XIV

da prevosto a leone
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16 aprile, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.24 – Tjeknavorian & Rossini

Un Auditorium stracolmo di pubblico - in religioso raccoglimento durante l’esecuzione e poi trasformatosi in una bolgia da stadio dopo l’ultimo accordo di SOL minore dell’orchestra – ha accolto questa nuova, grande prova del giovane Direttore Musicale, uno Stabat Mater che ci ha davvero coinvolto ed emozionato.

Plauso ovviamente da estendere all’Orchestra, in stato di grazia in ogni sezione, e al superlativo Coro di Fiocchi Malaspina.

Si discute sempre dell’eccessiva melodrammaticità di questo Rossini sacro. Ammesso che ciò abbia ancora rilevanza al di fuori della ristretta cerchia di puristi e custodi dell’ortodossia, direi che il Tjek se ne sia bellamente fregato, leggendo Rossini per quel che è (non ci sono Rossini buffi, seri o sacri, ma un solo straordinario genio, capace di eccellere in ogni campo e in ogni genere). Così il Direttore – che ha mandato a memoria anche queste 250 pagine! - ha interpretato l’agogica ora con sostenutezza e sapienti prese di respiro, ora con passo travolgente (come nelle colossali fughe) e lo stesso ha fatto con le dinamiche, tenendo sempre alto il contrasto fra piani e forti, e scolpendo così un sontuoso edificio musicale, che ci appare con tutte le qualità, insieme del teatro e della cattedrale.       

Francamente qualche riserva me la… riservo per i quattro solisti: appena sopra la sufficienza Benedetta Torre e piuttosto a disagio con la sua parte Martina Belli; Juan Francisco Gatell ha avuto la disavventura di incappare subito in una spiacevole acciaccatura proprio sull’impervio REb del Cuius animam, e forse ciò può aver condizionato anche il resto della sua non proprio brillantissima prestazione. Da elogiare invece il navigatissimo Nicola Ulivieri, distintosi sempre nei suoi impegnativi passaggi.

Le riserve sui solisti mi portano inevitabilmente a domandarmi (sospettare?) la ragione della scelta di affidare il Quando corpus morietur al coro e non ai singoli. Cito al proposito un passaggio del venerabile Alberto Zedda: …N.9 Quando corpus morietur, pagina di alta commozione capace di trasformare il terrore della morte in paradisiaco stupore, è stato pensato da Rossini per quattro voci soliste: la difficoltà di mantenere una corretta intonazione, resa problematica da procedimenti cromatici ed enarmonici che si prolungano per intensi episodi, ha fatto tradizionalmente preferire l’impiego dell’intero coro, ideale per realizzare con la giusta espressione i colori dinamici fondamentalmente basati su piano e pianissimo. Ed è un fatto che a Pesaro (e non solo làggiù...) il brano sia sempre affidato al coro. Il che però lo priva oggettivamente della sua intensità quasi metafisica; per intenderci: quella che caratterizza lo stesso brano in Pergolesi, del quale Rossini aveva una stima incondizionata.

Ma insomma, non sottilizziamo troppo e teniamoci stretto questo Tjek, che ormai mostra di non temere qualunque prova, e che rivedremo e ascolteremo per altri tre concerti verso la fine della stagione.

PS: chi desideri ascoltare (o ri-ascoltare) il concerto di ieri, inclusa la presentazione da studio di Barbieri e i commenti dalla sala di Bossini, può farlo grazie alla registrazione di mamma RAI.    


11 aprile, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano – per Pasqua Rossini prende il posto di Bach

Cambiano i Direttori e cambiano anche le tradizioni: nella Settimana Santa Ruben Jais, Direttore Artistico de laVerdi, immancabilmente programmava (magari appaltandola a… se stesso, cioè a laBarocca) l’esecuzione di una delle due passioni di Bach: Matteo o, alternativamente, Giovanni (questa fu l’ultima rappresentata, lo scorso anno).

Ora l’avvento di Tjeknavorian ha portato con sé anche una novità pasquale: al posto di Bach… Rossini e il suo monumentale Stabat Mater (martedi 15 e giovedi 17, ore 20). 

L’opera è alla sua ottava comparsa in Auditorium. Fu per parecchie stagioni una presenza costante nella programmazione de laVerdi: diretto dall’indimenticabile Romano Gandolfi, lo Stabat Mater risuonò qui in quattro stagioni consecutive: 99-00, 00-01, 01-02 e 02-03. Poi ritornò con Stéphane Denève nella stagione 05-06. Quindi 10 anni di assenza, prima di una nuova comparsa, con Claus Peter Flor nel 2016. Infine, sempre con Flor, l’ultima presenza, nel 2018, in occasione dei 150 anni dalla scomparsa di Rossini e dei 20 anni dalla nascita del Coro Sinfonico.

Al Rossini Opera Festival lo Stabat Mater è stato eseguito per ben 14 volte e, guarda caso, l’ultima apparizione colà, nel 2021, ebbe un qualche indiretto legame con laVerdi: perché a dirigerlo, alla testa della Filarmonica Rossini e del Coro del Ventidio Basso, fu una creatura dell’Orchestra milanese, Jader Bignamini.

Dopo i recenti trionfali concerti, l’aspettativa per questa nuova sfida del giovane Direttore Musicale è altissima. Nell’attesa, ecco un mio personale ripasso sui contenuti di questo capolavoro del genio pesarese.


21 agosto, 2021

ROF-42: Stabat... Bignamini

Per rifarsi dell’astinenza del 2020, il ROF ha voluto fare le cose in grande anche nella tradizionale proposta del concerto che normalmente chiude il Festival (quest’anno però spodestato dalle nozze d’argento con JDF).

Così ecco che si è rappresentato lo Stabat Mater in forma (3/4?) scenica, cosa assai inconsueta e credo (ma potrei sbagliare...) del tutto nuova per il ROF, essendo il testo di Jacopone ormai arrivato alla 14a presenza al Festival (precedenti 81, 82, 84, 87, 94, 01, 03, 05, 06, 08, 10, 15, 17).

