allibratori all'opera

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06 ottobre, 2019

Francesconi imperversa a Milano


In concomitanza e assonanza con l’edizione 2019 di Milano Musica, dedicata al compositore, la Scala ripropone Quartett di Luca Francesconi, che vide la luce più di 8 anni orsono, commissionata proprio dal Teatro. Dopo l’anteprima-giovani del 2, ieri sera è andata in scena la prima delle sei recite in cartellone. Rispetto al 2011 è cambiato solo il Direttore, mentre sono tornati i due (unici) protagonisti e il team di regìa.

Qui alla Scala si assiste infatti all’allestimento originale dell’opera, che è già stata ed è tuttora rappresentata in giro per il mondo anche in produzioni diverse. Quanto invece al contenuto musicale, parecchie sezioni dell’opera (coro e orchestra grande - OUT, dietro le quinte - registrate qui dal vivo nelle recite del 2011) vengono adesso diffuse nei teatri che ospitano Quartett attraverso sistemi di amplificazione. Con risultati a volte disastrosi, come riportano da Berkeley. Per fortuna qui tutto è andato assai bene: evidentemente i tecnici IRCAM han fatto del loro meglio.

Personalmente ero rimasto assai perplesso ai tempi della prima, e il mio scetticismo non era sfumato rivedendo e riascoltando l’opera (in questa ripresa català del 2017, con l’allestimento originale della Fura e gli stessi due protagonisti) in vista dell’appuntamento di ieri. Ma devo dire che anche questa nuova esperienza non mi ha portato a rivedere quel giudizio.

Il soggetto - questo è risaputo - gia’ non è dei più facili da assimilare: in particolare lo sdoppiamento dei due personaggi (scene 6-8 e 10-12) non è semplice da decifrare per uno spettatore che non abbia ben presente questo espediente inventato dall’autore del dramma originale (Heiner Müller) e conservato da Francesconi; anche perchè la lingua (inglese) non aiuta certo a seguire nel modo più efficace la trama.

Certo, lo spettacolo di per sè sarà pure di buon livello e di forte impatto, ma ciò che mi convince meno è proprio la musica! E non solo per la sua atonalità (ad esempio il seriale Wozzeck mi risulta assai meno indigesto); ma perchè la trovo (in specie proprio il canto) eccessivamente sostenuta, affettata, scarsamente dotata di varietà di inflessioni e di pathos; invece pare un continuo lamento isterico, una serie di esternazioni allucinate che - a voler malignare - si potrebbe definire una... lagna. Le parti puramente strumentali sollevano la media, ma restano poca cosa. Verdi usava parlare di tinta per le sue opere: ma non era mai un colore fisso e monotono, perbacco!  

Mi viene qui da fare una riflessione che spesso mi ronza in mente, ascoltando musica di questo genere: ma se lo stesso soggetto potesse essere oggi musicato non dico dallo Strauss della Salome e di Elektra, ma anche solo dal Korngold di Die tote Stadt, cosa ne uscirebbe? Ebbene, con tutto il rispetto dovuto a Francesconi, mi sentirei di scommettere che il risultato sarebbe assai più accattivante. Insomma, ripeto quanto esposto l’altro ieri in occasione dell’apertura di Milano Musica all’Auditorium: questa è musica difficile da capire razionalmente (a dispetto del massiccio impiego di strumenti... scientifici per la sua composizione ed esecuzione) ed esasperante se ascoltata in modo passivo. Gli enormi spazi vuoti al Piermarini e l’accoglienza tiepidina allo spettacolo (che pure sta registrando una discreta presenza presso i teatri nel mondo) la dicono lunga su quanto poco (non dico nulla) la musica contemporanea riesca a far rinverdire i fasti di un passato glorioso dal quale continua invece ad allontanarsi sempre più.

