite scaligere, con un cast in buona parte costituito (Kunde-Peretyatko-Florez) da quello della produzione del ROF-2007.  

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A chi non ci fosse già arrivato per proprio conto, suggerisco di visitare il sito di una mia giovane e brillante conterranea, per leggervi un mirabile saggio sull’Otello rossiniano.
  

27 ottobre, 2014

L‘Otello di Kunde a Torino

 

Dopo avervi esordito alla grande a Venezia quasi 2 anni orsono e poi ripetutosi a Genova, Gregory Kunde è tornato a vestire i panni del moro in quel di Torino, in un nuovo allestimento che ha aperto (dopo il verdiano Requiem) la stagione 14-15 del Regio, toccando ieri pomeriggio la penultima delle nove rappresentazioni, in un teatro assai gremito.

Posto d’onore quindi per il tenore americano, per il quale magari ogni mese che passa, dopo i 60 anni suonati lo scorso febbraio, si fa sentire sempre di più, ma devo dire che la sua resa complessiva mi è parsa ancora di tutto rispetto e di gran pregio estetico, proponendoci un Otello che compendia in sé i due lati del carattere del personaggio, che troppo spesso vengono messi in aut-aut: l’autorevolezza-durezza e l’ingenuità-dolcezza che albergano nel suo animo. Due antipodi che vanno dall’Esultate dell’esordio al bacio della chiusa, passando per tutte le stazioni intermedie della sua via-crucis. Per lui un meritato trionfo.

Su Erika Grimaldi (Desdemona) mi sentirei di dare un giudizio… bifronte: efficace e coinvolgente nelle mezze-voci (bellissima la sua AveMaria) e invece un filino carente nel canto spiegato, con acuti tendenti al vetroso e bassi poco udibili. Ma ha certamente tempo (e speriamo volontà) per migliorare ancora: intanto ha avuto un gran successo, e sfatare il detto nemo propheta in patria non è di tutti i giorni!

Ambrogio Maestri si è cimentato nella tremenda parte di Jago. Devo dire che non mi ha completamente convinto: sugli acuti ha tendenza a vociferare e i proibitivi LA del beva son proprio stati una frana (Verdi, conscio che quella è una nota quasi impossibile per un baritono, li prescrive strisciando la voce, ma lui li ha fatti semplicemente… calando). Volgarotto il suo Credo, mentre assai meglio è andato nell’esposizione del (falso) sogno di Cassio. Mi pare che lui dia il meglio di sé in ruoli tipo Falstaff o Dulcamara, ecco. Fra l’altro, secondo Boito, Jago dovrebbe essere un giovane di 28 anni di bella presenza (smile!)

I comprimari erano Samantha Korbey, un’Emilia piuttosto incolore; Salvatore Cordella (un Cassio più che dignitoso); Luca Casalin che ha ben vestito i panni di Roderigo; Seung Pil Choi (un onesto Lodovico); Emilio Marcucci (Montano) e Lorenzo Battagion (un araldo): insomma, tutti degni di plauso.

Efficace e preciso il coro di Claudio Fenoglio e bravissimi i piccoli di Paolo Grosa in quella sempre discutibile e discussa cantilena del second’atto.

Il neo-riconciliato col Regio Gianandrea Noseda non ha tradito le aspettative, proponendoci un Otello vibrante: giustamente fracassone nell’iniziale tempesta ma anche lirico e intimistico, con Desdemona in particolare. Sempre buono l’equilibrio fra buca e palco e in buona forma l’orchestra, in tutte le sezioni.

Beh, tutto sommato – sul piano musicale – un esito più che positivo.
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Non così devo dire per quanto riguarda l’allestimento dell’albionico Walter Sutcliffe. Da buon britannico, per l’appunto, lui mostra di conoscere meglio Shakespeare di Boito-Verdi! Dando forse per scontato che i secondi abbiano semplicemente fatto un facile e pedestre bigino del primo: idea – ahilui e ahinoi – a dir poco deleteria.

