Appena reduce dalla (trionfale,
dicono) trasferta russa, laVerdi
(senza Helmuth Rilling che speriamo
proprio di rivedere in occasione del Requiem brahmsiano!) è tornata in Auditorium
con Ruben Jais per il dodicesimo
concerto
della stagione principale.
Concerto che ha un
programma relativamente inconsueto, ma tutto saldamente ancorato all’800
(austro)tedesco, ma un ‘800 che guarda con grande rispetto alla tradizione
settecentesca (Haydn e Bach in testa) per renderle omaggio e allo
stesso tempo trarne ispirazione.
Ecco quindi Brahms e le sue Variazioni su un tema di Haydn.
Una specie di ultimo test attitudinale
(1873) cui il burbero amburghese si sottopose in vista della sua tanto attesa e
reclamata discesa in campo nell’arena
sinfonica (1876).
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Che il tema
originario (Chorale
in honorem St. Antonii, scritto per organico di banda) sia proprio di Haydn è cosa su cui nessuno è disposto a
metter la mano sul fuoco (anzi è ormai praticamente certo fosse un canto di
pellegrini boemi ripreso da Ignatz Joseph
Pleyel) ma ciò che interessa a noi è l’impiego magistrale che Brahms ha
fatto di quel tema di 10 battute (5+5) che lo caratterizza:
L’intera opera non
sfugge mai alla tonalità del tema principale: SIb. Le otto variazioni che
seguono l’esposizione del tema (cinque in modo maggiore e tre – 2-4-8 - in minore)
ne sviluppano tutte le potenzialità, o ne derivano altri motivi a mo’ di
reminiscenza.
Nel Finale (tempo di passacaglia, ecco un altro chiaro richiamo al glorioso passato)
Brahms inventa ancora una nutrita serie di (piccole) variazioni, su un motivo
di basso ostinato di 5 battute:
Esso è tenuto inizialmente
(per 9 volte) dai soli contrabbassi, ma poi passa ai violoncelli, alle viole e
quindi emerge in primo piano nei corni e ancora (in minore) negli oboi, poi nei
flauti e di nuovo nei corni, per tornare (in maggiore) a corni e violoncelli,
prima della trionfale e conclusiva ripresa del tema.
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Insomma, una composizione
che valse ad ottenere a Brahms il passaggio dell’esame (al pianoforte) con la
severa (ma anche… innamorata?) Clara
Schumann e a convincerlo a fare finalmente sul serio con la Sinfonia in DO minore.
Jais tiene tempi stringati e privilegia – giustamente, direi – i fiati, che sono i veri protagonisti del
brano (come lo erano nell’originale, del resto…): e i ragazzi rispondono alla
grande, consegnandoci un’esecuzione assai apprezzabile.
Ecco poi la Tragica
di Schubert: appellativo forse
esagerato - pur se scritto di proprio pugno (ma a posteriori, e senza mai
averla potuta udire suonata da un’orchestra) dall’autore - chè non basta di certo
il modo minore per tragicizzare
qualcosa… (caso mai il nick-name meglio
si applicherebbe all’Incompiuta).
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Qui è ancora lo
Schubert giovane, che ai limiti congeniti in campo sinfonico tenta di sopperire
con la cantabilità liederistica dei
suoi temi. Il primo movimento cerca di copiare il modello Haydn-iano (introduzione in Adagio
molto e poi tempo Allegro vivace)
ma ciò che manca è la capacità di sviluppo e di contrasto (o amalgama) dei
temi.
Dopo l’esposizione
(ripetuta) dei due temi - il primo in DO minore e il secondo in LAb maggiore
(dominante del MIb, relativa maggiore della tonalità di impianto) – ci si
aspetterebbe appunto uno sviluppo. Invece Schubert lo salta a piè pari per
avventurarsi in una riesposizione del primo tema in… SIb minore e
successivamente in SOL minore (!?) prima di ripescare il secondo tema e
faticosamente chiuderlo (col movimento) in DO maggiore. Insomma, una cosa che
somiglia di più ad una fantasia che
ad un primo tempo di sinfonia…
Molto meglio l’Andante, dove Schubert si trova… a casa
sua! E può sciorinare, senza obblighi di sorta, le sue bellissime melodie.
Quella del primo tema ispirerà molto più tardi il celeberrimo (secondo) Impromptu dell’opera 142:
Paradossalmente il
movimento è però strutturato con maggior robustezza rispetto al primo, con i
suoi due temi assai contrastanti, il primo (LAb maggiore) molto dolce e
delicato, il secondo (FA minore) il cui incipit (salita da dominante a tonica) ricorda
molto da vicino l’attacco del primo tema del movimento iniziale, introducendo
nell’opera un elemento di ciclicità.