Ovviamente sono solo da lodare le prestazioni dei protagonisti: Maxime Pascal, già applaudito qui un paio d’anni fa per una primizia di Sciarrino, e soprattutto i due interpreti Allison Cook e Robin Adams, ormai evidentemente in simbiosi con le loro parti, avendole cantate ripetutamene in giro per il mondo.
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PS: sto partendo in treno per Torino, dove mi aspetta... l’antidoto!

04 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°1 con Milano Musica


laVerdi ha avuto il privilegio quest’anno di fare - in un sol colpo - una doppia inaugurazione: quella, normale per così dire, della propria stagione in abbonamento, e quella davvero speciale del Festival Milano Musica, quest’anno dedicato a Luca Francesconi (che - dopo l’anteprima-giovani di martedi scorso -  domani sarà ancora protagonista alla Scala con la ripresa della sua Quartett del 2011).  

E Francesconi è al centro del Concerto, diretto dal giovane Michele Gamba (ascoltato con piacere settimane fa proprio alla Scala nell’Elisir, dove sarà anche questa sera) con due suoi brani scortati, in certo qual modo, da altrettante brevi composizioni di Gustav Mahler.

Devo ammettere e confermare che la musica di Francesconi purtroppo non riesce a convincermi. Per carità, massimo rispetto per la libertà di espressione e quindi lungi da me liquidare la questione impiegando l’ormai famosa espressione usata dal mitico Fantozzi a proposito della Corazzata Potiomkin, ma mi limiterò a prendere a prestito quella politically correct che - a suo tempo - proprio Gustav Mahler usò nei confronti della musica atonale di Arnold Schönberg (del quale peraltro difendeva a spada tratta il sacrosanto diritto ad esprimersi come meglio credeva): La sua musica non la capisco...

Ecco: se cerco di capirla, individuandone una qualche narrativa (o programma interno che dir si voglia, per i brani strumentali) non arrivo quasi a nulla (colpa mia, immagino...); e nel caso di testi musicati (come il Baudelaire di Etymo) non riesco proprio a trovare dei seri razionali che spieghino la connessione fra suono e parole. Queste opere mi paiono costruzioni magari genialoidi, ma piuttosto fredde (come le tecnologie che impiegano) troppo artefatte o eccessivamente volte all’effetto più che... all’affetto, ecco. E infatti meglio non va se provo a fruirne passivamente come si farebbe con un walzer di Strauss o un numero di balletto di Ciajkovski: zero stimuli, per dirla con Mourinho...

Adesso però sfido Ruben Jais (Direttore Generale nonchè Artistico de laVerdi) a smentire che l’impaginazione del concerto (Mahler1 - Francesconi1 /pausa/ Francesconi2 - Mahler2) sia stata dettata dalle stesse intenzioni che già 45 anni fa animavano i programmi concertistici scaligeri di Abbado: un famoso pezzo classico-romantico di apertura seguito dal brano contemporaneo (che il pubblico così era costretto ad ascoltare) e poi - dopo la pausa - un altro big dell’800. Assai più onesta l’impaginazione di un concerto cui assistetti negli anni ’80 a Monaco: Meerestille di Mendelssohn, Concerto per violino di Beethoven e, dopo la pausa, una sinfonia del Direttore-Autore Kurt Graunke. Residenz gremita qual uovo nella prima parte e letteralmente svuotatasi all’intervallo!

Ho sempre pensato anche che i primi entusiasti di musica come questa siano gli interpreti chiamati ad eseguirla. Sì perchè, oltre a poter sciorinare funambolismi tecnici che lasciano a bocca aperta, possono stare assolutamente certi che nessuno fra il pubblico (forse nemmeno il compositore in persona...) potrà mai prenderli in castagna per aver suonato/cantato un SI bemolle al posto di un SI bequadro! (Oh, dopodichè do per scontato che i ragazzi dell’Orchestra, il funambolo Jay e la bella Juliet non abbiano sbagliato una sola nota, sia chiaro.)
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Il Concerto per violoncello (tre movimenti canonici) che è stato eseguito per la prima volta in Italia (esordì circa 2 anni fa a Lucerna con lo stesso interprete, Jay Campbell) è intitolato Das Ding singt (la cosa canta, qualunque sia il riferimento alla cosa...) ma curiosamente proprio sul sito del compositore è presentato invece (quasi in Stabreim) come das Dingt singt, espressione guarda caso (!) priva di senso compiuto (Dingt non è sostantivo, ma forma verbale di Dingen, che significa mercanteggiare, o assumere): a meno di significanze recondite, parrebbe proprio un errore di stompa, il che però non fa onore a Francesconi, che evidentemente nemmeno controlla accuratamente ciò che pubblica (o che qualcuno gli pubblica) in web...  

