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20 agosto, 2024

ROF-2024-live: Bianca£Falliero.

Finalmente si torna (almeno per una volta) in città! Il rinnovato, dopo mille peripezie non proprio edificanti, Auditorium Scavolini (ex-Palafestival di buona memoria…) ha ospitato il ritorno sulla scena di Bianca&Falliero, ieri alla sua ultima recita (per la verità con molti posti vuoti…) che ha confermato in generale la buona impressione lasciata dall’ascolto radiofonico della prima.

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Felice Romani, oltremodo legato alla tradizione classica, confezionò (ispirandosi a Blanche et Montcassin di Antoine-Vincent Arnault, una tragedia dal finale a dir poco macabro) una storia a lieto fine, con tratti di pièce-à-sauvetage (lei che sfida l’autorità costituita per salvare lui dalla forca).

Un soggetto che su una base pseudo-storica (conflitto Venezia-Spagna nel secolo XVII) innesta in realtà la vicenda dei burrascosi rapporti di potere/denaro (Contareno-Capellio) e sentimentali (Bianca, Capellio e Falliero).

L’opera arrivò alla Scala (26 dicembre 1819) a soli due mesi di distanza da La donna del lago (24 ottobre, SanCarlo) e con essa ha qualche vaga rassomiglianza proprio sul versante degli affetti.

E non solo per l’auto-imprestito musicale del finale, con Tanti affetti (appunto!) che da Elena passa - non pari-pari come avverrà al Maometto veneziano, ma con opportune varianti - a Bianca (Teco io resto) ma anche per quanto riguarda la vicenda, diciamo, sentimentale, caratterizzata da un triangolo che vede al centro la donna (Elena/Bianca) e due suoi spasimanti (Malcom/Giacomo e Falliero/Capellio). In entrambi i casi la donna (sempre un soprano) resta fedele fino alla fine al suo amato, un militare eroico ma piuttosto squattrinato (Malcom/Falliero, contralti en-travesti) rifiutando di unirsi all’altro spasimante, assai più facoltoso e potente (Giacomo/Capellio, tenore/basso).

Storici e critici del teatro musicale non concordano nemmeno su come l’opera fu accolta, e meno ancora sulle cause di tale ricezione. Di (quasi) certo c’è che la critica paludata fece pollice-verso, trovando l’opera antiquata di concezione (libretto) e raffazzonata con furbeschi auto-imprestiti (musica). La trentina di repliche sembrerebbe invece avallare la tesi di una ricezione positiva del pubblico. Sta di fatto che fu Rossini per primo a non essere pienamente soddisfatto dell’esito di questa operazione, dalla quale evidentemente si aspettava assai di più.

E che si aspettasse di più lo si deduce, secondo il mio modesto parere, proprio dai contenuti musicali dell’opera. Opera grandiosa sotto tutti gli aspetti; da quello della lunghezza (dove credo sia seconda solo al Tell) a quello della forma, che ad un ascolto non superficiale appare come caricata di (eccessiva?) enfasi: tempi assai sostenuti, declamati ieratici e complesse e interminabili (per quanto mirabili) cadenze corali o virtuosistiche. In poche parole, un’opera esagerata, e troppo… classica, mentre il romanticismo ormai bussava alla porta (o già la stava sfondando)!

Insomma, è come se Rossini, anche per rispetto all’ambiente che gli aveva commissionato l’opera, volesse ricompensare il pubblico milanese sciorinandogli il meglio della sua arte, nel pieno rispetto della tradizione che veniva, come minimo, da Gluck, Mozart e Cherubini.

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Roberto Abbado (a mani… nude) e la OSN-RAI hanno avuto il merito di tenere sempre sufficientemente alta la tensione, che rischierebbe di allentarsi pericolosamente proprio a causa dei lunghi momenti dal sapore fin troppo sostenuto e pomposo di cui è infarcita quest’opera ipertrofica (caratteristiche che la regìa, al contrario del Direttore, ha francamente un po’ troppo assecondato). Qualche eccesso di decibel ha saltuariamente impedito alle voci di passare adeguatamente, ma forse la cosa può anche dipendere dall’acustica dell’impianto, che non mi è parsa proprio eccellente, ecco.

Come per Ermione, Giovanni Farina ha guidato il Coro del Teatro Ventidio Basso ad una prestazione di alto livello, confermando di aver raggiunto gran dimestichezza con Rossini, ormai acquisita dopo anni di regolare presenza al ROF.

Come già alla prima, è stata Jessica Pratt a raccogliere i maggiori consensi. Perfettamente calata nel personaggio di Bianca - solo apparentemente remissivo, ma capace poi di ribellarsi all’asfissiante autorità paterna, come una moderna femminista – la giunonica australiana ne ha messo in risalto tutte le qualità musicali, sia tecniche (colorature e vertiginosi virtuosismi) che interpretative (sogni, apprensioni, slanci amorosi, momenti di disperazione e temerarie iniziative).

Va da sé che il pubblico si sia esaltato ai suoi acrobatici sovracuti (i DO# e persino un MI naturale, nei passaggi in LA maggiore) e i DO, RE e MIb, l’ultimo dei quali ha chiuso in modo spettacolare (ma forse di un… secondo più breve rispetto alla prima) il finale rondò.

Aya Wakizono ha nesso in mostra la sua bella voce, calda e sempre ben impostata, ma assai sbilanciata nel timbro e nell’estensione, non proprio da contralto. Così, a fianco della Pratt (e non solo per via del suo fisico mingherlino) pareva la sorellina minore (DO acuti a profusione) e non l’eroe guerriero e autorevole. Ma a parte questo, la sua è stata una prestazione di livello più che apprezzabile, che ha toccato il culmine nella massacrante scena dal carcere (cavatina e successiva aria) lungamente applaudita.

Ai due protagonisti maschili Rossini riservò un trattamento apparentemente bizzarro: al maturo padre-padrone di Bianca (Contareno) la voce di (bari-)tenore, e al più giovane, innamorato della figlia (Capellio) quella di basso(-baritono)! Ecco, le due voci ascoltate qui sono sbilanciate verso l’alto (la prima) e verso il basso (la seconda) e ciò mi pare non abbia giovato a nessuno dei due personaggi. Ai cui interpreti peraltro va riconosciuto di aver professionalmente dato il meglio di sé.