Responsabile del... misfatto il braccio destro dell’eterno Pier Luigi Pizzi, quel Massimo Gasparon che ha contribuito in questi giorni al grandioso successo del Moïse.

Siamo (anche questa credo sia una novità per lo Stabat) lontani dal Teatro Rossini, ma vicini... all’A14, cioè alla Vitrifrigo Arena, che tutti danno per morta (per il ROF, s’intende) da anni, ma della quale il travagliatissimo parto rigeneratore del Palafestival rimanda ormai regolarmente il trapasso da una stagione alla successiva.

Sul podio il Direttore Residente... de chè? ma de laVerdi, perbacco! Quel Jader Bignamini che è tornato a Pesaro dopo un lustro (Ciro in Babilonia) per cimentarsi (per la prima volta?) con questo capolavoro, composto apparentemente di malavoglia dal parvenue Rossini, tanto per accontentare un alto prelato spagnolo assai influente a Parigi. Bignamini non si smentisce, mandando come al solito a memoria la partitura che deve dirigere: e la sua è stata una direzione invero pregevole, per la misura con cui ha guidato gli strumenti e la precisione degli attacchi per soli e coro.

Il quartetto SATB era composto da Giuliana Gianfaldoni, soprano che ha debuttato al ROF lo scorso anno ne La cambiale di matrimonio: voce ben impostata e penetrante, che le ha consentito in particolare un apprezzabile approccio al difficile Inflammatus et Accensus, dove ha sciorinato i due ravvicinati DO acuti senza apparente sforzo. Poi Vasilisa Berzhanskaya, mezzosoprano trionfatrice del recentissimo Moïse come Sinaïde: e in bella evidenza anche Ieri, in particolare nella complessa cavatina del Fac ut portem. Ancora il tenore Ruzil Gatin, che nel 2018 fu un onorevole Zamorre nel Ricciardo e Zoraide: voce ancora un poco aspra nel centro della tessitura, ma squillante negli acuti (vedi il REb del Cujus animam). E infine la piacevole conferma del basso Riccardo Fassi, già apprezzato nei panni di Polibio nel Demetrio e Polibio del 2019.

Il Coro era ancora una volta quello del Ventidio Basso diretto ottimamente da Giovanni Farina. L’Orchestra la Filarmonica Rossini, già recente protagonista del Bruschino.
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Gasparon ovviamente ha seguito le tracce del maestro: la scena e i costumi sembravano derivati da quelli del Moïse, così come l’impiego della passerella che circonda l’orchestra, sulla quale sono avanzati di volta in volta i solisti per esporre i relativi numeri. Il coro era tendenzialmente diviso in due sezioni, poste a destra e sinistra della scena. Lo schermo sul fondo proiettava immagini di cieli di volta in volta nuvolosi, tempestosi, o finalmente invasi da luce abbagliante. 

In scena, oltre ai cantanti che si muovevano come seguaci di Gesù affranti per il dolore, 5 figuranti, che interpretavano rispettivamente la Madonna, Gesù e tre portantini che si son presi sulle spalle la salma del Cristo per un giro di passerella tipo marcia funebre di Sigfrido, durante il n°9 a-cappella (affidato come d’uso al coro e non ai solisti).

Durante l’Introduzione orchestrale e lo Stabat Mater del coro viene portata in scena la croce su cui viene issato (senza chiodi, ovviamente) il Cristo, e alla cui base si sdraia la Mater in gramaglie. Al n°5 (Eia Mater) avviene la deposizione del corpo di Gesù, adagiato fra le braccia della Madonna a mo’ di pietà-di-michelangelo. Al n°7 (Fac ut portem) il corpo di Gesù viene trasferito su un candido sudario e poi, come detto, al n°9 (Quando corpus) viene portato in processione. Nel frattempo (n°8, Inflammatus et accensus) al gran fracasso orchestrale si è accompagnata la proiezione di nuvole nere di un autentico uragano tropicale. Alla fine della colossale fuga (accompagnata sullo schermo dall’esplodere di una luce abbagliante) il corpo di Cristo uscirà definitivamente di scena. E dopo i poderosi accordi conclusivi la croce al centro della scena apparirà letteralmente ergersi su una collina formata da corpi di esseri umani adoranti.

Insomma, una cosa architettata con gusto, misura e raffinatezza, che il pubblico ha mostrato di gradire assai: applausi fragorosi e una gragnuola di pedate sul tavolato dell’Arena hanno accolto tutti i protagonisti di questa serata davvero da incorniciare.
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Il ROF chiude stasera il cartellone principale con la quarta recita di Elisabetta. Domenica ci sarà il Gala per le nozze d’argento di Florez. Che mi perdonerà se non sarò alla festa (aspetto quelle d’oro!!!)

13 ottobre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°3


Anche laVerdi non poteva trascurare la ricorrenza dei 150 anni dalla morte di Rossini, così questo terzo concerto della stagione è incentrato su una delle opere non teatrali del genio pesarese, il grandioso Stabat Mater. E per l’occasione si è stabilito anche un sodalizio fra l’Orchestra e il Rossini Opera Festival, precisamente con l’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda”, la fucina di voci rossiniane creata e diretta (fino all’ultimo suo respiro!) dal venerabile maestro milanese che a Rossini ha dedicato l’intera sua esistenza. Della quale Accademia sono qui rappresentanti le voci soliste che - insieme al Coro di casa di Erina Gambarini (che festeggia i suoi primi vent’anni) e agli strumentisti guidati da Claus Peter Flor - danno vita alla serata.
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In un Auditorium preso d’assalto la serata è stata aperta dalla Trauer Symphonie (la n°44) dell’imparruccato - ma innovatore - Josephus Haydn, il quale tolse il disturbo proprio mentre un 17enne Gioachino stava per spiccare il volo verso la stratosfera... non prima però di aver approfondito gli studi delle opere di Mozart e, appunto, di Haydn, autore a sua volta di un sommo Stabat Mater (da qui l’appellativo di tedeschino affibbiato al ragazzo). A proposito di influenza di Mozart e Haydn su Rossini mi permetto di segnalare un acuto studio (una tesi di dottorato di laurea) di Federico Gon, che pochi mesi fa è stato ospite in Auditorium in veste di compositore... tardoromantico. 