Fossimo in ambito tonale, dovremmo parlare di un Concerto in SOL: nel primo movimento (fino a 7’31” nella citata registrazione) il solista (con sei altri celli schierati intorno, a tenergli bordone) esplora in sostanza la terza corda, una nota ostinatamente tenuta sulla quale cominciano a piovere svolazzi diversi che via via si intensificano e acutizzano fino a formare lingue di fuoco che fuggono verso l’alto (oh, questo ce lo vedo io, sia chiaro...) Il movimento centrale chiama in causa dapprima arpa e celesta, a creare atmosfere sognanti (su un sottofondo di LA) nelle quali il solista getta i suoi ghiribizzi, accompagnati da scrosci e urti delle percussioni. Si ascoltano per la verità anche alcune frasi melodiche e slanci lirici. A 13’52” ecco il movimento conclusivo, che ci riporta al sottofondo di SOL, dove il solista si produce in una cadenza liberamente presa (se lo dice l’Autore, bisogna credergli!) da una delle prime composizioni per violoncello, la Chiacona per basso solo di Giuseppe Colombi (metà del ‘600). L’atmosfera si va poco a poco surriscaldando, con i sette celli a rincorrersi fino a raggiungere un orgasmo sonoro in zona sovracuta, chiuso da un ultimo svolazzo quasi beffardo.

Come spesso accade, attorno a brani come questo nascono spiegazioni teorico-filosofico-scientifiche, che però invece di aiutare a comprendere rischiano di aumentare la confusione. Sentite ciò che scrisse Johannes Knapp (allora responsabile dell’Associazione Svizzera dei Musicisti) in occasione della prima del 2017:

Nella coda, i sette celli suonano nel loro registro più alto e alla massima velocità possibile, proprio al limite della pazzia. Un “insetto elettronico” è la definizione data dal compositore a questo veemente insieme di violoncelli, che assai presto collassa in rumore. Nulla in Das Ding suggerisce alcuna formula teorica di base. Francesconi parla di proprietà del suono che si possono attribuire ad un enigmatico concetto di filosofia e psicanalisi: l’Entità. Benchè Freud, Heidegger e molti altri abbiano riflettuto su ciò, noi nulla sappiamo di concreto di questa Entità. Queste proprietà esterne e mutevoli sono le uniche cose tangibili di essa. La sua intima essenza rimane, per contrasto, impenetrabile: un vuoto totale, un simultaneo tutto-e-nulla che, dice Francesconi, “nasconde in se stesso molti pericoli”. È il caos pieno di raggiante energia al quale il compositore cerca di avvicinarsi sia concettualmente che emozionalmente. L’arte è probabilmente l’unica via per comunicare direttamente con questa Cosa misteriosa. La musica rende udibile ciò che altrimenti non potrebbe essere udito.

Beh, non molto diversamente più di un secolo fa Mahler descriveva il processo creativo del musicista (come lui lo viveva): la musica rende percepibili quelle oscure sensazioni che non sarebbero altrimenti trasferibili all’ascoltatore; al quale non resterebbe quindi che affidarsi al rapsodo...