Dmitry Korchak, da veterano ormai del ROF, ha messo voce e mestiere al servizio del personaggio del rude Contareno. Che con lui appare per la verità un po’ meno rude… per via della voce di tenore lirico del cantante-direttore russo (nel 2025 tornerà sul podio per l’Italiana). Come per la Wakizono, anche per lui ampi e meritati consensi.

Giorgi Manoshvili impersona Capellio, uomo di solidi principii e di grande nobiltà d’animo: sinceramente innamorato di Bianca, ma pronto a difenderne i diritti al costo di perderla. Ma soprattutto, uomo ancora abbastanza… giovane! Ebbene, la resa musicale del personaggio lascia qualche dubbio proprio per l’eccessiva gravità (leggi: cavernosità) del suono che esce dalle labbra del basso georgiano, paradossalmente più appropriato per il ruolo di un maturo cattivone (!) Ma anche a lui il pubblico non ha lesinato consensi.

Più che onorevoli le prestazioni dei comprimari: la fedele Costanza di Carmen Buendìa, il severo e autorevole Doge di Nicolò Donini, il premuroso cancelliere Pisani di Dangelo Dìaz e il messo/usciere di Claudio Zazzaro.

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Lo spettacolo di Jean-Louis Grinda si colloca, come ambientazione (scene, costumi e oggetti di Rudy Sabounghiilluminati anonimamente da Laurent Castaingt) nell’alveo di una generica modernità: all’inizio, dove incombe l’invasione spagnola, un maxischermo TV invia immagini di scene di guerra o del tipo Roma-città-aperta (ma ambientato in Spagna…) alternate a proiezioni di carte geografiche militari e di annunciatrici TG che ragguagliano sulle operazioni belliche. Per il resto vediamo gente abbigliata come oggi, o come 50 anni fa, o con cineprese anche più antiche…

La gestione, come si dice, delle masse è proprio da saggio-di-fine-anno: movimenti ridotti all’osso, spesso quadri da tableau-vivant, così da permettere ai coristi di pensare a cantare (assai bene, come detto) invece che a simulare gli atteggiamenti più disparati. Gli interpreti paiono essere liberi a loro volta di mettersi nei panni dei personaggi un po’ come pare a loro, ecco.    

Domanda: ma chi è mai la vecchia babbiona che compare nella scena d’esordio di Bianca e poi ritorna nella scena finale? Ah, saperlo, si accettano scommesse: è sua madre, prostrata dalla convivenza con il marito-padrone Contareno? Oppure è la stessa Bianca, come sarà ridotta (a proposito di improbabili lieti-fini) dopo vent’anni di convivenza con Falliero?

A parte questa trovata che ci ha tolto il sonno, Grinda se ne esce senza infamia e senza lodi, benevolmente ignorato dal pubblico.  

Che invece ha gratificato la compagnia di canto e suono con lunghi e meritatissimi applausi 

21 marzo, 2024

Guillaume Tell è approdato alla Scala - C.Muti in galera!

Scongiurato (per ora) lo sciopero delle maestranze del teatro, ecco approdato al Piermarini il Tell originale.

Rispetto all’edizione critica della Fondazione Rossini (Bartlet, 1992) Mariotti ha omesso le due più consistenti riaperture di tagli: il Pas de deux del primo atto e l’aria di Jemmy del terzo. Due brani che furono eseguiti nella prima al ROF del 1995, mentre nella ripresa pesarese del 2013 lo stesso Mariotti aveva omesso il primo ma eseguito il secondo. Altri piccoli tagli riguardano ad esempio i due interventi di Melcthal e quello di Tell nella Scena VI del primo atto, l’intervento di un cacciatore all’inizio del second’atto, il recitativo Arnold-Mathilde successivo al loro duetto (Atto II), una parte del Pas de Soldats (atto terzo) e l’invocazione degli austriaci a Tell, nella scena della tempesta (VII dell’atto finale, peraltro riportata sul libretto pubblicato come non tagliata…). 

Esecuzione musicale di livello assoluto. Grazie al Kapellmeister Mariotti, che il pubblico ha accolto come vero trionfatore della serata. Un vero peccato i tagli: valeva la pena iniziare alle 18:00 per ascoltare anche quest’altra musica sublime, così magistralmente interpretata. Al prossimo ROF il profeta-in-patria dirigerà Ermione, un appuntamento da mettere già in agenda…

Delle voci è da incorniciare quella di Dmitry Korchak: non solo, ma ovviamente anche per la scorpacciata di DO acuti (l’ultimo aux armes, scritto da Rossini un’ottava sotto, è proprio da Manrico!) che il tenore russo ci ha propinato con irrisoria facilità. Consensi unanimi e calorosi (vale sempre per lui il consiglio di non farsi distrarre dalle ambizioni da podio…)

Michele Pertusi cantò nel 1995 (quasi 30 anni fa!) questa edizione dell’opera al ROF: beh, l’età ha portato esperienza, imponenza e autorevolezza, che ampiamente compensano l’inevitabile logorio del mezzo vocale. Anche per lui un meritato trionfo.

Salomè Jicia ha una bella voce, che negli acuti spinti va al limite dell’urlo, ma in complesso è stata una Mathilde più che positiva, anche sul piano scenico.

Catherine Trottmann mi ha felicemente sorpreso: un vero peccato, a maggior ragione, averla (e averci) privata della bellissima (e lunga!) aria di Jemmy prima del tiro-alla-mela.

Tutti gli altri interpreti (alcuni sono navigati rossiniani) si sono bene (o benissimo) comportati, a partire da Dave Monaco (il pescatore che deve rompere il ghiaccio con qualche DO acuto non disprezzabile). E poi l’efficace Edwige di Géraldine Chauvet, il duro e sprezzante Gesler di Luca Tittoto, già veterano delle recite del 2013 al ROF e poi a Bologna. Evgeny Stavinsky ha dato voce ad un apprezzabile Melcthal, così come Nahuel Di Pierro è stato un più che discreto Walter. Dei restanti tre, Brayan Ávila Martinez (Rodolphe) mi è parso di voce poco penetrante, Paul Grant è stato un onesto Leuthold e l‘accademico Huanhong Li ha svolto diligentemente il suo compitino come Cacciatore.
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Che dire della regìa della figlia del Maeschtre? Peste-e-corna è ancora poco!