L’accostamento di questa sinfonia con lo Stabat rossiniano ha quindi una valenza squisitamente musicale e non è certo da intendersi come omaggio funebre al grande Gioachino, cosa che si potrebbe arguire essendo stata la Sinfonia coloritamente quanto apocrifamente definita funebre... ma senza altro appiglio che il desiderio - espresso in tarda età dal compositore - di farne eseguire l’Adagio ai suoi funerali. Poichè per il resto poco o nulla si incontra nell’opera che richiami un mortorio, e la tonalità minore non basta a definire funebre un brano musicale (a nessuno viene in mente di affibbiare questo appellativo alla K550 di Mozart, per dire). Lo stesso Adagio è in tonalità maggiore, ed esprime serenità e pace, atmosfere che il vecchio Haydn si augurava evidentemente di trovare all’aldilà... ma a 35 anni di distanza dalla composizione di quella musica, partorita quando era 40enne nell’accogliente bambagia di Esterháza! 

Sinfonia, come detto, che contiene germi di innovazione rispetto agli standard classici settecenteschi, oltre a scelte piuttosto coraggiose, come il piano tonale che rimane costante per l’intera sinfonia, gravitando sempre sul MI minore e sulle due relative maggiori: MI e SOL. Tutti i movimenti sono sostanzialmente monotematici; il Menuetto è anticipato in seconda posizione, spostando quindi l’Adagio in terza. La compagine orchestrale è assai ridotta, al tempo Haydn faticava ad avere 20 strumentisti, quindi si tratta quasi di musica da camera
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Proviamo a seguire il brano come interpretato da Christopher Hogwood con la sua Academy of Ancient Music (diapason a 415 o giù di lì). 

L’Allegro con Brio è in MI minore (4/4) e si apre con l’esposizione del tema, che è costituito da due sezioni: la prima di carattere stentoreo, una sorta di motto di sole 4 battute e la seconda (8”) più cantabile, di 8 battute, che chiude sulla dominante SI. Il tema viene ripetuto (22”) ma in forma variata: alle 2 prime battute del motto segue (26”) una progressiva transizione di 5 battute verso la tonalità relativa di SOL maggiore, dove il motto (35”) è esposto dagli archi bassi, mentre il resto degli archi e gli oboi si sbizzariscono in veloci figurazioni di crome e semicrome. L’esposizione rimane in SOL maggiore, con riapparizione del tema (1’12”) seguita da una lunga cadenza che si chiude sul SI, dominante del MI con cui viene ripetuta (col canonico da-capo) l’esposizione (1’47”). 

Esposizione che si chiude (3’33”) per dar spazio allo sviluppo. Che si apre con il motto esposto dapprima in SI minore e poi (3’41”) in LA minore, seguito dalla sezione cantabile che sfocia in una modulazione (3’56”) a DO maggiore dove ricompaiono le veloci quartine di crome e semicrome degli archi, che modulano dapprima (4’14”) a RE maggiore e poi (4’22”) al SOL maggiore, per tornare infine al MI minore per la ripresa

Che inizia allorquando riudiamo (4’41”) il tema, motto più sezione cantabile che si amplia quasi fosse un nuovo sviluppo, ed è seguita (5’07”) dalle 5 battute di transizione e poi (5’16”) dalle folate dei violini. Le quali portano (5’28”) ad una ricomparsa del motto, cui segue un cadenza che sfuma sorprendentemente (5’50”) in un accordo di settima diminuita negli archi (RE#-FA#-LA-DO) con tanto di corona puntata

Inizia ora (5’54”) la coda, con il motto in MI minore negli archi bassi e viole, sommessamente contrappuntato in canone alla dominante dai violini. A 6’06” sono ancora le veloci figurazioni dei violini a portare il movimento alla conclusione (6’24”) Ma Haydn qui ci fa un bello scherzetto: mette il da-capo anche all’intera sezione sviluppo-ripresa-coda! Se lo si rispetta - come fa Hogwood - il primo tempo chiude a 9’16”

Il Menuetto (3/4, Allegretto) rimane nella tonalità di MI minore. Il suo tema (9’22”) occupa 16 battute ed è esposto a canone (ritardo di una battuta) da violini, poi celli-bassi (un’ottava sotto, da cui l’indicazione Canone in Diapason) e quindi viole, sfociando nella relativa SOL maggiore. Viene canonicamente ripetuto (9’40”). La seconda sezione (9’58”) ripropone il tema in SOL maggiore, ma subito torna a MI minore. Per spegnersi sulla dominante SI (10’15”). Ora troviamo un nuovo soggetto, variante del tema, che chiude la sezione (10’45”) da ripetersi.come la prima. Il Menuetto si conclude quindi a 11’33” 

Ecco il Trio in MI maggiore, con la sua prima sezione che chiude sulla dominante SI (11’46”). Sezione ripetuta e seguita poi (11’59”) dalla seconda, sempre in MI maggiore, fino a 12’17”, anch’essa ripetuta: il trio chiude quindi a 12’34”. Qui riprende il Menuetto, dove Hogwood (contrariamente alla prassi moderna) esegue le ripetizioni di entrambe le sezioni. Menuetto che chiude quindi a 14’42”

Passiamo ora (14’49”) al mirabile Adagio, 2/4 in MI maggiore, strutturato su due sezioni (entrambe da ripetersi). La prima inizia con un dolcissimo tema esposto dai violini con sordina, seguito (15’13”) da una sua variante tutta puntata, chiusa (15’34”) da un crescendo che porta la tonalità (15’46”) alla dominante SI maggiore, con il ritmo dettato da continue terzine, che chiudono questa sezione (16’45”) poi ripetuta fino a 18’38”

Ecco poi la seconda parte, che rimane inizialmente in SI maggiore per poi tornare perentoriamente (19’26”, intervento del corno) al MI maggiore, con il persistere delle terzine che portano (protagonista ancora il corno) alla chiusura della sezione (20’44”) che viene ripetuta fino a 22’53”

Il Finale (Presto, 4/4 alla breve, MI minore) è suddiviso in due sezioni e si apre (22’58”) con il tema principale, tutto in staccato e con ritmo concitato. Il tema viene ripreso subito (23’04”) un’ottava sopra, fino a raggiungere (23’12”) in forte la relativa SOL maggiore. A 23’50” il suono si dirada assai per il ritorno a MI minore, che conduce alla chiusa (23’56”) della prima sezione, che viene ripetuta (fino a 24’52”). 