Ecco, per dire: io, se mi affido al rapsodo Mahler, qualche oscura sensazione credo di recepirla, nel senso che le mie corde interne vanno in risonanza con quella musica; se mi affido al rapsodo Francesconi, ahimè e ahilui... le corde restano quasi immobili.      
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Com’è andata? Il trio Francesconi-Campbell-Gamba si è preso la sua buona dose di applausi - se quelli al compositore siano convinti o di circostanza è sempre da stabilire - e il trentenne californiano si è confermato davvero un fenomeno di tecnica e virtuosismo. Ma da pari gli sono stati i sei moschettieri-violoncelli dell’Orchestra!
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Dopo la pausa, ecco Etymo II, rivisitazione del 2005 (con grande orchestra) di un’opera di 11 anni anteriore (Etymo) per soprano, elettronica assortita e piccolo ensemble. La materia prima che Francesconi impiega è costituita da testi presi da Baudelaire (Le voyage, L’albatros e Carnets intimes). Come spiega l’Autore, è un cammino in tre tappe (più un congedo) che ha come oggetto la parola (i minutaggi si riferiscono alla citata edizione di Etymo-1994): 1. allo stadio pre-verbale (pura fonetica); 2. (7’00”) verbale (linguistica); 3. (14’20”) post-verbale (poetica). Il congedo in prosa (24’03”) è... la morte.

Anche qui la mia personale impressione è che si tratti di un costrutto dove la tecnica e la... tecnologia prevalgono sull’ispirazione e la cui cerebralità finisce per costituire - sempre per me - una barriera alla piena fruizione del brano.

Juliet Fraser avrebbe una bella voce, solo che ieri il precario bilanciamento fra i fracassi dell’orchestra (colpa di Gamba?) e l’amplificazione (probabilmente insufficiente) della voce medesima ne ha parecchio compromesso l’efficacia.   

Come per il brano precedente, anche qui applausi e consensi, peraltro limitati ad un paio di chiamate.
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Il brano di chiusura si riallacciava in qualche modo al Baudelaire di Francesconi: là il Voyage terminava con l’incontro con la Morte; così come il Rückert di Ich bin der Welt abhanden gekommen è il poeta che si è isolato dal mondo e dai suoi... rumori (!)

Martin Hässler ne ha dato una lettura convincente: senza mai forzare la voce più di tanto, ha ben reso il carattere introverso e serenamente pessimista del Lied, parente stretto dell’Adagietto della Quinta. Caloroso successo anche per lui.
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L’apertura aveva visto il ritorno in Auditorium (dopo quasi sei anni) di Blumine, costola rimossa dalla prima versione del Titano. Ieri è toccato alla tromba di Antonio Signorile porgerlo con grande perizia ed eleganza. Adesso Jais potrà programmare un Titano originale in 5 tempi!
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Come detto, domani sera ancora Francesconi: servirà poi un antidoto...

06 maggio, 2011

Alla Scala qualcosa di nuovo (?)

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Ogni tanto capita che un teatro, o un'orchestra, o un festival, o magari un club di sommelier commissioni ad un musicista una nuova opera. Stavolta è successo alla Scala di commissionare (ma quanto pagano?) un'opera all'attuale Direttore Artistico della Biennale Musica di Venezia, il milanese Luca Francesconi.

Il quale, in un mondo globalizzato quale il nostro, ha pensato bene di prendere lo spunto da un dramma in prosa tedesco della seconda metà del '900, a sua volta ispirato da un racconto francese della seconda metà del '700, e di stenderne il libretto in lingua inglese (airport-english, come ci tiene a precisare l'Autore medesimo, cioè un inglese così poco oxfordiano da essere facilmente comprensibile da un lappone, da un basco, da un vietnamita, da uno zambiano e persino da un londinese). Il titolo dell'opera resta però in tedesco (lingua madre, quando si tratta di certa musica): Quartett (così siamo sicuri che ci arriva anche un bresciano come me, smile!)