Intanto: butta nel cesso tutto il lancinante contrasto fra la vita di un popolo in pace con se stesso e in piena armonia con la natura, ignaro di essere schiavo di una potenza straniera… e la realtà dello stato di illibertà nel quale, appunto, non si accorge di vivere, a differenza dei pochi (Tell, Melcthal) che soffrono per tale stato di illibertà.

Invece la Muti, mandando in vacca tutta l’evocazione panica della Natura, cosa ci mostra (scene di Alessandro Camera, costumi di Ursula Patzak e luci di Vincent Longuemare)? Nibelheim (!!!)

Ispirandosi esplicitamente a Metropolis di Fritz Lang (1927) la Muti cucina un minestrone in cui il tema (unico e perfettamente delineato nel soggetto schilleriano tradotto in libretto da de Jouy e Bis) della lotta di liberazione nazionale contro l’occupante straniero (tema tipicamente romantico e pre-risorgimentale) viene indebitamente mescolato con quello (moderno e tuttora attuale) dello sfruttamento capitalistico di masse proletarie. Due temi che non possono stare insieme, come ci insegna la Storia, che ci dice che le lotte dell’800 di liberazione nazionale da gioghi stranieri (di cui la medievale vicenda del Tell è una remota ascendenza) non ebbero per protagonista le classi proletarie, ma la borghesia capitalistica alleata con sovrani costituzionali! (In Italia, il quartetto Vittorio Emanuele II, Camillo Cavour, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Operai, proletari?)  

Nel 2013 a Pesaro Graham Vick aveva scelto di proporci il Tell proprio nello scenario della lotta di classe: un’idea che personalmente ho stigmatizzato, ma almeno aveva il pregio di essere presentata con grande coerenza e non faceva a pugni con la presenza immanente della Natura, tanto cara – per restare a questa produzione – al Concertatore, e che qui invece si perde irrimediabilmente.

Basterebbe tutto ciò a liquidare questa proposta come fallimentare. Ma poi ci sono, a dimostrazione della desolante mancanza di idee precise della regista, le mille stupide trovate, disseminate a piene mani lungo le 4 ore (nette) dello spettacolo: gli incappucciati del KKK, le tre spose felici quasi stuprate dai mariti nella prima notte di nozze e poi (passo a sei) bistrattate dagli occupanti; il povero Melcthal che nel second’atto viene ripresentato appeso ad una croce e attorniato dalle tre spose ormai usucapite dagli occupanti; un enorme scheletro d’albero (dal quale Gesler dovrebbe cogliere la mela!); le coreografie (Silvia Giordano) che avrebbero indotto gli amiconi del Jockey Club parigino a far dimettere il soprintendente dell’Académie Royale de Musique! Il tutto culminato nella scena finale con generale smutandamento delle masse proletarie!   

Insomma, raramente si è assistito ad una simile, schizofrenica dissociazione fra musica e immagini. Quindi, molto categoricamente: pollice verso!!!

24 agosto, 2023

ROF-44 in piazza – Petite Messe Solennelle

Confesso che l’idea di recarmi una quarta volta in pochi giorni alla decentrata quanto cacofonica (applico all’architettura alle vongole una categoria della musica…) Vitrifrigo Arena (arrivandoci e ripartendoci in auto da Rimini) senza invece fare almeno una volta quattro passi per la bella Pesaro (arrivandoci comodamente in treno) è stata la molla principale che mi ha convinto a rinunciare alla presenza dal vivo per la PMS e a godermi, oltretutto a-gratis (limitazioni incluse, ovviamente…) lo spettacolo dalla Piazza del Popolo, dove da anni viene regolarmente diffuso in streaming il concerto che chiude il Festival. Almeno 5-600 le persone che hanno seguito così l’evento.

Un paio di osservazioni, diciamo così, tecniche, sull'esecuzione: la prima riguarda il famoso Prélude Religieux che, dopo due esecuzioni nella versione spuria (quella orchestrata dal compianto Alberto Zedda) è tornato – opportunamente, direi proprio - all’originale nel solo organo, magistralmente suonato da Nicola Lamon. (Qui un mio post del 2014 sull’argomento.) L’altra riguarda l’associazione dei solisti alle parti cantate dal coro: Rossini l’aveva prevista in alcuni numeri, forse perché il coro delle prime esecuzioni era davvero ridotto all’osso; qui al ROF, come sempre, anche ieri i solisti non si sono aggregati.

Ovviamente (va sempre ripetuto) l’ascolto tecnologico non permette di formulare giudizi compiuti sui suoni, ma qualcosa si può comunque osservare, ad esempio le agogiche tenute dal Direttore. E qui devo dire che il profeta-in-patria Michele Mariotti, che tornava al ROF dopo 4 anni (Semiramide 2019) e debuttava nella PMS non mi ha del tutto convinto: avendo tenuto tempi (per me) troppo sostenuti e slentati, come del resto testimoniano i 90’ netti di durata dell’esecuzione (se confrontati ad esempio con i 78’ di questo impeccabile Chailly).    

Sui suoi standard di eccellenza l’OSN-RAI, che invece suonava per la seconda volta (al ROF, s’intende) la Messa, avendola già eseguita nella precedente apparizione del 2018. 

Il Coro del Ventidio Basso diretto da Giovanni Farina era al primo approccio di quest’opera, dopo aver cantato di recente in due Stabat Mater (2017-21) e non ha tradito le attese. Invero trascinanti, in particolare, i monumentali passaggi fugati del Cum Sancto Spiritus e del Credo (l’Allegro cristiano!) dove finalmente Mariotti ha allentato un po’ le briglie…

Tutti da elogiare i solisti, a partire da Vasilisa Berzhanskaya, di ritorno al ROF dopo due anni: nel 2021 aveva trionfato come Sinaide nel Moise e a seguire aveva cantato lo Stabat Mater nell’edizione in forma scenica diretta da Bignamini. Davvero rimarchevole la sua prestazione, culminata nell’accorata implorazione dell’Agnus Dei.