Ecco che allora Jago diventa un ceffo violento e manesco: lo intuiamo dall’enorme sfregio che porta sotto l’occhio sinistro… e ne abbiamo subito conferma quando, nella prima scena, compare tenendo al guinzaglio un paio di prigionieri musulmani, ad uno dei quali poi rifila due coltellate a tradimento, così, tanto per gradire (qui Boito-Verdi si devono essere parecchio agitati nelle rispettive tombe…)

Passando direttamente all’epilogo, quello è proprio di Shakespeare, e pure peggio: Jago ammazza Emilia e poi – senza processo né tortura - viene fatto secco da Lodovico e Montano. Ora, sul programma di sala ci ricorda acutamente Antonio Rostagno che lo Jago di Boito-Verdi viene fatto fuggire proprio perché non può essere neutralizzato, rappresentando lui il veleno che da sempre corrompe e per il resto dell’eternità dovrà inevitabilmente corrompere innumerevoli altri Otelli! Cioè: lui non è un disgraziato in carne ed ossa, ma un istinto naturale; capito, mister Sutcliffe?

Tralasciando qualche trovata da avanspettacolo, devo dir male anche delle scene (di Saverio Santoliquido) gli ormai onnipresenti pannelloni mobili di peduzziana memoria all’interno dei quali compare via via qualche volgare piece-of-furniture: un mini-patio con gerani di plastica per la scena del giardino, un’unica sedia, il letto a baldacchino di Desdemona. Deprimente. Peggio ancora i costumi (di Elena Cicorella) roba da sfilata di carnevale.

Insomma, come sempre, è stato un tale Verdi a garantire la riuscita dello spettacolo, con ciò che arriva alle orecchie, e a dispetto di ciò che arriva agli occhi.

Perciò consoliamoci, perché poteva andare anche peggio, con ambientazioni in comunità di tossicodipendenti o in qualche gulag o in una dimessa sezione di estrema periferia del PD (stra-smile!)

21 novembre, 2012

Il Moro è rientrato a Venezia


La Fenice ha inaugurato la stagione Verdi-Wagner con Otello e Tristan, diretti da Myung-Whun Chung. Ieri sera la seconda del dramma shakespeariano, in un teatro affollato, anche se non proprio esaurito. 

Tratto subito dello spettacolo, qui recensito con la solita cura dal venetio-fobico (smile!) amfortas, partendo da qualche considerazione su quello che è il personaggio-clou del dramma: Jago.

Francesco Micheli, nel suo breve intervento sul (come sempre impagabile) programma di sala, propone alcune interessanti osservazioni sul personaggio così come esce dall’originale di Shakespeare. In sostanza, un individuo che rappresenta sì tutto il male possibile che può manifestarsi nell’umana natura, ma allo stesso tempo senza averne un movente preciso, avendone… persin troppi: da qui l’affermazione (condivisibile, senz’altro) del regista riguardo la banalità del male, come emerge dal testo shakespeariano.

E in effetti lo Jago del dramma da cui Arrigo Boito ricavò il mirabile libretto per Verdi ci appare come un essere piuttosto instabile di mente, a dispetto della sua lucida perfidia, uno squilibrato che non solo non conosce quale sia la ragione precisa del suo esser malvagio, ma nemmeno è convinto di esserlo. O meglio, giustifica la sua malvagità interiore come doverosa reazione a quella dell’universo intero nei suoi confronti. È la frustrazione, legata ai suoi insuccessi, che ne alimenta la gelosia nei confronti di chiunque il successo l’ha invece ottenuto, nel campo economico, o militare, o sentimentale.  

Così, non avendo saputo acquisire ricchezze, diventa un bieco estorsore, e il ricco Roderigo ne è la vittima preferita, cui spillare danaro in cambio di un improbabile aiuto a conquistar Desdemona: nel primo atto (quello di Shakespeare, in Venezia, che Boito ignorò quasi totalmente) Jago convince Roderigo a vendere tutte le sue proprietà per procurarsi denaro e preziosi da portare a Cipro per far regali alla giovane che la convincano ad accettare il suo amore, regali che però finiranno regolarmente nelle sue tasche.