Comincio col riportare alla lettera una critica pubblicata di recente:

L'apporto di Alex Ollé e della Fura dels Baus penso sia molto importante proprio come "antidoto" a una lettura banalmente post-espressionista o ideologica di Heiner Müller, e che aiuti a proiettarlo invece da un lato in una dimensione epocale legata alle sorti della civiltà occidentale, dall'altro su un piano più universale.
Lo stesso percorso che la musica intende seguire.
L'opera è una grande macchina, un laboratorio alchemico dove questa babele di pulsioni e di lingue può trovare uno stato di fusione.
E questo grazie all'effetto di febbrile "alterazione", di alta temperatura percettiva che la musica soltanto è in grado di indurre.
L'elaborazione elettronica di suoni e spazi è l'altro agente chimico che reinscrive l'esperienza in una nuova dimensione di ascolto: moderna, veloce, attenta, multidimensionale.
Ciò che in fondo il teatro d'opera ha sempre voluto sognare.
Il rapporto con un luogo sacrale come La Scala non è conflittuale né compiacente.
È impensabile ignorarne la forza immaginifica e storica. Ma è forse possibile, se non necessario, metabolizzarlo e integrarlo nel mondo; in un mondo che va oltre i suoi muri ed anzi lo contiene, come il mare un magnifico corallo.

Ma di chi mai sarà una così profonda e illuminata recensione? Di Isotta, Mattioli, Foletto, Arruga, Stinchelli, o del Corriere della Grisi? No, è di un tal Luca Francesconi, che dev'essere un omonimo, e pure sosia, dell'Autore!

Ora, se il soggetto di Müller è sufficientemente urticante - ancorchè imbevuto di pretenziosa retorica anti-borghese made-in-DDR – la musica che Francesconi gli ha cucito attorno mi è parsa ancor più velleitaria e incapace di suscitare non dico emozioni, ma nemmeno grande interesse, a dispetto delle tecnologie IRCAM impiegate in larga scala e degli accorgimenti (fra l'altro non nuovi, come le due orchestre, ancora poche) previsti per l'esecuzione.

Che si possa andare a teatro anche per piangere o meditare sulle miserie umane è perfettamente ammissibile, per carità… ma evidentemente ai giorni nostri si pretende che il pubblico soffra per davvero, ma proprio fisicamente: sarò banale e disfattista, ma temo proprio di sapere come un certo Fantozzi – l'io profondo di (quasi) tutti noi - avrebbe commentato la serata (smile!) Personalmente, alla domanda: "cosa preferisci, vedere ancora quest'opera, o un'altra Tosca di Bondy?" non avrei dubbi su come rispondere; perché la Tosca di Bondy – basta chiudere gli occhi – qualche emozione te la dà comunque, garantito. E poi se Jonas stona, lo becchi subito in castagna, perdio.

Si può commentare tecnicamente lo spettacolo? Credo proprio di no. Il regista e il resto della troupe hanno potuto – cosa rara – lavorare gomito-a-gomito con l'autore di libretto&musica, quindi se avessero fatto cazzate sarebbero proprio da rinchiudere. Quanto ai musicisti, con musica come questa come si fa a decifrare se il soprano ha stonato sul SIb della scena 5, o se la direttrice d'orchestra ha strascicato eccessivamente i tempi nel duetto della scena 10?

In compenso si può apprezzare il mirabile piano schematico dell'opera, esattamente come uscito dalle proprie mani dell'Autore:



L'impressione è che anche questa, come purtroppo molte altre opere contemporanee, sia – programmaticamente? – destinata a ricevere il suo successo di stima (musically-correct, si potrebbe dire con una parafrasi) - successo che è puntualmente arrivato anche ieri sera, da un pubblico scarso e non propriamente entusiasta, che ha evidentemente premiato l'abnegazione della Cook e di Adams, e l'impegno di Mälkki, Lavoie, Casoni, coro, orchestre e allestitori - per poi venire ridimensionata a concisa entry nel catalogo dell'Autore. Ma in fondo anche il Wagner rivoluzionario (mica quello di Bayreuth, ovvio) farneticava di festival dove si eseguissero due, massimo tre volte delle opere nuove, per poi dare alle fiamme tutto quanto, dalle partiture ai palchi!
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13 gennaio, 2011