La seconda sezione sviluppa il tema principale, in MI minore, con escursioni a SOL e MI maggiore (si fa notare il corno). Dopo una teatrale cadenza (26’03”) si arriva rapidamente alla conclusione (26’19”). Anche la seconda sezione prevede il da-capo
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laVerdi non eseguiva questa sinfonia da più di 11 anni. Flor è più ricco di Haydn e così, anche per meglio riempire lo spazio sonoro dell'Auditorium che dev'essere ben più vasto di quello delle sale di Esterháza, rimpolpa assai gli archi, disposti alla tedesca, con i violini secondi al proscenio.

Approccio del Direttore assai rispettoso della lettera della partitura (rigorosamente rispettati ed eseguiti tutti i da-capo!) e piuttosto lezioso, con qualche gigioneria corporea (mossette, ammiccamenti vari) esibita proprio nell’Adagio che il vecchio Haydn desiderava suonato al suo funerale! Ma va bene così, e il pubblico non ha lesinato applausi convinti.
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Ed eccoci allo Stabat, che è alla sua settima comparsa in stagioni de laVerdi (l’ultima meno di tre anni fa sempre con Flor sul podio in un Audiorium meno affollato). Invece al ROF è stato eseguito in ben 13 edizioni, a partire dal 1981, l’ultima nel 2017 (qui da me commentata) quando cantò Salome Jicia, originariamente scritturata per questo concerto, ma poi rimpiazzata da Aleksandra Sennikova.

Flor non ha cambiato una virgola rispetto alla precedente esecuzione per ciò che riguarda la disposizione degli strumenti e delle voci, con trombe e tromboni all’estrema destra, legni all’estrema sinistra e solisti a sinistra del podio.

Mentre il coro della Gambarini ha sciorinato le sue ottime qualità, i 4 solisti non hanno particolarmente brillato. Discreti il basso Roberto Lorenzi (cui manca però un pizzico in più di profondità) e il mezzo Valeria Girardello, buona intonazione e voce abbastanza corposa. Shanul Sharma ha una voce proprio piccola, anche se bene impostata; non ha però avuto difficoltà sul REb acuto del Cujus animam. La Sennikova, oltre alla vocina pigolante, mostra la corda negli acuti, dove il timbro diviene francamente sgradevole.

Ma a dispetto di ciò il successo è stato grande per tutti e il pubblico se n’è uscito in questa notte ancora tiepida con il sorriso sulle labbra.

23 agosto, 2017

ROF-XXXVIII live. Stabat Mater


È ormai tradizione per il ROF chiudere i battenti con un concerto – diffuso su schermo gigante in Piazza del Popolo - in cui si eseguono musiche non-operistiche del maestro oppure si propongono opere in forma di concerto (capitò in anni recenti con Zedda che presentò Barbiere, Tancredi e Donna). Le due composizioni del primo tipo che si spartiscono la torta sono solitamente la Petite Messe Solennelle (che infatti chiuderà il prossimo Festival, nella versione strumentata) e lo Stabat Mater, che ieri sera è tornato sulla scena dopo le due ultime apparizioni guidate da Michele Mariotti (2010 e 2015) con i suoi bolognesi.

Quest’anno è toccato alla OSN-RAI, al Coro Ventidio Basso e a Daniele Rustioni il privilegio di abbassare il sipario del Festival, coadiuvati da quattro voci che il pubblico pesarese conosce ormai benissimo: Salome Jicia e Dmitri Korchak che sono ormai di casa qui (Korchak già cantò lo Stabat nel 2006), Erwin Schrott (che esordì lo scorso anno nel Turco) e la rediviva dal secolo scorso Enkelejda Shkoza (fu Ernestina nientemeno che nel 1996, Marie nel ’97, Emilia nel ‘98 e Melibea nel ‘99).  
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La gestazione dello Stabat durò 9 mesi anni, quanti ne passarono fra una prima stesura frettolosa (1832, a fronte dell’impegno che Rossini aveva preso con Manuel Fernandéz Varela, un agiato prelato - tipo cardinal Bertone, per intenderci - di Madrid) e quella definitiva. Fretta che obbligò Rossini ad... appaltare per buona parte a terzi (nella fattispecie l’amico di studi Giovanni Tadolini da Bologna) la composizione della versione iniziale dell’opera, prima di stenderne (tutta di suo pugno) quella definitiva del 1841.

Una relazione assai dettagliata e documentata di quegli anni della vita di Rossini che videro la composizione dello Stabat si può leggere sul programma di sala del ROF, ed è a firma di Reto Müller (membro del Comitato Scientifico della Fondazione Rossini) il quale, oltre a fare chiarezza su molti approssimativi luoghi comuni riguardo all’opera, presenta anche una tabella comparativa delle due versioni, che mi sono permesso di sintetizzare qui sotto. L’originale rossiniano prevede una distribuzione del quartetto dei solisti abbastanza insolita: due soprani, tenore e basso; stante però la tessitura non impervia del secondo soprano (tocca al massimo il SOL#) è diventata ormai consuetudine affidare la relativa parte ad un contralto/mezzosoprano (cosa che è puntualmente avvenuta anche ieri sera) ristabilendo quindi il tradizionale quartetto SATB:


Come si può notare, Rossini compose originariamente l’introduzione e tutta la seconda parte dello Stabat (dalla strofa 11, parte che rimarrà inalterata) appaltando a Tadolini la prima parte; poi però – ritornatigli tempo e voglia - cassò tutti i numeri composti dall’amico per sostituirli, ristrutturandoli profondamente, con farina del suo sacco.