Bene anche Rosa Feola, debuttante al ROF, che ha illustrato con calore il Crocifixus e l’O Salutaris. Le due si sono anche distinte insieme nel Qui Tollis.

Dmitry Korchak faceva parte del quartetto protagonista della penultima apparizione della PMS, nel 2014, sotto la direzione di Zedda. Efficace, stentoreo e cesellato il suo Domine deus.

Giorgi Manoshvili era al suo primo impegno importante al ROF. Più che buono il suo Quoniam, per profondità e portamento. Voce potente, ma magari qualche decibel in più non guasterebbe, proprio sulle note più… basse.

Grandi applausi per tutti e conclusione in… gloria. 
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Bene, archiviato anche il 44, ci si prepara al 45, che dovrà essere proprio speciale, essendo naturalmente la colonna portante dell’evento Pesaro: capitale italiana della cultura 2024… E l’annuncio divulgato già la sera dell’11 lo conferma, almeno sotto l’aspetto quantitativo: 4 titoli (e non 3 come uso ormai consolidato) e cioè Ermione (terza produzione, dopo 1987 e 2008); Bianca&Falliero (quarta apparizione, dopo 1986, 1989 e 2005); Barbiere di Siviglia (diventerà recordman di apparizioni, 7, dopo 1992, 1997, 2005, 2011©, 2014 e 2018); e infine L’Equivoco stravagante (quarta presenza dopo 2002, 2008 e 2019).

Uno sforzo davvero notevole, cui si aggiungerà la chiusura del Festival con Il Viaggio a Reims che celebrerà i 40 anni da quella produzione del 1984 entrata nella storia grazie alla stratosferica coppia Abbado-Ronconi.

Ora non resta da fare che un’implorazione… no, che dico, un’intimazione ai politici locali (e non):

riportate il Festival in città, cazzo!

07 giugno, 2023

Rusalka incanta la Scala

Ieri sera è quindi approdata finalmente al Piermarini (con vari buchi… ma peggio per gli assenti) la Rusalka di Antonín Dvořák, colmando così una imperdonabile lacuna nel curriculum scaligero. Dico subito che con questa produzione il Teatro si fa, almeno in parte, perdonare il ritardo, ecco!

Il merito va equamente distribuito fra tutte le componenti della squadra, a partire ovviamente da quella più importante, i suoni. La direzione impeccabile del 53enne di Brno, Tomáš Hanus, ha saputo valorizzare quanto di buono c’è in questa affascinante partitura: gli squarci idilliaci e sereni del mondo innocente della Natura; le pulsioni della protagonista, i suoi sogni, le sue speranze, poi le cocenti delusioni e infine la rassegnazione per l’esito della sua avventura, rassegnazione che tuttavia lascia aperto uno spiraglio di Mitleid a mitigare il nichilismo della conclusione; e infine il mondo degli umani, con tutte le sue classiche manifestazioni: superficialità, vanagloria, superbia e presunzione, credulità e superstizioni.

L’Orchestra da parte sua ha mostrato di trovarsi a suo agio con questo Dvořák tardoromantico, che sa coniugare la freschezza dell’ispirazione legata alle tradizioni della sua terra boema con il lascito wagneriano, senza mai cadere nel banale o nel melenso. Il coro di Alberto Malazzi ha dato il suo valido contributo, soprattutto nella parte femminile che impersona ninfe e ondine, così come nel breve passaggio della festa al castello.

Quanto alle voci, Olga Bezsmertna ha convinto nell’interpretazione della sfortunata ninfa, nei suoi mutamenti di… genere e quindi di umore; la voce ha forse qualche debolezza nelle note gravi, mentre al centro e sugli acuti ha dato il meglio di sé. Per lei un franco successo, premiato da una prima uscita singola nella quale si è presentata alzando e poi avvolgendosi nella bandiera giallo-blu della sua martoriata terra. Ma a proposito di politica e di guerra, davvero evocativa (e chissà se beneaugurante) la scena su cui cala il sipario: un russo (non importa se filo-putiniano o meno) che muore fra le braccia di un’ukraina che ha cercato la libertà, pentito per i torti che le ha inflitto in vita!

Il russo è Dmitry Korchak, che ormai si sdoppia fra canto e direzione d’orchestra: la voce è sempre chiara e squillante (viene da… Pesaro, non dimentichiamolo) e il suo Principe ne è stato ampiamente beneficiato.    

La Principessa passa come una meteora solo nel second’atto: Elena Guseva ha fatto del suo meglio, mostrando bella voce e sufficiente grinta nell’impersonare questa donna sfacciata e presuntuosa.   

Da elogiare la Strega di Okka von der Damerau, che non si è fatta trascinare dalla parte in inutili sguaiatezze, ma anzi ha caricato di drammaticità i suoi interventi; perfetta nella messa-nera del primo atto!        

Jongmin Park ha impersonato un Vodnik un po’ monocorde, mentre dovrebbe almeno differenziare il suo canto fra la disperazione per la sorte della figlia e gli anatemi verso Principe, Principessa e… lo sguattero portavoce. Voce potente ma un po’ troppo cavernosa: chissà se per questo ha avuto gli unici due buh piovuti dal secondo loggione.

Onorevoli la parti di contorno: il guardiacaccia Jiří Rajniš ha mostrato una solida voce baritonale, più adatta - secondo me - al ruolo rispetto a quella di tenore, cui pure viene spesso affidato, addirittura fin dalla prima; Svetlina Stoyanova, lo sguattero en-travesti, soprattutto nella prima scena del second’atto; e il cacciatore di Ilya Silchukou, che ha una parte davvero minuscola, ma l’ha svolta con diligenza.  

Assai bene le tre Ninfe del bosco, Hila Fahima, Juliana Grigoryan e Valentina Pluzhnikova, sia nelle parti singole (atto III) che in quelle a trio.

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Vengo ora allo spettacolo di Emma Dante. L’ambientazione esteriore è proprio da fiaba, come testimoniano le scene di Carmine Maringola e anche i bellissimi costumi di Vanessa Sannino. Efficaci le luci di Cristian Zucaro e appropriate e mai invadenti le coreografie di Sandro Maria Campagna.

