La Fenice
ha inaugurato la stagione Verdi-Wagner con Otello e Tristan, diretti da Myung-Whun Chung. Ieri sera la seconda
del dramma shakespeariano, in un teatro affollato, anche se non proprio esaurito.
Tratto subito dello spettacolo, qui
recensito con la solita cura dal venetio-fobico
(smile!) amfortas, partendo da
qualche considerazione su quello che è il personaggio-clou del dramma: Jago.
Francesco
Micheli,
nel suo breve intervento sul (come sempre impagabile) programma di
sala,
propone alcune interessanti osservazioni sul personaggio così come esce
dall’originale di Shakespeare. In
sostanza, un individuo che rappresenta sì tutto il male possibile che può
manifestarsi nell’umana natura, ma allo stesso tempo senza averne un movente
preciso, avendone… persin troppi: da qui l’affermazione (condivisibile,
senz’altro) del regista riguardo la banalità
del male, come emerge dal testo shakespeariano.
E in effetti lo Jago del dramma da cui
Arrigo Boito ricavò il mirabile
libretto per Verdi ci appare come un essere piuttosto instabile di mente, a
dispetto della sua lucida perfidia, uno squilibrato che non solo non conosce quale
sia la ragione precisa del suo esser malvagio,
ma nemmeno è convinto di esserlo. O meglio, giustifica la sua malvagità
interiore come doverosa reazione a quella dell’universo intero nei suoi
confronti. È la frustrazione, legata
ai suoi insuccessi, che ne alimenta la gelosia nei confronti di chiunque il successo
l’ha invece ottenuto, nel campo economico, o militare, o sentimentale.
Così, non avendo saputo acquisire
ricchezze, diventa un bieco estorsore, e il ricco Roderigo ne è la vittima
preferita, cui spillare danaro in cambio di un improbabile aiuto a conquistar
Desdemona: nel primo atto (quello di Shakespeare, in Venezia, che Boito ignorò
quasi totalmente) Jago convince Roderigo a vendere tutte le sue proprietà per
procurarsi denaro e preziosi da portare a Cipro per far regali alla giovane che
la convincano ad accettare il suo amore, regali che però finiranno regolarmente
nelle sue tasche.
Poi confessa allo stesso Roderigo di
odiare il Moro a causa della mancata promozione a suo luogotenente, posizione
per la quale Otello gli aveva preferito un matematico-contabile (Cassio=Cash!)
fiorentino totalmente a digiuno di arti militari.
Ma poi, proprio alla fine del primo
atto (sempre quello di Shakespeare) tira fuori una storia di corna,
esternandoci il suo sospetto che Otello abbia giaciuto nelle sue lenzuola, facendo le sue veci…
Ancora, alla fine della prima scena
del second’atto (a Cipro) ecco un’altra esternazione, in cui Jago confessa la
gelosia (causata dal sospetto di corna messegli da Otello) che gli rode le interiora, e che alimenta il suo
proposito di rendere moglie-per-moglie
al Moro, o quanto meno di instillargli in cuore una gelosia così forte da non
poter essere curata dalla ragione.
Non solo, ma subito dopo Jago mostra
di sospettare corna ai suoi danni anche da parte di Cassio! (temo che anche Cassio abbia indossato la mia
papalina da notte…)
Insomma, un tipo che si sente preso di
mira da tutto e da tutti e per combattere le sue frustrazioni diventa ladro,
calunniatore ed alla fine pure duplice assassino, visto che ammazzerà (vigliaccamente,
oltretutto) Roderigo, già in fin di vita, e poi una donna disarmata (la propria
moglie Emilia). Troppi moventi (quelli di gelosia poi del tutto immaginari) che
finiscono per indebolire (banalizzare,
per parafrasare Micheli) invece che esaltare la grandezza (pur in negativo) del personaggio.
Che fu invece
letteralmente posto su un piedistallo da Arrigo Boito e ovviamente da Giuseppe
Verdi! I quali, se si esclude il fugace accenno che Jago fa a Roderigo nella
prima scena dell’opera (riguardo la sua mancata promozione) ne scolpirono
mirabilmente la straordinaria personalità nel famoso Credo del second’atto:
Dalla
viltà d’un germe o d’un atòmo
Vile
son nato.
