Oleg
Caetani
(-Markevitch) torna sul podio dell’Auditorium per presentarci un interessante programma, che parte dal
Beethoven teatrale per arrivare a
Shostakovich. Ieri la seconda tornata del concerto, la prima essendo stata
anticipata allo scorso 20 in funzione dell’imminente trasferta dell’Orchestra
in Russia.
Si inizia con la celebre
ouverture dalle musiche di scena dell’Egmont
di Goethe, un vero gioiello di
drammatica concisione, proprio del Beethoven eroico. Peccato che (alle mie orecchie) l’esecuzione sia parsa
corretta sul piano tecnico, ma un po’ troppo blanda e rilassata su quello del pathos: insomma, qualche scatto in più
non avrebbe guastato.
Poi arriva il giovane soprano Susanne Braunsteffer per offrirci due
arie. Iniziando dalla seconda delle due che un Beethoven ancora giovane (poco
più che venticinquenne) compose come arie
di sostituzione per un Singspiel di
Ignaz Umlauf, intitolato Die
schöne Schusterin oder Die pücefarbenen Schuhe (La
bella calzolaia, o la scarpa color pulce). Si intitola Soll
ein Schuh nicht drücken (Una
scarpa non deve stare stretta) e si basa sul testo originale di Gottlieb Stephanie der Jüngere.
L’aria, dal testo impertinente, che
tratta dei classici problemi di calzaggio
delle scarpe, è strutturata in 4 strofe, come A-B-A-B’, sempre in 6/8, quasi un
Ländler. A è in SIb maggiore, con
modulazione alla dominante FA e ritorno al SIb. B principia nella
relativa SOL minore, poi modula ancora a FA e alla fine torna a SIb per la
riesposizione del ritornello A. B’ riprende il motivo centrale
di B ma portato canonicamente a SIb.
È un piccolo cammeo, ma vi si
intravedono già stilemi che troveremo qualche anno dopo nel primo atto di Fidelio (ad esempio nella coda dell’aria
di Marzelline). L’interprete vi ha
modo di sfoggiare le sue capacità tecniche, con trilli e svolazzi diversi, che
la bella e… abbondante Susanne esegue
con più precisione che grazia.
Poi ecco la celebre Ah!
Perfido, anch’essa del 1796, aria destinata alle sale da concerto, ma
dallo spessore drammatico degno di una scena operistica, ed anche fisicamente
pesante, dato che impegna l’interprete ininterrottamente per una dozzina di
minuti filati.
Anche qui abbiamo
apprezzato una più che dignitosa interpretazione della Braunsteffer (certo la Callas
era un altro pianeta, smile!): la
ragazzona tedesca ha una voce che arriva fin negli spazi siderali, deve solo
mettere a punto, credo io, la sensibilità interpretativa. Cosa che avrà
certamente tutto il tempo di fare.
Il pezzo forte della
serata è la Settima Sinfonia (Leningrado)
di Shostakovich, preceduta da una breve introduzione del Direttore, che ne ha ricordato
le circostanze della composizione. Un’opera
indecifrabile e da sempre tirata da ogni parte, per ragioni squisitamente
extra-musicali, anzi precisamente politiche:
al suo apparire, osannata dai sovietici e in Occidente (Toscanini in testa) in
funzione anti-nazi; abbattuto il nazismo, in Occidente si è preferito
dimenticarla, per non dar fiato a Stalin
e nipotini, che ne avevano fatto un simbolo di superiorità morale del comunismo;
poi qualcuno ci ha trovato germi di… anticomunismo e allora evviva,
disseppelliamola!
Nata per essere una specie
di poema sinfonico, o una fantasia (e l’iniziale Allegretto è in effetti tutto tranne che
un primo movimento di sinfonia come-si-deve…)
è poi cresciuta a dismisura, fino a raggiungere proporzioni sesquipedali, sotto
una specie di costrizione patriottica
di cui l’Autore fu vittima a seguito dell’invasione nazista.
Quella specie di bolero-di-ravel-su-tema-di-lehár che è incastonato nel
movimento iniziale fu descritto (a posteriori, fra l’altro, come spesso accade
ai programmi appiccicati alla musica)
come il marciare dei cavalieri teutonici
sulla città: dapprima si sentono e si vedono in lontananza, laggiù in fondo
alla steppa sconfinata, e paiono una squadretta di boy-scout che marciano allegramente accompagnati da pifferi e
tamburino:
Poi però, man mano che si
avvicinano, ecco che si scorgono dietro alle loro bandierine colorate delle
baionette, quindi si profilano le torrette dei tank, poi le spaventevoli sagome
dei mezzi d’artiglieria, e in cielo gli stormi della Luftwaffe! Dico, una sinfonia, o la parodia dell’Ouverture 1812? Non per nulla il mite e
un po’ sfigato
Bartók ci fece sopra uno sberleffo,
nel suo Concerto per orchestra.
I due movimenti centrali
son certo meno prosaici e pretenziosi (a parte la lunghezza…) e ci
restituiscono uno Shostakovich lirico, ma poi col Finale torniamo ai fracassi della guerra, interrotti da qualche…
funerale.
Insomma, un’opera
difficile da digerire, perché è difficile capire quale ne sia la natura più autentica.
Caetani e laVerdi però sono
maestri nell’interpretare lo Shostakovich sinfonico (ne hanno inciso l’integrale!) e l’esecuzione è pressoché
impeccabile, accolta da un calorosissimo successo di pubblico.
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