La regista ha coniugato con grande efficacia l’aspetto favolistico del soggetto con i risvolti di natura sociologica, riservando per questi ultimi il secondo atto dell’opera.

La scenografia del primo atto ci mostra la facciata stilizzata di un palazzo davanti al quale si trova una piscinetta che simbolizza l’acqua del lago. Già durante il Preludio vediamo il Principe aggirarsi presso lo… stagno in cerca forse di qualcosa di… esotico, e Rusalka arrivare e contemplarlo spinta su una gran sedia a rotelle, con tentacoli che le escono da sotto la gonna: chiara e didascalica, ma efficace, evocazione della sua natura non-umana ma attirata dall’umanità.

Il suo passaggio a essere umano avviene nel corso di una vera e propria messa nera (con presenza di diavoletto scodinzolante) che la Strega celebra su una specie di altarino, con tanto di calici e ampolline: una parodia dissacrante che la Dante fa delle liturgie ecclesiastiche e, in generale, della religione (dico per inciso che qui ci sta tutta, quanto invece era gratuita nella sua Carmen…)

Il cambiamento di… genere avviene rimuovendo a Rusalka i tentacoli e poi, per metterla in verticale, facendola aggrappare ad un enorme amo da pesca calato dall’alto: immagine eloquentissima a spiegare il fenomeno (amo-re) che ha spinto l’ondina all’avventura impossibile!

 

Il secondo atto si apre davanti ad una parete (un sipario, in effetti) fatta di foltissimo fogliame, che fa da sfondo al siparietto di guardacaccia e sguattero. Ma il fogliame maschera la presenza di esseri mostruosi che poi si palesano come strani animali, simili ad orsi: il tutto supporta assai bene il racconto del guardiacaccia a proposito delle presenze del bosco. Poi il sipario-foresta si alza (lasciando anche cadere qualche rametto…) per mostrarci la sala del palazzo del Principe, dove ritroviamo la piscinetta nella quale è immerso un tavolo dove mangiano gli invitati.

 

E cosa mangiano? I tentacoli che erano stati rimossi a Rusalka! Ecco, è l’indizio che qui si comincia anche a fare un po’ di sociologia: non per nulla Rusalka ne rimane allibita. La scena è carica di simboli che rimandano alla non accettazione o all’irrisione del diverso, cosa che fa la Principessa nel reclamare dal Principe l’accoglienza che le spetta per diritto di… etnia (!?)

 

Alle danze si aggiunge agli invitati la stessa Rusalka, che però comincia pericolosamente a barcollare… chiaro indizio che la sua posizione nel mondo degli umani è ormai messa in pericolo. E addirittura la danza e la successiva marcia nuziale (à-la-Lohengrin) degli invitati si trasforma invece in un autentico funerale, dove una Rusalka imbalsamata viene deposta sul tavolo immerso nell’acqua (come dire: questa è la fine che farai, tornatene da dove sei venuta!)

 

A questo punto ridiscende provvisoriamente il sipario… boschivo per accogliere al proscenio l’incontro decisivo fra Principe e Principessa. La quale dapprima sembra convinta di aver ormai raggiunto il suo obiettivo, ma poi, di fronte alle perplessità e ai rimorsi del Principe dopo le minacce di Vodnik, lo manda al diavolo e se ne va, mentre il bosco si ritira in alto per mostrare una Rusalka troneggiante su un’imponente massa di tentacoli!

 

L’atto conclusivo rispecchia con fedeltà quasi assoluta il libretto: siamo tornati allo scenario iniziale, ma assai invecchiato e sfiorito. Rusalka è tuttora umana, ma fatica a reggersi in piedi e ancora ha bisogno dell’amo cui aggrapparsi.

 

Dopo l’intermezzo di guardiacaccia, sguattero e strega, e il nuovo incontro delle ninfe con Vodnik, ecco il poeticissimo finale, con il Principe che muore (proprio come Tristan) fra le braccia di Rusalka.

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Insomma, uno spettacolo di altissimo livello che il pubblico (almeno quello rimasto fino alla fine…) ha accolto con una decina di minuti di applausi per tutti. Certo è una delle migliori produzioni di questo 22-23 scaligero.

02 giugno, 2023

A 122 anni suonati Rusalka emerge alla Scala

Della serie: non è mai troppo tardi, ecco in arrivo alla Scala Rusalka di Antonín Dvořák, opera nata all’inizio dello scorso secolo (la prima ebbe luogo a Praga, domenica 31 marzo, 1901).

Rusalka è una delle rappresentanti di creature femminili semi- o ultra- o para-umane: arriva da noi in coda ad una lunga dinastia che – per non retrocedere fino all’antica Grecia - pare iniziare in Europa con la medievale Melusine (quella che musicherà Mendelssohn…) alla quale si ispirarono poi, nella prima metà dell’800, la Undine di De la Motte e Den lille Havfrue (la Sirenetta) di Andersen.

Ma anche le Figlie del Reno di wagneriana memoria discendono da lì (le loro evoluzioni nel Rheingold sono musicalmente parenti di quelle di Mendelssohn). E a proposito di Reno, che dire poi della Loreley messa in musica da Catalani.

Dietro a tutte le storie di questa lunga serie ovviamente si nascondono (più o meno) simbolismi di varie fatte, e Rusalka non ne è certo sfornita. Nel libretto di Jaroslav Kvapil troviamo due mondi che sembrano inconciliabili (e qui l’odierno assetto del nostro Pianeta e i problemi e contrasti che vi nascono possono essere impiegati dal regista per dare attualizzazione al soggetto): quello della Natura incontaminata (boschi, laghi e creature che li abitano) e quello della società umana, i cui rappresentanti portano valori quasi esclusivamente negativi. Più il personaggio di Ježibaba, la strega, un rifiuto della società da cui vive separata e temuta. Al di sopra, lontana ma sempre presente, la luna, che esercita sotto varie forme la sua perenne attrazione.