Son
scellerato
Perchè
son uomo;
E sento il fango originario in
me.
Ecco qui, davvero:
il male per il male, il male allo stato puro, senza moventi, il male come DNA
di un individuo, che poi si sfoga contro l’obiettivo più visibile che si trova nei suoi paraggi (e non a caso si tratta di
un diverso). Perdinci, nulla di
simile troviamo nei 3743 versi del testo di Shakespeare!
E inoltre lo
Jago di Boito-Verdi mai impiega la violenza fisica (se si esclude il gesto di
strappare il fazzoletto dalle mani di Emilia): non sappiamo chi abbia ucciso
Roderigo (anzi siamo portati a sospettare che sia Cassio, sia pure per
legittima difesa); ed Emilia rimane in vita fino alla fine. Insomma, mentre lo
Jago di Shakespeare è un personaggio abietto, ma anche abbastanza meschino,
quello boito-verdiano è al confronto davvero grande, un po’ come grande è l’Alberich del Ring wagneriano nei confronti del fratello Mime…
Ecco perché mi
pare che i citati versi di Boito avrebbero meglio rappresentato le radici del
dramma, di quelli scelti da Micheli da proiettare sul velario all’inizio e alla
fine dell’opera e presi dai due riferimenti nell’originale del Bardo che
rimandano al movente-corna:
Io odio il Moro.
Si dice che sotto le mie lenzuola
Si sia fatto gli affari miei.
Non avrò pace finchè
La sua anima non sarà avvelenata
della stessa mostruosa gelosia
che rode in me le interiora.
Movente-corna, attenzione, del tutto escluso
da Boito-Verdi, insieme a quello della sete di ricchezza (nessun cenno troviamo
nel libretto alle manovre estorsive di Jago ai danni di Roderigo): e qui, particolare
non insignificante, si rappresenta appunto Boito-Verdi, non Shakespeare.
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Ma in complesso la regìa di Micheli mi
è parsa tutto sommato rispettosa dello spirito, se non proprio della lettera
del capolavoro verdiano. Anche il finale – da wagneriana redenzione, tipo Senta-Holländer che ascendono in cielo – dove
Desdemona ricompare in scena per passare ad Otello lo stiletto con cui
trafiggersi (!) non è poi troppo campato in aria (come dirò anche in seguito
accennando proprio ad un passo wagneriano
della partitura): in fondo, adesso che il male
è stato in qualche modo neutralizzato, il destino non fa che restituire alle sue
vittime ciò che aveva loro dolorosamente e spietatamente tolto. E del resto, a
ben vedere, è proprio questo che ci dice la musica
(primo ed ultimo e unico termine di riferimento) che chiude il dramma con quel
tranquillo, sereno accordo di MI maggiore, la tonalità celestiale per eccellenza…
Un cubo rotante e semovente che
racchiude spazi di interno è in pratica l’unico componente della scena,
alquanto minimalista, ma abbastanza appropriata a concentrare l’attenzione del
pubblico sul testo di Boito e soprattutto sulla musica di Verdi. Sulle pareti
esterne del qual cubo Edoardo Sanchi
ci mostra immagini delle costellazioni che in qualche modo si associano ai protagonisti,
immagini ispirate dal cielo stellato di Cipro, nel cui mare discende la Pleiade (Boito) ma forse anche dal Sagittario (Shakespeare) la locanda dove
Otello aveva fatto alloggiare Desdemona dopo il rapimento-matrimonio.
Un po’ banali tutti i letti che
compaiono all’inizio, a rappresentare dormitori di ciurma e soldati della
guarnigione di Cipro, e poi tornano anche qua e là ad accompagnare ora Jago,
ora Cassio.
I costumi di Silvia Aymonino sono stilisticamente belli, ma quelli dei maschi
(che paiono l’equipaggio di una love-boat
o militari della classica repubblica di
bananas) fanno un poco sorridere.