L’ultima strofa di Jacopone (Quando corpus morietur) è originariamente affidata al solo quartetto solistico (a cappella). Qui a Pesaro tuttavia è ormai invalsa l’usanza – confermata ieri sera - di affidarla al Coro, scelta arbitraria anche se non certo riprovevole, ma che non dà modo ai quattro solisti di sciorinare le loro qualità (e di accommiatarsi prima del finale) in questo brano assai impegnativo e di alta drammaticità. È un po’ come far suonare un quartetto ad un’intera orchestra d’archi... privata delle prime parti: è vero che alcuni famosi quartetti sono stati strumentati per ampio organico, ma si tratta di esercizi di studio. Personalmente trovo assai preferibile la soluzione originaria di Rossini.

In ogni modo l’esecuzione complessiva è stata di livello più che dignitoso: punte di diamante, fra i solisti, le due voci maschili, un Korchak impeccabile (per il quale alcuni spettatori hanno abbozzato un applauso a scena aperta – tanto meritato quanto inopportuno - dopo il Cuius animam, chiuso da uno squillante e stentoreo REb acuto) e poi il papà del primogenito della Netrebko, che ha sciorinato la sua voce scura e potente, in particolare nel Pro peccatis. Le due voci femminili (per me) un filino al di sotto: la Jicia deve meglio saper controllare le sue esuberanti doti naturali, che la portano a forzare gli acuti, che tendono a uscire stimbrati; la rediviva Shkoza ha esibito voce potente e scura, ma (mi) è parsa non perfettamente fluida, soprattutto nella sua cavatina.

Bene ancora il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, distintosi nelle parti più religiosamente sommesse (come l’attacco del citato Quando corpus) sia in quelle (vedi il Finale) dove l’impegno anche fisico diventa proibitivo.

Sui suoi notevoli standard la OSN-RAI, dalla quale Daniele Rustioni ha saputo cavare sonorità vuoi delicate e struggenti, vuoi poderose e spettacolari.

Alla fine trionfo per tutti, con ripetute chiamate, in un Teatro Rossini (con pochissime poltrone vuote) che ha così salutato in bellezza la chiusura di questo ROF-38.
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La serata era però stata aperta dall’esecuzione del Preludio Religioso dalla Petite Messe Solennelle, orchestrato anni fa dal compianto Alberto Zedda, esecuzione preceduta da un indirizzo del Sovrintendente Mariotti che ha ricordato con evidente commozione la figura del Maestro che tanto ha dato per il ROF, e ha anche spiegato i razionali che portarono Zedda a decidere di orchestrare quel brano che Rossini aveva affidato al solo organo. È stato insieme un omaggio all’indimenticabile Direttore Artistico e un arrivederci al 2018, quando proprio la Piccola messa tornerà per porre il sigillo all’edizione numero 39 del Festival.

21 maggio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°18


Questa settimana riserva una novità assoluta per i complessi vocali e strumentali de laVERDI: il monumentale Stabat Mater di Antonin Dvořák, diretto da Claus Peter Flor, che dopo la parentesi malese ritornerà spesso sul podio dell’Auditorium, da lui lungamente calcato in passato. 

È uno Dvořák cui il destino ha riservato prove tremende (la perdita dei figli) proprio nel periodo che dovrebbe essere quello della pienezza della vita (aveva 36 anni, lo Stabat si colloca fra la sua quinta e sesta sinfonia). E il compositore risponde a questi colpi con un’opera colma di dolorosa, accorata ma anche serena rassegnazione alla volontà divina. In tutto lo Stabat troviamo soltanto un gesto di (comprensibile) sconforto: quell’esplosione del RE in settima diminuita che si ode a battuta 43 dell’introduzione in SI minore (dopo l’iniziale immobilità del FA# e il crescendo ondeggiante e bruckneriano che la segue) e che verrà successivamente ripresa e reiterata dal coro, drammaticamente sul lacrimosa. Poi ci sarà solo spazio per la pietas e per un dolore accettato con grande nobiltà, fino alla mirabile conclusione, dove (nel decimo e ultimo numero della partitura) Dvořák riprenderà ciclicamente il tema dell’introduzione, ma ora il coro al termine di quel crescendo esploderà, sulle parole paradisi gloriainvece che nella straziante settima diminuita, in un giubilante accordo plagale, subito risolto sul luminoso RE maggiore che poi supporterà l’Amen, speranza ed attesa della resurrezione.  

1. Quartetto e Coro – Andante con moto, SI minore, 3/2 – Stabat Mater...
2. Quartetto - Andante sostenuto, MI minore, 3/4 – Quis est homo...
3. Coro - Andante con moto, DO minore, 4/4 – Eja, Mater, fons amoris...
4. Basso solo e Coro - Largo, SIb minore, 4/8 – Fac, ut ardeat cor meum...
5. Coro - Andante con moto, quasi allegretto, MIb maggiore, 6/8 –Tui nati vulnerati...
6. Tenore solo e Coro - Andante con moto, SI maggiore, 4/4 – Fac me vere tecum flere...
7. Coro - Largo, LA maggiore, 2/4 – Virgo virginum praeclara...
8. Duo (soprano-tenore) - Larghetto, RE maggiore, 4/8 - Fac, ut portem Christi mortem...
9. Alto solo – Andante mestoso, RE minore, 4/4 – Inflammatus et accensus...
10. Quartetto e Coro – Andante con moto, SI minore, 3/2 – Quando corpus morietur...
                                  - Allegro molto, RE maggiore, 3/2 – Amen.

È un’opera grandiosa quanto difficile da suonare/cantare (ma anche da ascoltare!) e in Italia mi risulta che solo la Scala, la SantaCecilia e la OSN RAI ci si siano cimentate negli ultimi 20 anni: perciò tanto più meritevoli sono i complessi de laVERDI e i quattro solisti (Sabina von Walther, Bettina Ranch, Martin Šrejma e Istvan Kovacs) diretti da Flor e Gambarini per avercene dato un’interpretazione ed un’esecuzione a dir poco straordinarie.  