Poi confessa allo stesso Roderigo di odiare il Moro a causa della mancata promozione a suo luogotenente, posizione per la quale Otello gli aveva preferito un matematico-contabile (Cassio=Cash!) fiorentino totalmente a digiuno di arti militari.

Ma poi, proprio alla fine del primo atto (sempre quello di Shakespeare) tira fuori una storia di corna, esternandoci il suo sospetto che Otello abbia giaciuto nelle sue lenzuola, facendo le sue veci…  

Ancora, alla fine della prima scena del second’atto (a Cipro) ecco un’altra esternazione, in cui Jago confessa la gelosia (causata dal sospetto di corna messegli da Otello) che gli rode le interiora, e che alimenta il suo proposito di rendere moglie-per-moglie al Moro, o quanto meno di instillargli in cuore una gelosia così forte da non poter essere curata dalla ragione.

Non solo, ma subito dopo Jago mostra di sospettare corna ai suoi danni anche da parte di Cassio! (temo che anche Cassio abbia indossato la mia papalina da notte…

Insomma, un tipo che si sente preso di mira da tutto e da tutti e per combattere le sue frustrazioni diventa ladro, calunniatore ed alla fine pure duplice assassino, visto che ammazzerà (vigliaccamente, oltretutto) Roderigo, già in fin di vita, e poi una donna disarmata (la propria moglie Emilia). Troppi moventi (quelli di gelosia poi del tutto immaginari) che finiscono per indebolire (banalizzare, per parafrasare Micheli) invece che esaltare la grandezza (pur in negativo) del personaggio.  

Che fu invece letteralmente posto su un piedistallo da Arrigo Boito e ovviamente da Giuseppe Verdi! I quali, se si esclude il fugace accenno che Jago fa a Roderigo nella prima scena dell’opera (riguardo la sua mancata promozione) ne scolpirono mirabilmente la straordinaria personalità nel famoso Credo del second’atto:

Dalla viltà d’un germe o d’un atòmo
Vile son nato.
Son scellerato
Perchè son uomo;
E sento il fango originario in me.

Ecco qui, davvero: il male per il male, il male allo stato puro, senza moventi, il male come DNA di un individuo, che poi si sfoga contro l’obiettivo più visibile che si trova nei suoi paraggi (e non a caso si tratta di un diverso). Perdinci, nulla di simile troviamo nei 3743 versi del testo di Shakespeare!

E inoltre lo Jago di Boito-Verdi mai impiega la violenza fisica (se si esclude il gesto di strappare il fazzoletto dalle mani di Emilia): non sappiamo chi abbia ucciso Roderigo (anzi siamo portati a sospettare che sia Cassio, sia pure per legittima difesa); ed Emilia rimane in vita fino alla fine. Insomma, mentre lo Jago di Shakespeare è un personaggio abietto, ma anche abbastanza meschino, quello boito-verdiano è al confronto davvero grande, un po’ come grande è l’Alberich del Ring wagneriano nei confronti del fratello Mime

Ecco perché mi pare che i citati versi di Boito avrebbero meglio rappresentato le radici del dramma, di quelli scelti da Micheli da proiettare sul velario all’inizio e alla fine dell’opera e presi dai due riferimenti nell’originale del Bardo che rimandano al movente-corna:

Io odio il Moro.
Si dice che sotto le mie lenzuola
Si sia fatto gli affari miei.
Non avrò pace finchè
La sua anima non sarà avvelenata
della stessa mostruosa gelosia
che rode in me le interiora.