Non so se sia da addebitare alla
regìa, ma il quartetto (o meglio, duetto-doppio: Desdemona-Otello ed
Emilia-Jago) del second’atto è risultato poco efficace, causa l’eccessiva
distanza fisica fra le due coppie, il che rendeva difficile seguirne entrambe
le… conversazioni. Abbastanza gratuita anche la presenza di mimi che nel finale
attorniano Otello a rappresentarne, immagino, gli incubi e i fantasmi che
popolano ormai la sua mente.
Tuttavia, come ripeto, un allestimento
per nulla disprezzabile, soprattutto a confronto di tante scelleratezze che
oggigiorno si spacciano per genialità…
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Sempre sul citato programma di sala,
il professor Michele Girardi ci guida
in un tour che percorre le diverse influenze che l’Otello ha avuto sulla musica
di fine-ottocento e novecento. A cominciare da Mahler, di cui è celebre la citazione del tema che accompagna la
tempesta iniziale nel Finale della
sua Terza Sinfonia. Per passare poi a
Puccini (Bohème e Tosca) a Janácek (Jenufa) a Leoncavallo e Schönberg.
Sul fronte citazioni, o ispirazioni, si può anche
ricordare un piccolo inciso dal monologo di Otello del terz’atto (Dio mi
potevi scagliar tutti i mali) che Mahler riprese in un suo Lied dal Wunderhorn,
Der Schildwache Nachtlied:
Invece – sul fronte dell’influenza di Wagner
sull’ultimo Verdi - sarà interessante osservare (e lo fa puntualmente Emanuele
Bonomi nei suoi commenti al libretto, sul programma di sala) una straordinaria rassomiglianza che riguarda
un motivo (tonica – terza minore – dominante – sesta minore – dominante) che
nell’Otello ritorna due volte, nel quarto atto: la prima, in LA minore in corno
inglese e fagotto, al momento in cui il Moro solleva le cortine del letto in
cui Desdemona sta dormendo e si appresta a baciarla; la seconda, in MI minore, dove
si aggiunge anche il clarinetto, poco prima della chiusa, ad incastonare i
versi Pria d’ucciderti, sposa, ti baciai.
Ebbene, questo inciso si trova (quasi) pari-pari
nel Parsifal, second’atto, poco dopo la folgorazione che il ragazzo
subisce al contatto col bacio di Kundry, e pronuncia le parole del Salvatore Erlöse, rette mich… Redimimi, salvami (dalle mani
macchiate dal peccato); è in effetti una variante del tema dell’Agape,
lì suonata in LAb minore da corni e violoncelli e chiusa dalla voce con la seconda
minore discendente:
(Poi anche il solito Mahler citerà la seconda
minore di quel motivo nel finale della sua Auferstehung, sulle parole
O glaube, mein Herz o glaube.)
È certo che Verdi non potè ascoltare Parsifal in
teatro (ai suoi tempi si rappresentò esclusivamente a Bayreuth, dove lui mai
mise piede) ma sappiamo che il Maestro non si faceva mancare partiture o
spartiti di Wagner, e di sicuro resta la strabiliante vicinanza dei due contesti,
prima ancora che delle quattro note che li evocano.
Orbene, nell’allestimento di Micheli (ma qui c’è
probabilmente lo zampino di Chung) noi vediamo in scena Desdemona e Otello
abbracciati (dopo che il Moro si è trafitto col pugnale offertogli dalla
moglie) precisamente mentre in orchestra sale il motivo che in Wagner
accompagna quei versi: Redimimi, salvami… (!) Se la cosa è stata voluta,
tanto di cappello a regista e direttore, se è venuta per caso… resta di impatto
straordinario!
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Buone se non ottime notizie sul fronte
musicale, a partire da Chung e dall’Orchestra, che hanno sciorinato una
prestazione di gran qualità (al Maestro, che non ha mai aperto la partitura sul suo leggìo, perdonerò qualche decibel di troppo, da
Attila insomma, ma mai comunque a
coprire le voci). Per loro un calorosissimo successo.
Gregory Kunde
è un Otello straordinario, nella voce (soprattutto!) come nel portamento (ma
qui non scopriamo oggi le sue eccellenti capacità di calarsi nei personaggi che interpreta). Un autentico trionfo per
lui.