19 febbraio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°7


A 10 anni dalla scomparsa, Romano Gandolfi, indimenticabile fondatore del Coro de laVERDI (dopo aver fatto grande quello della Scala) viene degnamente ricordato con un concerto di cui è protagonista la compagine oggi guidata da Erina Gambarini. Sul podio di largo Mahler un altro veterano dell’orchestra, Claus Peter Flor.

Il concerto è introdotto dalla Sinfonia funebre di Giovanni Paisiello. Composizione del 1797, commemorativa della figura del generale Louis-Lazaire Hoche. Paisiello pare avesse simpatie napoleoniche (in buona compagnia... leggi Beethoven) e in effetti era stato nominato Direttore della musica nazionale ai tempi dell’estemporanea Repubblica napoletana. Ciò forse spiega perchè la scelta dei francesi di quella musica d’occasione privilegiò lui e non altri.

Ma Paisiello doveva essere davvero un gran paraculo, se solo due anni dopo (1799) – scampato alle simpatiche ritorsioni del redivivo Ferdinando - non ebbe il minimo pudore ad impiegare quella stessa musica, composta per la morte di un mangia-papi, per onorare quella di un... Papa, Pio VI, morto per di più nella prigione napoleonica di Valence (della serie: sotto terra tutti i cadaveri sono uguali, perbacco !!!) E così il brano divenne la Sinfonia della Missa Defunctorum.

Flor l’affronta calcando la mano e trattenendo i tempi: parrebbe la funèbre di Berlioz... però tutto sommato, essendo stata composta per Parigi, va bene anche così!
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Ecco poi il pezzo forte della serata: il rossiniano Stabat Mater, dove si cimentano anche i solisti Veronica Cangemi (che ha rimpiazzato la titolare Maria Grazia Schiavo), Marta Beretta, Davide Giusti e Mirco Palazzi.

Intanto Flor ha disposto l’orchestra in modo (apparentemente) bizzarro: configurazione di base tedesca (violini secondi al proscenio, a destra, violoncelli al centro) ma con alcune varianti non da poco: contrabbassi in linea frontale dietro a tutti e fiati spezzati in due: i legni all’estrema sinistra (più dei corni) e trombe e tromboni all’estrema destra (i tromboni addirittura al proscenio). A ben vedere è una disposizione che talvolta si adotta nella buca dei teatri d’opera, e quindi – nella fattispecie – non è proprio totalmente cervellotica (anche se qui la buca non c’è...) Invece, trovo personalmente più discutibile l’idea di dislocare i quattro solisti tutti a sinistra del podio: un’asimmetria francamente eccessiva.

Un’altra scelta in contrasto con la lettera della partitura riguarda il N°9 (a cappella): invece che ai quattro solisti, viene fatto eseguire all’intero coro. Scelta non certo invenzione di Flor (é assai praticata) ma sempre discutibile, anche se non priva di effetto. In questa occasione si potrebbe giustificare come un omaggio-extra per il festeggiato coro, ma spesso sappiamo essere determinata da non completa fiducia nei confronti dei solisti (evabbè, l’ho detto...)  

E a proposito dei solisti devo dire che il solo Mirco Palazzi (mi) ha pienamente convinto: per voce  (in tutta l’estensione), per portamento e per sensibilità interpretativa, che sono da elogiare senza se e senza ma. Degli altri tre mi ha abbastanza soddisfatto il giovin tenore Davide Giusti, ancora acerbo, ma dotato di gran voce da tenore drammatico: mancano l’espressività (tutto cantato forte, à la Grigolo) e la fluidità di emissione (il REb sovracuto lo ha tirato fuori proprio come non piaceva a Rossini, da gatto squartato). Le due gentil donne (un filino meglio la Marta Beretta, rispetto alla Veronica Gangemi) hanno mostrato mezzi naturali notevoli ma altrettanto chiari limiti di controllo dell’emissione.

Il coro della sciura Erina si è meritato applausi frenetici, alla memoria del suo fondatore, e i ragazzi agli strumenti non hanno certo deluso le aspettative. Quindi successo pieno, in un Auditorium non propriamente preso d’assalto.      
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Chi fosse impossibilitato ad assistere venerdi o domenica al concerto, può consolarsi con lo Stabat seguendo passo-passo questa eccellente esecuzione dei ceciliani con Pappano a Salzburg (2011) solisti Netrebko, Pizzolato, Polenzani e D’Arcangelo.

