Un Verdi non operistico è protagonista del concerto di questa settimana diretto da Jader Bignamini, che ancora una volta rimpiazza la sua maestra alle prese con il nuovo pargoletto.
L'impaginazione è proprio identica a quella proposta da Barenboim per il Concerto di Natale scaligero del 2009.
La prima opera in programma è quindi la trascrizione per orchestra d'archi del Quartetto in MI minore, composto nel 1873 a Napoli, fra un contrattempo e l'altro delle recite di sue opere.
È stato da sempre rilevato come il primo tema sia una chiara citazione del motivo di Aida, subito esposto nel Preludio dell'opera. C'è anche chi vi vede qualche reminiscenza del tema principale di Luisa Miller. Ma (a me, personalmente) sembra anche richiamare l'atmosfera dell'incipit del Quintetto con pianoforte op. 34 di Brahms, composto otto anni prima:
E che Verdi, pur in un momento di pigro relax, abbia pensato e guardato alla grande tradizione strumentale mitteleuropea – della quale era considerato dalla pubblica opinione un fiero avversario - non mi pare proprio un'idea balzana, stante ciò che seguirà negli anni successivi: il Requiem (le cui fughe nulla hanno ad invidiare a quelle dell'omonima opera brahmsiana) e i Quattro pezzi sacri, senza parlare dell'evoluzione wagneriana del suo stile in campo operistico, certificata da Otello e Falstaff.
___
L'Allegro iniziale è strutturato in forma-sonata con qualche… licenza: al tema principale (Aida) in MI minore, molto legato e dolce, segue nella stessa tonalità una risposta, innescata dal violoncello, assai più nervosa, tutta in staccato, che pare inizialmente voler scimmiottare (in senso buono) il tema principale, ma poi si adagia su un ritmo cullante (semiminima puntata – croma) prima di tornare ad agitarsi fino a chiudere con veloci quartine di semicrome e poi a morire con una discesa in staccato del secondo violino e della viola, sul SI che prepara l'ingresso del Secondo tema:
Il quale è – canonicamente – in SOL maggiore (relativa della tonalità d'impianto) ed ha uno sviluppo assai ampio e articolato, prevalentemente formato da frasi mosse (quartine di semicrome) in cui si incastona però uno squarcio assai sommesso, di quasi silenzio (crome in pianissimo). Chiude con una perfetto accordo di SOL maggiore.
Segue uno sviluppo, che in realtà vede protagonisti e dialogare a lungo (sempre in MI minore) soltanto il primo tema e il suo contraltare, che ancora chiude la sua discesa sul SI, come nell'esposizione, innescando di conseguenza la riapparizione del Secondo tema.
Siamo in effetti alla ricapitolazione, dove però il primo tema è assente (non lo risentiremo più…) ed è appunto il secondo, stavolta in MI maggiore (sempre i sacri canoni!) a tener banco. Dopo il passaggio in pianissimo, ecco direttamente la coda, basata sul controsoggetto del primo tema, che porta alla secca chiusura in MI minore.
Ecco poi l'Andantino, in 3/4 (LA minore, DO maggiore, ma con frequenti modulazioni) con il suo caratteristico incedere lezioso (sottolineato dal violoncello con il pizzicato sul primo tempo e l'arco sugli altri due) che ricorda atmosfere del Rigoletto, o menuetti di corte:
In esso si inseriscono però squarci più mossi (quartine di semicrome in staccato) ma sempre assai leggeri.
Il successivo Prestissimo ha un che di… mendelssohniano. È in effetti uno Scherzo (MI minore) con interposto un Trio (LA maggiore) dove Verdi espone, nel violoncello, un tema cantabilissimo, degno delle sue più belle arie d'opera!
Il finale (Scherzo Fuga, MI minore, sfociante in MI maggiore) è un vero e proprio (e sublime!) esercizio di magistero musicale. Alla faccia di chi descriveva Verdi come un organista campagnolo da strapazzo, o uno che per far musica usava la… vanga!
___
Insomma, qui si vede come – ne avesse avuto il tempo e soprattutto la volontà e la convinzione – Verdi avrebbe benissimo saputo comporre musica strumentale pienamente all'altezza di quella delle scuole del Nord.
Gli archi de laVerdi, tornati sotto l'esperta guida di Santaniello, hanno offerto un'esecuzione più che apprezzabile. Da parte sua, Bignamini li ha diretti con grande precisione di gesto, meritandosi l'applauso del non foltissimo pubblico (ma era un dì di festa e di possibili ponti…)
L'altro brano in programma è i Quattro pezzi sacri (in effetti andrebbero titolati uno+tre, vista la cronologia della loro gestazione e successiva impacchettatura).
L'Ave Maria si avvale della famigerata scala enigmatica (sconquassata, come Verdi la battezzò) del bolognese Adolfo Crescentini:
È stata cantata, benissimo, da una selezione dei coristi (circa un quarto dell'organico completo).
Lo Stabat Mater chiama adesso a raccolta tutte le forze in gioco: orchestra e coro al gran completo; ma con il coro che, in un paio di occasioni, canta a cappella.
La Laude della Vergine (ultimo canto del Paradiso dantesco) impegna il solo coro femminile (Verdi pensava in origine a sole 4 soliste):
E le signore di Erina Gambarini ce la porgono con tutta la possibile devozione.
Infine il Te Deum, che bassi e tenori aprono con il cantus firmus, senza alcun accompagnamento (alla prima parigina Verdi suggerì qualche battuta con l'organo per garantire la giusta intonazione…) e dove, nel finale, la giovane e brava Cinzia Cacace – da poco entrata nell'organico del coro - ha modo di mettersi in luce con le otto battute in cui canta In te, Domine, in te speravi, chiuso sul SI acuto. Peccato che il secondo dei tre MI della tromba che l'accompagnano sia uscito un filino sporco. Ma in complesso la prestazione di tutti è stata notevole.
In particolare è Jader Bignamini a mostrare ogni concerto di più la sua maturità e la sua grande preparazione: dirigere (e alla grande!) anche i Quattro pezzi sacri (oltre che il Quartetto) a memoria non è da tutti ed è indice di grande studio e applicazione. Insomma, il giovane ex-clarinetto-piccolo sta facendo molta strada!
Il prossimo appuntamento sarà dedicato a contemporanei e al titanico Mahler.
Nessun commento:
Posta un commento