Dvořák impiega i collaudati strumenti del tardo-romanticismo per evidenziare – alle nostre orecchie – i due mondi che si contrappongono: melodie sognanti ed elegiache per la Natura, musica secolare e melodrammatica quella del mondo degli umani. 

I personaggi principali sono cinque: oltre alla protagonista Rusalka (indecifrabile creatura acquatica) abbiamo Vodník, che come lascia intuire la radice del nome (Voda=Acqua) è il Signore delle acque, nonché genitore (qualunque cosa significhi, nella fattispecie) di Rusalka e custode della purezza di ciò che vive nelle liquide profondità (Traulich und treu ist's nur in der Tiefe, cantano le wagneriane abitatrici del Reno); poi il Principe, classico esempio di figlio-di-papà, viziato, incostante e inconsistente, che trascinerà Rusalka alla perdizione, perdendo se stesso; quindi la Principessa straniera, che impersona la superbia e la presunzione di una che pensa che tutto le sia dovuto; e infine la strega Ježibaba, onnipotente nell’esaudire i desideri più improbabili, quanto nel porre ai beneficiari micidiali e quasi impossibili condizioni da rispettare, pena la totale perdizione.

Attorno a loro si muovono poi ninfe abitatrici del bosco, le sorelle di Rusalka e caratteri umani più o meno prosaici, se non insignificanti (invitati alla festa, cacciatore, guardia forestale e sguattero). 

Prima di passare ad una sommaria esegesi, ecco i riferimenti ad esecuzioni integrali rintracciabili in web:

1961: Chalabala-Šubrtová, Teatro Nazionale Praga (solo audio)

1986: Elder-Hannan, English National Opera

1996: Belohavek-Jenisova, Teatro Nazionale Praga 

2002: Conlon-Fleming, Opéra National de Paris

2008: WelserMöst-Nylund, Cleveland

2011: Anguélov-Strid, Teatro de Bellas Artes, Mexico

2017: Elder-Opolais, MET (solo audio)

2019: Ticciati-Matthews, Glyndebourne
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Il breve Preludio inizia in DO minore, con una veloce figurazione dei celli, sostenuti dai timpani, che introduce un languido motivo di violini e legni (motivo che, portato in modo maggiore, riudiremo più di una volta nel seguito, soprattutto associato a Rusalka):
Anche qui la tonalità vira presto al MIb maggiore che evoca tradizionalmente la Natura, con i corni che classicamente rappresentano le voci del bosco. Verso la conclusione fa la sua comparsa una figura di 4 note cromaticamente ascendenti, nei legni, che capiremo evocare l’acqua e il suo Signore:

Il primo dei tre atti dell’opera (di struttura tripartita, pur senza soluzione di continuità) si apre con una scenetta che ricorda l’inizio del Rheingold, ma totalmente depurata di ogni carattere drammatico: mentre la luna riflette la sua luce sulla superficie del lago, ecco le (tre!) ninfe del bosco esibirsi in canti e balli (Zvědavě se hloubku dívá, LA maggiore):

Incuriosito, ecco Vodník emergere con il busto dall’acqua e cercare, con modi bonari e goffe movenze, di acchiappare ora l’una ora l’altra delle ninfe che gli sfuggono divertite, dopo averlo innocentemente adescato.

Un lungo arpeggio ci annuncia la presenza di Rusalka, che è fuori dall’acqua (e questo è già indice della sua attitudine ribelle) e confessa al padre (in orchestra si ode il languido tema di apertura del Preludio) il suo desiderio di abbandonare il suo habitat naturale per assumere fattezze umane e soprattutto avere un’anima, che gli umani conservano anche dopo la morte, nell’aldilà. Vodník ne è colpito, avverte la figlia che avere un’anima è un peccato (filosofia di Anassimandro…) 

Lei ora fa la sua confessione (Sem často přichází, in FA maggiore):

Racconta di provare amore per un essere umano (il Principe che lei vede – e… avvolge - ogni giorno, quando lui si bagna nel lago) al che il padre si dispera per l’imminente perdita di una figlia, ma allo stesso tempo non si oppone alla sua volontà, anzi è lui stesso a suggerire a Rusalka di rivolgersi alla strega perché la aiuti ad esaudire il suo desiderio.

Měsíčku ne nebi hlubokém, l’aria (o romanza, o ballata, o canzone, come la si voglia definire, in SOLb maggiore, 3/8) più famosa dell’opera è la preghiera che Rusalka rivolge al chiaro di luna, implorando di poter essere vista e amata dal Principe:

Al termine delle due strofe fa capolino la figurazione cromatica udita nel Preludio, a ricordarci che è l’acqua che alla fine si riprenderà la sfortunata ondina.

Che adesso, mentre il padre ancora si dispera, chiama la strega, che appare sulla soglia della sua stamberga. In questa seconda parte dell’atto facciamo la conoscenza di Ježibaba, che rappresenta più o meno l’anello di congiunzione fra il naturale e il soprannaturale: lei è umana ma conosce segreti ignoti agli umani e sfrutta queste conoscenze per accontentare (e ricattare!) chiunque le si rivolga per ottenere da lei ciò che non può procurarsi con le proprie capacità.

Rusalka, preceduta dal motivo di apertura del preludio, le spiega la sua condizione, il suo insopprimibile desiderio e la fiducia che lei nutre nei suoi poteri magici (Staletá moudrost tvá všechno ví, FA# minore e relativa LA maggiore):

Ma anche per Rusalka – che pure umana non è, ma chiede di diventarlo - non fa eccezioni o favoritismi: se proprio ci tiene, potrà diventare umana e soddisfare così quei desideri (anima e/o eros?) che le sono negati dalla sua condizione. Ma, attenzione, in cambio dovrà accettare clausole contrattuali assai pesanti: oltre a cedere alla strega il suo abito di ondina (un sistema che Ježibaba evidentemente impiega per arricchire il suo patrimonio di conoscenze e prerogative) Rusalka dovrà rassegnarsi a perdere la sua voce (curiosa assurdità: un essere acquatico che non dovrebbe proprio averla per natura!) ma soprattutto ad essere punita con il ritorno alle liquide profondità nel caso in cui la sua storia d’amore finisca male; e finirebbe male anche per il suo innamorato, destinato a morte certa! 