1. Introduzione – Stabat Mater. La tonalità d'impianto è SOL minore (su cui pure si concluderà l'opera) cui si arriva dopo che (2’25”) violoncelli e fagotti hanno aperto con una cupa scala ascendente che chiude (2’43”) in RE maggiore, ribadita da un’altra che sfocia (3’00”) nella tonalità d’impianto. L'introduzione, tutta in staccato e sincopi ci porta nel clima mesto, ma sempre più agitato dello Stabat, intonato prima (4’35”) dal coro (a canone: bassi, poi tenori, soprani e contralti) e poi (5’21”) dai quattro solisti, che entrano contemporaneamente, poi ancora dialogando con il coro. Dopo una drammatica esternazione – (6’27”) dominante RE, recto-tono - del coro su Dum pendebat filius, ecco una breve ma luminosa sezione centrale nella relativa SIb maggiore. Qui è il tenore (6’58”) a presentarsi in primo piano, subito accompagnato dalle due soliste e poi dal basso, nel dum pendebat, poi ripreso dal coro, che su un poderoso accordo di sesta (8’20”) porta al Filius, dove il SOL minore riprende il sopravvento, per la nuova esposizione dello Stabat da parte dei solisti. Rientra il coro (9’16”) sul Juxta crucem, scandito sul SOL ff ribattuto dell'orchestra, poi reiterato fino al ritorno della scala di RE di violoncelli e fagotti, che porta (10’26”) al dolorosa, cantato sotto voce, e poi (10’46”) al lacrimosa, per chiudere con il motivo dell'introduzione, negli archi, e (11’58”) i due perentori accordi di SOL minore.  
2. Cujus animam. Principia in LAb minore, ma tosto il maggiore si fa largo (12’54”) con ritmo marziale, zum-pà-pparà-pà/zum. Ecco, qui il pericolo è che l'orchestra suoni come una banda del pignataro che marcia per una strada di paese (come dimenticare Totò...) Pericolo che il direttore deve scongiurare rispettando l'agogica dolce prescritta da Rossini. Adesso tocca ancora al tenore (13’26”) esibirsi in questa parte famosa e difficile, dove si passa continuamente da maggiore a minore. Poi (14’25”) la sezione nella relativa FA minore (O quam tristis et afflicta) con altre modulazioni e un agitarsi del ritmo; che si acqueta poi (15’48”) per la ripresa (Quae moerebat et dolebat) nella tonalità principale che conduce (17’29”) alla coda, con quel gruppetto che fa da trampolino per l'impervia salita alla sottodominante, il REb acuto (17’42”) sull'ultimo poenas (incliti). Segue poi (18’11”) una stupefacente cadenza finale (che non può non ricordarci un certa selva opaca...)
3. Quis est homo. Altra perla orchestrale, l'incipit largo e misterioso dei corni (19’03”) in MI maggiore e degli oboi e archi, e poi l'improvviso erompere della scala ascendente (19’50”) che introduce il Qui est homo il soprano, affiancato poi (20’51”) dal mezzosoprano o contralto sul Qui non posset (Rossini in effetti prescrive, come anche per il N°7, un secondo soprano, ma la parte è di fatto sempre sostenuta dal mezzo - o contralto - data l'estensione limitata al FA# e al fatto che un contralto è comunque previsto per i due quartetti N° 6 e N° 9). È un duetto per terze assai cantabile ma allo stesso tempo virtuosistico, chiuso (23’46”) da una classica cadenza, dopo la quale (24’12”) i corni re-introducono la bellissima melodia iniziale. Ancora un intervento degli oboi e quindi la chiusura (25’00”) sulla melodrammatica scala ascendente dell’orchestra.
4. Pro peccatis. È uno dei pilastri dell'opera, e tocca al basso di… impersonarlo. Si parte (25’44”) in LA minore, per poi ripetere i versi (26’13”) modulando a maggiore. Il procedimento si ripete una seconda volta (27’14” e 27’43”) su Vidit suum dulcem natum. Il solista è grandemente impegnato nella parte finale (dum emisit spiritum) dove (29’23”) deve passare sopra il fracasso orchestrale.
5. Eia Mater. Sul RE minore di base (con fugaci modulazioni alla relativa FA maggiore) il coro dialoga ancora (30’47”) a lungo col basso, che deve toccare poi (32’33” e 33’21”) due FA acuti sul Fa cut ardeat cor meum. La chiusura (Ut sibi complaceam) è in un tranquillo FA maggiore.
6. Sancta Mater, istud agas. È di fatto un quartetto, dove tenore (34’27”) soprano (35’40”) basso e mezzosoprano entrano in sequenza. La tonalità è LAb maggiore, con escursione sul DO minore, all'ingresso (36’34”) del basso (Fac me vere) e del mezzosoprano, e poi (37’21”, Iuxta crucem) sulla dominante MIb maggiore. I quattro solisti devono poi mostrare affiatamento e precisione negli attacchi, senza mai lasciarsi prendere la mano (anzi la voce) e ricorrere ad effetti troppo melodrammatici. Una dolce cadenza orchestrale (40’50”) chiude il quartetto.
7. Fac ut portem. È indicata come cavatina, in MI maggiore, introdotta (41’28”) da un attacco, dolce, dei corni e del clarinetto, corni che tornano più volte, con il loro nobile arpeggio. È assegnata (42’18”) al soprano secondo (o al mezzo, o contralto) ed è caratterizzata da grande cantabilità e portamento. Sulla seconda strofa (Fac me plagis vulnerari) abbiamo un repentino cambio di scenario (43’10”) con modulazione brusca a DO# minore e furiosi strappi dell’orchestra. Ma si torna presto (44’06”) al MI maggiore, con i corni che portano poi alla cadenza conclusiva (45’18”) della solista (ob amore Filii).
8. Inflammatus et accensus. Grande spazio qui viene dato agli ottoni, con trombe e tromboni a scandire i pesanti accordi di DO minore e i corni a proporre tracotanti incisi discendenti. Poi il soprano (46’55”) stacca il FA forte, sul primo Inflammatus, per passare subito al sotto voce, sul secondo. Arriva il coro (47’25” In die judicii) a ribattere ostinatamente il DO, fino all'inizio (48’00”) della sezione nella relativa MIb maggiore, dove il soprano canta Fac me cruce custodiri, contrappuntato dal coro. Si torna (48’39”) al pesantissimo DO minore e poi, sul successivo Fac me, ad un inizialmente calmo (49’46”) ma subito agitantesi DO maggiore, dove la solista deve toccare due consecutivi DO acuti (confoveri gratia, 50’26” e 50’35”) prima che tutta l'orchestra chiuda con una fracassona cadenza da puro melodramma (un po' come sarà la conclusione in FA del Sanctus verdiano). 
9. Quando corpus. L'orchestra tace, solo le voci restano protagoniste di questa grande polifonia, probabilmente l'unico numero dell'opera che davvero si rifà alla tradizione della musica religiosa. In partitura è affidato ai soli quattro solisti, ma spesso viene invece eseguito dal coro (scelta discutibile ma non priva di effetto). Principia (51’00”) in SIb, per poi passare (51’17”) alla relativa SOL minore. Torna significativamente il SIb maggiore (51’52”) sulle prime due proposizioni di Paradisi gloria. É un susseguirsi di piano e forte che mette a dura prova le voci. L’ultima reiterazione a canone (54’38”) di Paradisi gloria è sulla tonalità principale di SOL minore, che fa da ponte per il numero finale.
10. In sempiterna saecula, Amen. Dopo un triplice Amen, è questa (55’44”) una colossale fuga in Allegro, davvero una superba conclusione per quest'opera che, nata quasi per caso e per far un favore ad un ammiratore ecclesiastico, è invece un autentico capolavoro. Il motto iniziale, la scala ascendente di violoncelli e fagotti, torna ancora drammaticamente (59’10”) nell'Andantino moderato, per l'Amen. Prima che arrivi (1h00’30”) la strepitosa cadenza finale.
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23 agosto, 2015