Rondò 2011


Come preventivo antidoto contro la melassa diatonica (smile!) che questa sera mi verrà propinata da laVerdi (a base di Haydn e Brahms) ieri sera ho fatto una scorta di musica moderna, in buona parte contemporanea. L'occasione era fornita da Divertimento Ensemble, diretto da Sandro Gorli, che ha inaugurato la sua ottava stagione di Incontri con la Musica – dal primo '900 ad oggi, stagione che si chiuderà mercoledi 8 giugno.  

I concerti sono sempre preceduti da una presentazione, spesso con la presenza degli autori di composizioni in programma. Ieri sera, assente Luca Francesconi, erano ospiti Stefano Gervasoni e Daniele Ghisi, dei quali sono state poi eseguite tre composizioni recenti, recentissime o nuove di zecca, fra le quali è stato per l'occasione incastonato nientemeno che Prokofiev. Il loro fratello maggiore, per così dire, Alessandro Solbiati, dopo aver doverosamente stigmatizzato l'attuale andazzo di tagli e colpi d'accetta alle risorse per la cultura, li ha sollecitati a raccontarci le loro esperienze di compositori di oggi. Quanto ai brani in esecuzione, alcune note sul programma di sala orientavano in qualche modo l'ascoltatore; che, diciamolo francamente, ha sempre qualche difficoltà a districarsi con musica come questa.

Ecco infatti la musica. Ad aggiungersi all'Ensemble, in qualità di solista, il venerabile Salvatore Accardo.

Escludendo Prokofiev, che qui è ospite di riguardo, ma… non fa testo, le altre tre composizioni hanno una comune caratteristica: di avere, se non proprio un programma, almeno un'ispirazione, o connessione – aperta o criptica, o magari solo apparente - con l'esterno. Se nessuno si offende, usando categorie obsolete ed ottocentesche (?) si potrebbero definire dei poemi sinfonici del terzo millennio.

Il primo dei quali, eseguito dall'Ensemble, è Da Capo II di Francesconi, del 2007, per 8 strumenti: Flauto(+Ottavino), Clarinetto, Fagotto, Pianoforte, Percussioni (Vibrafono, Marimba, Glockenspiel), Violino, Viola e Violoncello. A prima vista, parrebbe scoperto il riferimento culturale (smile!) del titolo. In realtà Francesconi già aveva composto un primo brano con quel titolo in tempi non sospetti ('85-86). L'attuale Direttore artistico della Biennale Musica di Venezia ci propone – parole sue – un processo, un meccanismo di trasformazione, in un unico grande "arco" che deve risultare comprensibile come un gesto pittorico. Personalmente lo vedo come un gesto di pittura astratta (smile!) sulla cui immediata comprensibilità ci sarebbe da discutere. Una novità tecnica che si comincia ad apprezzare qui (ma sarà sfruttata al massimo grado nel brano di Gervasoni) consiste nel fare emettere al pianoforte suoni prodotti in modo, diciamo, non convenzionale: appoggiando le mani sulle corde, o direttamente percuotendole con una bacchetta; il che costringe l'esecutore (ieri la bravissima Maria Grazia Bellocchio) ad acrobazie ginniche, oltre che a spostare lo spartito su un improvvisato leggìo dentro la coda dello strumento. Il che ci spiega anche la vera ragione del fatto che il coperchio dello stesso venga tenuto sollevato (smile!)