Movente-corna, attenzione, del tutto escluso da Boito-Verdi, insieme a quello della sete di ricchezza (nessun cenno troviamo nel libretto alle manovre estorsive di Jago ai danni di Roderigo): e qui, particolare non insignificante, si rappresenta appunto Boito-Verdi, non Shakespeare.
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Ma in complesso la regìa di Micheli mi è parsa tutto sommato rispettosa dello spirito, se non proprio della lettera del capolavoro verdiano. Anche il finale – da wagneriana redenzione, tipo Senta-Holländer che ascendono in cielo – dove Desdemona ricompare in scena per passare ad Otello lo stiletto con cui trafiggersi (!) non è poi troppo campato in aria (come dirò anche in seguito accennando proprio ad un passo wagneriano della partitura): in fondo, adesso che il male è stato in qualche modo neutralizzato, il destino non fa che restituire alle sue vittime ciò che aveva loro dolorosamente e spietatamente tolto. E del resto, a ben vedere, è proprio questo che ci dice la musica (primo ed ultimo e unico termine di riferimento) che chiude il dramma con quel tranquillo, sereno accordo di MI maggiore, la tonalità celestiale per eccellenza…    

Un cubo rotante e semovente che racchiude spazi di interno è in pratica l’unico componente della scena, alquanto minimalista, ma abbastanza appropriata a concentrare l’attenzione del pubblico sul testo di Boito e soprattutto sulla musica di Verdi. Sulle pareti esterne del qual cubo Edoardo Sanchi ci mostra immagini delle costellazioni che in qualche modo si associano ai protagonisti, immagini ispirate dal cielo stellato di Cipro, nel cui mare discende la Pleiade (Boito) ma forse anche dal Sagittario (Shakespeare) la locanda dove Otello aveva fatto alloggiare Desdemona dopo il rapimento-matrimonio.

Un po’ banali tutti i letti che compaiono all’inizio, a rappresentare dormitori di ciurma e soldati della guarnigione di Cipro, e poi tornano anche qua e là ad accompagnare ora Jago, ora Cassio.

I costumi di Silvia Aymonino sono stilisticamente belli, ma quelli dei maschi (che paiono l’equipaggio di una love-boat o militari della classica repubblica di bananas) fanno un poco sorridere.

Non so se sia da addebitare alla regìa, ma il quartetto (o meglio, duetto-doppio: Desdemona-Otello ed Emilia-Jago) del second’atto è risultato poco efficace, causa l’eccessiva distanza fisica fra le due coppie, il che rendeva difficile seguirne entrambe le… conversazioni. Abbastanza gratuita anche la presenza di mimi che nel finale attorniano Otello a rappresentarne, immagino, gli incubi e i fantasmi che popolano ormai la sua mente.

Tuttavia, come ripeto, un allestimento per nulla disprezzabile, soprattutto a confronto di tante scelleratezze che oggigiorno si spacciano per genialità…
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Sempre sul citato programma di sala, il professor Michele Girardi ci guida in un tour che percorre le diverse influenze che l’Otello ha avuto sulla musica di fine-ottocento e novecento. A cominciare da Mahler, di cui è celebre la citazione del tema che accompagna la tempesta iniziale nel Finale della sua Terza Sinfonia. Per passare poi a Puccini (Bohème e Tosca) a Janácek (Jenufa) a Leoncavallo e Schönberg.

Sul fronte citazioni, o ispirazioni, si può anche ricordare un piccolo inciso dal monologo di Otello del terz’atto (Dio mi potevi scagliar tutti i mali) che Mahler riprese in un suo Lied dal Wunderhorn, Der Schildwache Nachtlied:

Invece – sul fronte dell’influenza di Wagner sull’ultimo Verdi - sarà interessante osservare (e lo fa puntualmente Emanuele Bonomi nei suoi commenti al libretto, sul programma di sala)  una straordinaria rassomiglianza che riguarda un motivo (tonica – terza minore – dominante – sesta minore – dominante) che nell’Otello ritorna due volte, nel quarto atto: la prima, in LA minore in corno inglese e fagotto, al momento in cui il Moro solleva le cortine del letto in cui Desdemona sta dormendo e si appresta a baciarla; la seconda, in MI minore, dove si aggiunge anche il clarinetto, poco prima della chiusa, ad incastonare i versi Pria d’ucciderti, sposa, ti baciai.