Rusalka si dice pronta a tutto, così la strega prepara la sua infernale pozione (Čury mury fuk, SI minore) elencandone i magici ingredienti:

Poi ingiunge all'ondina di bersi d’un sol fiato tutta la brodaglia, mentre dalle profondità del lago salgono i lamenti di Vodnik per la perdita della figlia…

Eccoci quindi alla terza e conclusiva sezione dell’Atto I: è ormai mattino ed arrivano i cacciatori (uno canta anche pochi versi, in due riprese) che precedono il loro Principe. Il quale, già in preda a suggestioni fiabesche, li congeda per rimanere da solo ad aspettare… Rusalka, che guarda caso in quel momento esce – ormai umanizzata, ma pure muta – dalla dimora della strega. L’innamoramento è ovviamente a prima vista, ma ad una sola voce (Vidino divná, přesladká, in RE maggiore) preceduta dal dolce motivo che aveva aperto il Preludio: 

È una classica aria da tenore lirico ma, come per l’aria alla luna di Rusalka, anche qui, fra le due strofe, si fa risentire il motivo acquatico, freddo presentimento per ciò che accadrà nel seguito. Mentre le sorelle si chiedono addolorate dove se ne andrà e il padre risponde che vagherà per monti, prati e valli, la muta Rusalka è accompagnata verso il castello dal Principe, che chiude l’atto con un’ultima aria (Vím že jsi kouzlo, in LAb maggiore) che riprende anche un passaggio del Preludio:

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L’Atto secondo comprende quattro sezioni, separate da un ballo. Siamo nei pressi del castello del Principe e la guardia forestale si intrattiene con un giovane sguattero che lo ragguaglia di ciò che sta per accadere quella sera: il Principe dà una festa per annunciare il suo matrimonio con una creatura misteriosa, di cui si è innamorato. Questo gradevole siparietto – dove fa capolino una citazione, forse non involontaria dato il contesto, del Finale della Renana - dà modo a baritono e soprano-en-travesti di godere di uno dei due momenti di gloria a loro riservati.

La seconda scena ci porta dentro al castello, dove troviamo il Principe che cerca di riscaldare la fredda e muta Rusalka. Mirabile l’introduzione orchestrale alla sua aria in LAb maggiore (Již týden dliš mi poboku):

E questa lunga aria la riprende e la amplia:

Il Principe manifesta con passione e trasporto il suo stato d’animo combattuto fra il desiderio di Rusalka e le perplessità sollevate dal comportamento della giovane, sempre muta e apparentemente fredda. Si lamenta di non poter penetrare i suoi segreti e si domanda se il matrimonio porterà loro la completa felicità…  

Arriva la Principessa straniera, furiosa alla vista del Principe con Rusalka: dapprima sovrappone le sue imprecazioni all’ultima implorazione del Principe all'ondina, poi si intromette sfacciatamente fra i due, accusando il Principe di inosservanza dei suoi doveri. E il Principe mostra tutta l’inconsistenza e l’incostanza dei suoi sentimenti con un’esternazione in LA minore (Leč oči její říci zapomněly):

…con la quale si scusa con la trionfante Principessa per poi, dopo aver ingiunto a Rusalka di ritirarsi, cominciare addirittura a corteggiarla!   

Un delizioso interludio orchestrale, che riprende il motivo di apertura del Preludio, sottolinea la tristezza di Rusalka, ormai rassegnata a perdere il Principe, che vede allontanarsi al braccio della nuova arrivata. La luna torna ad affacciarsi, mentre si odono la prime note della festa danzante che sta per cominciare.

Dato l’ambiente, la festa non può aprirsi che con una polacca in MIb maggiore (in effetti richiama vagamente quella ciajkovskiana dell’Onegin):

La musica della danza ha una struttura a Rondo: Polacca – Prima danza – Polacca – Seconda danza – Polacca – Coda, con le due danze che tendenzialmente modulano alla sottodominante LAb maggiore.

Ma improvvisamente (preceduto dal motivo cromatico dell’acqua) appare Vodnik, arrivando dal lago, che ancora non si dà pace per la sorte della figlia, di cui intuisce il dramma. E lo fa con un’accorata aria bipartita (Celý svět nedá ti, nedá) che principia in MI minore per poi sfociare in una stupefacente coda in REb maggiore:

Vodnik chiude la sua aria con un nuovo, disperato rimpianto per l’errore commesso dalla figlia, mentre il coro degli invitati canta (Květiny bílé po cestě) i suoi voti augurali per gli sposi (Lohengrin…) È una graziosa melodia in SI maggiore, al termine della quale ancora Vodnik sovrappone la sua voce - ma con lunghezze di note più ampie - a quelle del coro che riprende la melodia nuziale: è il suo accorato vaticinio (Na vodách bílý leknín sní) per la sorte che attende la figlia:

 

Un drammatico sfogo dell’orchestra introduce l’incontro del padre con la figlia che – riacquistata miracolosamente la voce - gli confessa tutta la sua delusione e l’amarezza per l’avventura umana che - purtroppo per lei, e a causa della sua natura non-umana - sta prendendo una brutta piega. Il motivo introduttivo del Preludio anticipa l'aria Ó marno, marno, marno il suo amaro sfogo, espresso con un agitato passaggio in SOL minore:

Poi, mentre si odono le salite cromatiche che ricordano l’acqua, con una straziante invocazione, implora il padre di aiutarla ad uscire da quella insopportabile situazione.

Tornano il Principe e la Principessa per la scena madre che chiude l’atto: in un melodrammatico duetto fatto di botte-e-risposte lei constata il cambiamento di atteggiamento del Principe nei suoi confronti, lui le esterna tutto il suo amore, nemmeno sa come spiegare, se non definendolo un capriccio, il suo improvviso cambio di atteggiamento nei confronti di Rusalka. A questo punto lei lo mette perfidamente alla prova con un passaggio in LA minore (Až požár můj vás popálí) che poi sfocia in un romantico e ammaliante LA maggiore (Až obejmou vás lokty slíčné):

Lui ormai ha ceduto e le dichiara di voler dimenticare Rusalka per lei, così cantano a due voci (per la prima volta) la loro passione, stringendosi in un abbraccio appassionato. Ma Rusalka irrompe sulla scena, frapponendosi tra i due; ed anche Vodnik interviene, manifestando il suo disprezzo per il Principe fedifrago, che supplica la Principessa di aiutarlo ad uscire da questo lacerante dilemma.