Il ROF-36: Stabat Mater + spizzichi di Tell

 

Il ROF-36 ha chiuso i battenti, in un Teatro Rossini ancora gremito, con l’ormai tradizionale concerto, diffuso anche in streaming, oltre che in Piazza del Popolo a Pesaro. Pezzo forte lo Stabat Mater, al suo ritorno dal 2010, protagonisti gli stessi complessi bolognesi di allora: orchestra, coro e… futuro direttore musicale. E proprio Michele Mariotti, prima di attaccare lo Stabat, ha voluto rievocare quella sera domenicale del 22 agosto di 5 anni fa per ricordare una persona che allora fu protagonista e che da poche settimane non è più fra noi: Paolo Vero, a quel tempo Maestro del Coro felsineo. Di quel concerto conservo anch’io un bel ricordo, immortalato in rete da questa cronaca.

Se la Messa di Gloria (1820 a Napoli) aveva entusiasmato molti ma anche fatto storcere il naso a più d’uno per l’eccessiva invadenza di temi e atmosfere teatrali in una composizione sacra, lo Stabat (1842 a Parigi) ricevette un’accoglienza trionfale e poche furono le voci di critica all’eccessiva secolarizzazione della musica sacra del genio pesarese (una di queste voci fu quella di Wagner, che più tardi però ebbe modo di ricredersi). Sul programma di sala Ilaria Narici (attuale Direttrice dell’Edizione critica della Fondazione Rossini) riassume i termini generali della problematica legata ai rapporti fra musica sacra e profana (teatrale) come si era sviluppata tra la fine del ‘700 e i primi anni dell’800, in coincidenza con il tramonto degli ideali illuministi – che avevano regolato in modo razionale tali rapporti, a partire dalla rigida separazione fra i rispettivi stili e forme - e l’insorgere prepotente del romanticismo, che quei rapporti e quelle regole metteva profondamente in discussione. Così conclude Narici: Rossini non scrive una musica sacra astratta e romanticamente idealizzata, ma fa della contaminazione degli stili la forza e l’attualità dell’opera e in questo senso, contrariamente alle interpretazioni che vedono l’opera rossiniana guidata da un’estetica conservatrice, ne sancisce l’assoluta modernità. E credo che il concetto si applichi anche a Verdi, al cui Requiem (nato in origine proprio come omaggio alla memoria del Maestro pesarese) verranno mosse critiche di eccessiva melodrammatizzazione, critiche che francamente lasciano oggi il tempo che trovano.

È opinione diffusa che lo Stabat sia una specie di evoluzione dell’estetica musicale rossiniana già manifestatasi nel Tell. E non a caso l’apertura del concerto finale del ROF-36 è stata affidata a note dell’ultima, grande opera di Rossini. Così abbiamo potuto ascoltare alcuni dei brani corali-danzati, estrapolati dall’edizione critica dell’opera, curata a suo tempo da una delle principali contributrici della Rossini-renaissance: M.Elizabeth C. Bartlet.  

Dapprima tre brani dall’atto I e precisamente:

- il N°4, Choeur dansé (Choeur de Suisses, Hyménée);
- il N°5, Pas de six;
- il N°5b, Pas de deux.

Poi, dall’atto III:
- il N°15, Pas de trois et choeur tyrolien (Petit choeur de Suisses; Choeur de Suisses et soldats, Petit choeur de Suisses, Toi que l’oiseau, Dans nos campagnes);
- il N°16, Pas de soldats, che ha chiuso in modo a dir poco travolgente la prima parte della serata, permettendo ad orchestra e coro – che il Tell hanno avuto modo di interpretare di recente qui a Pesaro, poi a Torino e Bologna - di… scaldare i muscoli.

Quindi ecco lo Stabat, che non ha tradito le aspettative: a partire da Mariotti, che ha mantenuto un sapiente equilibrio di dinamiche, evidenziando tutti i dettagli della complessa partitura (rispetto al 2010 ha cambiato il layout dell’orchestra, disponendolo alla alto-tedesca, bassi a sinistra, celli al centro e violini secondi al proscenio). Per proseguire con il coro di Andrea Faidutti, sempre compatto e preciso, cui ancora una volta è stato affidato – scelta sempre discutibile peraltro, avendo i suoi pro-e-contro rispetto all’impiego del solo quartetto solistico - il Quando corpus morietur, a cappella, esposto con grande… religiosità; coro che ha poi chiuso in bellezza con la fuga conclusiva, dove Rossini, a 20 anni di distanza dalla Messa di Gloria, ha mostrato alla grande di non aver più bisogno del supporto contrappuntistico di un Pietro Raimondi…

Bene anche i quattro solisti, fra cui si è ben distinto René Barbera, e non solo per il famoso e squillante REb sovracuto del Cuius animam. Ma anche gli altri hanno ben meritato, a partire da Nicola Ulivieri, impeccabile nel suo Pro peccatis e nel successivo Eja mater; ad Anna Goryachova, cresciuta dopo un avvio non proprio perfetto fino ad un convincente Fac ut portem; e per finire con Yolanda Auyanet, la quale oltre che per una voce ben impostata in tutti i registri (inclusi gli acuti, a giudicare dai due DO dell’Inflammatus) si è fatta notare (e come!) per l’abbigliamento consono, più che ad una cerimonia religiosa, all’incoronazione di… Poppea (stra-smile!)             

E con questa nota di colore, auguro (a me stesso, innanzitutto): arrivederci al ROF-37, se (…) vorrà.