Segue un classico, la lunga Sonata n°1 op.80 per violino e pianoforte di Sergei Prokofiev. Composta a cavallo della seconda guerra mondiale, di ispirazione quasi cimiteriale, come lo stesso autore ebbe a dire. Accardo è accompagnato dalla Bellocchio ed anzi si sistema quasi addosso a lei, coprendone la figura agli occhi dello spettatore; questa inconsueta e bizzarra dislocazione si spiega con la necessità, per Accardo, di sbirciare lo spartito collocato sul leggìo del pianoforte; spartito che in realtà, come una partitura, reca insieme i due righi del pianoforte sovrastati da quello del violino. Per carità, non è qui il caso di incolpare il famoso violinista di mancata mandata a memoria di una sonata tanto difficile, quanto desueta… ma forse c'era qualche altro sistema logistico per risolvere meglio il problema. Quanto all'esecuzione, Accardo è parso assai compassato, anche in quei momenti che – stando ai ricordi di testimoni auricolari – Prokofiev voleva suonati quasi con ferocia fisica. Grande successo e – siamo alle solite – gente che dopo l'intervallo (allietato da degustazioni di vino offerto dallo sponsor della serata) se ne va alla chetichella.


Tocca ancora all'Ensemble (tutti bravissimi musicisti, non c'è che dire!) eseguire, di Gervasoni, Prato prima presente. Composizione del 2009 per: Flauto, Oboe, Clarinetto, Percussioni, Pianoforte, Violino, Viola e Violoncello. La sottostante filosofia è – per intenderci – quella del Ragazzo della Via Gluck (là dove c'era l'erba – appunto, il prato prima presente - ora c'e una città) cioè di come la civiltà di oggi, per costruire quella di domani, si rapporti con (o non si curi di) quella di ieri. In effetti c'è un tappeto sonoro che può rimandare ad un prato, popolato da insetti che si aggirano nell'erba (magari anche da bambini che ci giocano); sul quale si odono brusche irruzioni di qualche palazzinaro di turno, piuttosto che armoniosi interventi à la Renzo Piano. Naturalmente è un'impressione personale, al limite della battuta; quanto all'assunto dell'opera (…il prato è come la pagina bianca per il compositore: non è mai del tutto bianca, del tutto neutra, del tutto indifferente a ciò che il compositore si permetterà di metterci sopra) è di sicuro intrigante, e lascia trasparire la coscienza – e anche il peso – dell'eredità musicale che un compositore contemporaneo si trova sulle spalle. Quanto al risultato estetico dello sforzo di Gervasoni… credo che per apprezzarlo sarebbe necessario (quanto meno per uno come me) studiare assai!

Chiude il concerto la prima assoluta di una composizione commissionata dall'Ensemble a Daniele Ghisi: De Selby Compendium, che impiega anche il Violino solista, insieme a Flauto, Oboe, Clarinetto(+basso), Fagotto, Tromba, Pianoforte, Percussioni, Violino, Viola, Violoncello e Contrabbasso. Il titolo si ispira ad un bizzarro personaggio letterario, prodotto dalla fertile fantasia di Brian O'Nolan: un misto di filosofo-demenziale, alchimista-pazzo, dottor-stranamore e una-bomber. Il giovanissimo Ghisi ci ha ricavato una specie di bigino in musica, affidando al violino (ancora Accardo, uno dei dedicatari dell'opera) il ruolo del protagonista, e al resto dell'Ensemble quello di descrivere le sue imprese e i suoi vaneggiamenti. Variazioni fantastiche su un tema di carattere cavalleresco: così qualcuno sottotitolò un poema sinfonico ispirato ad un altro bizzarro personaggio, per certi versi antesignano di De Selby... ma è acqua passata.

In ogni caso, come forse si sarà capito, le musiche eseguite qui (non parlo di Prokofiev…) appartengono ad un filone modernista che si potrebbe definire spirituale, in opposizione a quello, tutto materiale, dove il compositore si diverte (smile!) a manipolare suoni, anzi più spesso rumori (yes, mr. Ross!) nei cosiddetti studi di fonologia.

Francamente, è già qualcosa. (Adesso però, trangugiato l'antidoto, non vedo l'ora di avvelenarmi con Haydn e Brahms…)
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