Ebbene, questo inciso si trova (quasi) pari-pari nel Parsifal, second’atto, poco dopo la folgorazione che il ragazzo subisce al contatto col bacio di Kundry, e pronuncia le parole del Salvatore Erlöse, rette mich… Redimimi, salvami (dalle mani macchiate dal peccato); è in effetti una variante del tema dell’Agape, lì suonata in LAb minore da corni e violoncelli e chiusa dalla voce con la seconda minore discendente:


(Poi anche il solito Mahler citerà la seconda minore di quel motivo nel finale della sua Auferstehung, sulle parole O glaube, mein Herz o glaube.)

È certo che Verdi non potè ascoltare Parsifal in teatro (ai suoi tempi si rappresentò esclusivamente a Bayreuth, dove lui mai mise piede) ma sappiamo che il Maestro non si faceva mancare partiture o spartiti di Wagner, e di sicuro resta la strabiliante vicinanza dei due contesti, prima ancora che delle quattro note che li evocano.

Orbene, nell’allestimento di Micheli (ma qui c’è probabilmente lo zampino di Chung) noi vediamo in scena Desdemona e Otello abbracciati (dopo che il Moro si è trafitto col pugnale offertogli dalla moglie) precisamente mentre in orchestra sale il motivo che in Wagner accompagna quei versi: Redimimi, salvami… (!) Se la cosa è stata voluta, tanto di cappello a regista e direttore, se è venuta per caso… resta di impatto straordinario!    
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Buone se non ottime notizie sul fronte musicale, a partire da Chung e dall’Orchestra, che hanno sciorinato una prestazione di gran qualità (al Maestro, che non ha mai aperto la partitura sul suo leggìo, perdonerò qualche decibel di troppo, da Attila insomma, ma mai comunque a coprire le voci). Per loro un calorosissimo successo.

Gregory Kunde è un Otello straordinario, nella voce (soprattutto!) come nel portamento (ma qui non scopriamo oggi le sue eccellenti capacità di calarsi nei personaggi che interpreta). Un autentico trionfo per lui.

Di Leah Crocetto mi pare di poter dire che… promette bene. Per essere all’esordio in un’Opera e in un Teatro importanti non ha per nulla sfigurato. Certo non siamo a livelli, diciamo… proporzionali ai prezzi dei biglietti (smile!) e non si può tacere la sua tendenza a calare sugli acuti morbidi (su quelli sparati invece niente da dire). Ieri sera ha compitato bene anche l’arpeggio finale (LAb-DO-MIb-LAb) dell’AveMaria, che venerdi scorso, alla prima radiotrasmessa, aveva chiaramente mancato. Per lei un buon successo… con una riserva (vedi sotto).  

Lo Jago di Lucio Gallo (pure assai applaudito alla fine) a me personalmente non è piaciuto molto: è proprio la voce, il timbro, che mi pare carente di robustezza e di armonici; insomma, pare che vociferi invece di cantare.

Francesco Marsiglia (Cassio) e Antonello Ceron (Roderigo) sono stati all’altezza della situazione. Oneste anche le prestazioni dei comprimari Lodovico (Mattia Denti), Montano (Matteo Ferrara) e Un araldo (Salvatore Giacalone). Un po’ carente l’Emilia di Elisabetta Martorana.

Bene il coro di Claudio Marino Moretti e quello dei Piccoli Cantori Veneziani di Diana D'Alessio.
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Aggiungo ora due note sull’accoglienza da parte del pubblico. Alla fine del primo atto applausi di cortesia o poco più (c’era solo una breve pausa). Al termine del secondo, con in scena Kunde e Gallo (più Chung sul podio, ovviamente) applausi convinti, rotti però da tre buh, isolati e provenienti da un unico punto del loggione, verosimilmente da un unico spettatore, ma di violenza inaudita. Diretti a chi?

Al rientro di Chung, solo applausi e bravo! Ancora applausi moderati al termine del terz’atto (anche qui pausa brevissima, nemmeno si cambia la scena).

Al definitivo calare del sipario ancora grandi applausi, poi alle uscite singole, come detto, c’è stata una sola eccezione per la Crocetto: in mezzo a generali consensi, ancora un unico e fortissimo buh, piovuto dal loggione e più o meno dalla stessa posizione di quelli precedenti.

E questo è quanto, aspettando… Tristan.