Di
Leah Crocetto mi pare di poter dire
che… promette bene. Per essere all’esordio in un’Opera e in un Teatro importanti
non ha per nulla sfigurato. Certo non siamo a livelli, diciamo… proporzionali
ai prezzi dei biglietti (smile!) e
non si può tacere la sua tendenza a calare sugli acuti morbidi (su quelli sparati invece niente da dire). Ieri
sera ha compitato bene anche l’arpeggio finale (LAb-DO-MIb-LAb) dell’AveMaria, che venerdi scorso, alla prima
radiotrasmessa, aveva chiaramente mancato. Per lei un buon successo… con una riserva
(vedi sotto).
Lo
Jago di Lucio Gallo (pure assai applaudito
alla fine) a me personalmente non è piaciuto molto: è proprio la voce, il timbro,
che mi pare carente di robustezza e di armonici; insomma, pare che vociferi invece
di cantare.
Francesco Marsiglia (Cassio)
e Antonello Ceron (Roderigo) sono stati
all’altezza della situazione. Oneste anche le prestazioni dei comprimari Lodovico
(Mattia Denti), Montano (Matteo Ferrara) e Un araldo (Salvatore Giacalone). Un po’ carente l’Emilia
di Elisabetta Martorana.
Bene
il coro di Claudio Marino Moretti e quello
dei Piccoli Cantori Veneziani di Diana D'Alessio.
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Aggiungo ora due
note sull’accoglienza da parte del pubblico. Alla fine del primo atto applausi di
cortesia o poco più (c’era solo una breve pausa). Al termine del secondo, con in
scena Kunde e Gallo (più Chung sul podio, ovviamente) applausi convinti, rotti però
da tre buh, isolati e provenienti da un
unico punto del loggione, verosimilmente da un unico spettatore, ma di violenza
inaudita. Diretti a chi?
Al rientro di Chung,
solo applausi e bravo! Ancora applausi
moderati al termine del terz’atto (anche qui pausa brevissima, nemmeno si cambia
la scena).
Al definitivo calare
del sipario ancora grandi applausi, poi alle uscite singole, come detto, c’è stata
una sola eccezione per la Crocetto: in mezzo a generali consensi, ancora un unico
e fortissimo buh, piovuto dal loggione
e più o meno dalla stessa posizione di quelli precedenti.
4 commenti:
Beh, sono contento che lo spettacolo ti sia piaciuto, soprattutto per quanto riguarda la direzione che anch'io ho trovato davvero notevole.
Mi hanno detto che alla recita che hai visto tu Kunde è stato ancora più efficace che alla prima: meglio così!
E ora aspetto il tuo parere sul Tristan, soprattutto in merito a Storey, davvero magnifico domenica scorsa.
Ciao e grazie per la citazione.
@Amfortas
Confermo l'impressione su Kunde, anche se il confronto con l'ascolto radio è di per sè precario.
Sono proprio curioso di Storey, che dopo l'affannoso debutto in Scala (2007) ho risentito a Genova (2010) in un Tristan... generosamente scontato (di metà del duetto!)
Ciao!
Finalmente un fine critico che riconosce e approfondisce i distinguo tra lo Jago di Shakespeare e quello di Boito-Verdi! Condivido in pieno il pensiero aggiungendo quanto scrisse il sommo Mila raccogliendo i pensieri da Boito a Croce: Jago è il male, l'invidia, Jago è un arrampicatore sociale, un Hitler andato a male. Quindi, il pur bravo Micheli, NON DOVEVA esporre quel velario sulle corna perché con l'opera di Verdi non c'entrano un fico secco. Comunque, ciò a parte, e qualche baggianata con i mimi, trovo molto interessante la regia di questo Otello. Per la direzione ed il cast, la stessa tua opinione con una piccola osservazione: pure a me Gallo non è mai piaciuto molto ma allo stato attuale non mi sembra che il panorama baritonale possa offrire una voce degna del ruolo.
@Giovanni
Grazie dei complimenti... troppo buono!
Purtroppo sui baritoni adatti a Jago temo tu abbia ragione: son tempi grami.
Grazie ancora e a presto!
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