La forma è più o meno A-B-A-B-A’(+coda): la seconda comparsa di A chiude modulando a REb e la seconda di
B inizia quindi nella relativa SIb
minore. A torna poi sviluppato
ampiamente, dando origine ad una mirabile cadenza finale.
Il successivo Menuetto, Allegro vivace, si
caratterizza per la sua concisione: severo il tema principale (MIb, ripetuto);
più cantabile la seconda idea, che sfocia ancora nel primo tema per la chiusa. Nel
Trio ricompare ciclicamente la salita
dominante-tonica, una specie di motto,
quindi, della Sinfonia.
Il cui Allegro conclusivo vuole presentarci una
specie di conflitto tra tenebre e luce (da cui emergerà la seconda). E già il
tema principale ci prefigura questo obiettivo: dal DO minore di impianto, la
sua seconda esposizione sfocia nella relativa MIb maggiore. Il tema viene
ancora ripreso in DO minore e subito sottoposto, nella stessa tonalità, ad uno
sviluppo convulso e quasi angoscioso nei violini, con le sincopi degli
strumentini e delle viole e con l’esplosione di un paio di accordi dissonanti
(sul SOL e SOLb) a tutta orchestra.
Qui subentra una
modulazione a LAb maggiore (come nel primo movimento) dove compare l’altra
idea, cantabile, palleggiata fra archi e fiati, che porta alla riproposta del
primo tema, adesso in MIb maggiore: ed è con questo che si conclude
l’esposizione (che prevederebbe, ma di solito non si fa, il ritorno
all’inizio).
Ora abbiamo uno
sviluppo dove il tema principale ricompare in frammenti e in tonalità diverse
per poi, dopo una rarefazione della melodia, passare abbastanza
sorprendentemente a LA maggiore e quindi, modulando per terze discendenti,
prima a FA maggiore e poi a REb maggiore, dove si inizia una transizione, che
passa dal FA al FA# e da qui al SOL, dominante del DO maggiore che sarà
protagonista della ricapitolazione finale.
Nella quale il tema
principale, dopo una prima esposizione in DO maggiore, torna anche in minore
(la relativa LA) così come il suo agitato sviluppo, che lascia spazio all’idea
cantabile, ora canonicamente in FA maggiore. Quindi il DO riprende
faticosamente il sopravvento per chiudere con una (peraltro poco luminosa)
apoteosi.
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Jais conferma la sua predisposizione a stringere i tempi: il che non
fa male, salvo che nell’Andante, che
a mio avviso avrebbe meritato un poco più di… ponderazione. Per il resto, uno
Schubert più che accettabile.
Chiude il concerto Mendelssohn con il Salmo XLII, da Martin Luther: Verlangen nach Gott aus fremden Land
(Desiderio di Dio da una terra straniera). Un’anima
conturbata e un cuore addolorato anelano e sono dolorosamente assetati di Dio.
Egli alla fine verrà loro in aiuto, perciò sia lodato per l’eternità:
Si tratta di una Cantata per 5 solisti e coro, composta
praticamente… in viaggio di nozze. È forse per questo che la musica che
accompagna il testo, invece di evocarne l’angoscioso contenuto, si mantiene in
un ambito piuttosto sereno e beato…
Vi troviamo gli stilemi
caratteristici del compositore, già comparsi in opere di ispirazione religiosa,
sia strumentali (vedi la Reformationssinfonie)
che vocali (come il Paulus) e che
ritroveremo più avanti nell’Elias e
soprattutto in quell’ibrido di sinfonia&cantata che sarà la Lobgesang. E anche qui il risultato è
musica accattivante, eterea sì, ma anche piuttosto molle, quasi al limite della
monotonia; insomma, priva di quegli slanci (e magari anche di spigolosità) che oltretutto
ci si aspetterebbero dall’asprezza di un testo come questo.
Ecco, alla fine si resta
come dopo un pranzo tutto a base, che so, di… camembert; o dopo aver mangiato
troppa… nutella (smile!)
Laura Aikin e i quattro solisti che
l’accompagnano nel n°6 (tutti membri del Coro de laVerdi: tenori Francesco
Frasca e Hidekazu Suzuki; bassi Fausto Candi e Diego Manto) hanno fatto del loro meglio, insieme al resto del Coro
di Erina Gambarini, per valorizzare al
massimo questa partitura.
Certo, la recente
trasferta russa dell’Orchestra deve aver limitato assai i tempi di prova,
rispetto al normale, e qualche incertezza è emersa qua e là. C’è quindi da
immaginare che le nelle prossime due uscite le cose vadano ancor meglio. Anche Ruben Jais ha sopperito con la sua
esperienza di Maestro del Coro e di barocco
all’assenza del mitico Rilling.
Alla fine buon successo,
in una sala relativamente affollata (tenendo conto del contestuale sciopero dei
mezzi pubblici…)
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