Per tutta risposta, la Principessa lo pianta in asso, mandandolo proprio all’inferno, giù negli abissi, insieme alla creatura dalla quale si era fatto ammaliare (V hlubinu pekla bezejmennou):

12 battute orchestrali chiudono precipitosamente l’atto, con un finale FA# all’unisono.
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L’Introduzione all’Atto terzo ci riporta alla scena con la quale l’opera si era aperta: le rive del lago, la notte incombente, l'immancabile presenza della luna. Ma accanto alle dolci sonorità della Natura compaiono passaggi assai concitati: è Rusalka, palesemente sfiorita, che non si dà pace per essersi cacciata in quest’avventura che l’ha gettata in un vicolo cieco: non può più vivere tra gli umani né tornare alla sua vita pre-umana. Lo canta con una lunga e appassionata aria In FA maggiore ma con diverse modulazioni (Mladosti své pozbavenache accosta a sua volta passaggi languidi ad altri che sottolineano il suo strazio e il desiderio di morte:

È la strega Ježibaba che, dopo averla irrisa per il fallimento della sua velleitaria iniziativa, ne raccoglie il pentimento e le promette di risolvere i suoi problemi a patto che lei uccida – le porge un coltello – quell’uomo che l’ha tradita (Lidskou krví musíš smýti, in SI minore):

È la stessa natura umana che reclama sangue! proclama la strega.

Rusalka rifiuta inorridita quell’oscena proposta, così, mentre la strega rincara la dose su di lei, liquidandola come una totale nullità e se ne torna a casa sua, lei, accompagnandosi con la languida melodia che aveva aperto il Preludio, canta la sua rassegnazione (Vyrvána životu) invocando infine su di sé anche la maledizione:

Maledizione che puntualmente le arriva dalle sorelle che intonano, dapprima a cappella, un coro (Odešla jsi do světa) apparentemente sereno:

Ma le parole delle ondine suonano come inappellabile condanna: Rusalka non potrà più trovar posto fra loro, dopo il peccato commesso con il desiderio di umanizzarsi.

Un secondo siparietto – dopo quello dell’inizio del second’atto – vede ora tornare in scena la guardia forestale e lo sguattero, piuttosto recalcitrante a sbrigare l’incarico avuto dalla badante del principe: chiedere alla strega consigli su come guarire la malattia psicologica del protetto, vittima delle arti magiche di Rusalka.

Ma mentre il ragazzo porta tutto tremante la sua ambasciata alla strega, Vodnik emerge dalle acque per difendere la figlia, vittima del tradimento del Principe, e mette in fuga lui e la guardia, mentre la strega se ne va sghignazzando selvaggiamente.

Tornano ora le tre ninfe del bosco, ciascuna vantando immodestamente le proprie prerogative di bellezza e, come all’inizio dell’opera, cominciando ad adulare Vodnik. Ma lui le ragguaglia sulla tragica vicenda di Rusalka, al che le tre fuggono spaventate e addolorate.

Siamo finalmente all’epilogo: il Principe arriva sul posto, alla ricerca spasmodica di Rusalka (Ode dne ke dni touhou štván, in FA minore, agitato):

Poi ancora, mentre l’orchestra ricrea un’atmosfera idilliaca, appassionatamente la invoca, facendo appello alle voci della foresta, fino a stramazzare esausto. E proprio allora, preceduta da dolci arpeggi e poi accompagnata dall’incantevole motivo che aveva aperto il Preludio, Rusalka gli appare dinanzi.  

Il principe la guarda stupito e interdetto, le chiede se sia viva o morta; lei gli risponde che è divenuta uno spirito maledetto, che ormai potrà solo recargli la morte (Živa ni mrtva, žena ni víla):

Lui continua a chiederle perdono per il suo comportamento e ad implorarla di tornare con lui. Con la tonalità che modula ad un dolcissimo quanto rassegnato MI maggiore, lei rimpiange i brevi momenti del loro primo incontro, ma gli conferma che ciò comporterebbe per lui la perdita della vita (Proč volal jsi mne v náruč svou):

Il canto di Rusalka si chiude sul DO# minore, enarmonicamente trasportato in REb maggiore, nella quale tonalità il Principe decide comunque di abbandonarsi al suo bacio (Líbej mne, líbej, mír mi přej):

Ancora un ultimo scambio di battute fra i due, sempre in REb maggiore: lei che rinnova l’annuncio della tragica fine per lui, che invece la invoca, pur di morire avvolto dal suo abbraccio e dai suoi baci (Všechno chci ti, všechno chci ti dát):

Una nuova enarmonia ci porta a DO# minore: è Vodnik che, dal profondo, su un motivo di marcia funebre dell’orchestra, manifesta il suo rammarico e la sua disperazione per l’irreparabilità di ciò che è accaduto.

Rusalka, prima di immergersi per l’eternità, e mentre si torna a REb, chiede misericordia a Dio per il Principe (Za tvou lásku, za tu krásu tvou):

Seguono dieci battute di Grandioso, appassionato, e infine tre sull’accordo perfetto di REb maggiore (un simbolo anche questo!) chiudono l‘opera in Adagio, pianissimo. 
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Bene, martedi 6 giugno staremo a vedere e sentire. Qualche settimana fa è comparsa sul NYT un’interessante anticipazione di questa produzione, con commenti e interviste alla Dante e al Maestro Hanus. In particolare la regista ha anticipato il suo Konzept (come dicono i crucchi) incentrato sulle tematiche di grande attualità: flussi migratori, problemi di integrazione (o di sostituzione etnica???) e fenomeni di intolleranza.

Vanessa Sannino ha da parte sua anticipato bozzetti dei costumi dei principali personaggi:

Sul fronte musicale, Hanus e Bezsmertna hanno già sufficiente esperienza di quest’opera, ergo ci dovremmo aspettare uno spettacolo di buon livello.