A 10 anni
dalla scomparsa, Romano Gandolfi,
indimenticabile fondatore del Coro de laVERDI (dopo aver fatto grande quello
della Scala) viene degnamente ricordato con un concerto di cui è protagonista la compagine oggi guidata da Erina Gambarini. Sul podio di largo Mahler un altro veterano
dell’orchestra, Claus Peter Flor.
Il concerto è introdotto dalla Sinfonia funebre di Giovanni Paisiello. Composizione del
1797, commemorativa della figura del generale Louis-Lazaire Hoche.
Paisiello pare avesse simpatie napoleoniche (in buona compagnia... leggi
Beethoven) e in effetti era stato nominato Direttore
della musica nazionale ai tempi dell’estemporanea Repubblica napoletana. Ciò
forse spiega perchè la scelta dei francesi di quella musica d’occasione
privilegiò lui e non altri.
Ma Paisiello doveva essere davvero un gran paraculo,
se solo due anni dopo (1799) – scampato alle simpatiche ritorsioni del redivivo
Ferdinando - non ebbe il minimo pudore ad impiegare quella stessa musica,
composta per la morte di un mangia-papi,
per onorare quella di un... Papa, Pio
VI, morto per di più nella prigione napoleonica di Valence (della serie: sotto
terra tutti i cadaveri sono uguali, perbacco !!!) E così il brano divenne la Sinfonia della Missa Defunctorum.
Flor l’affronta calcando la mano e trattenendo i tempi: parrebbe la funèbre di Berlioz... però tutto sommato,
essendo stata composta per Parigi, va bene anche così!
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Ecco poi il
pezzo forte della serata: il rossiniano Stabat
Mater, dove si cimentano anche i solisti Veronica Cangemi (che ha rimpiazzato la titolare Maria Grazia
Schiavo), Marta Beretta, Davide Giusti e Mirco Palazzi.
Intanto Flor
ha disposto l’orchestra in modo (apparentemente) bizzarro: configurazione di
base tedesca (violini secondi al
proscenio, a destra, violoncelli al centro) ma con alcune varianti non da poco:
contrabbassi in linea frontale dietro a tutti e fiati spezzati in due: i legni
all’estrema sinistra (più dei corni) e trombe e tromboni all’estrema destra (i
tromboni addirittura al proscenio). A ben vedere è una disposizione che
talvolta si adotta nella buca dei teatri d’opera, e quindi – nella fattispecie
– non è proprio totalmente cervellotica (anche se qui la buca non c’è...)
Invece, trovo personalmente più discutibile l’idea di dislocare i quattro
solisti tutti a sinistra del podio: un’asimmetria francamente eccessiva.
Un’altra
scelta in contrasto con la lettera della partitura riguarda il N°9 (a cappella):
invece che ai quattro solisti, viene fatto eseguire all’intero coro. Scelta non
certo invenzione di Flor (é assai praticata) ma sempre discutibile, anche se non priva di effetto. In questa
occasione si potrebbe giustificare come un omaggio-extra per il festeggiato
coro, ma spesso sappiamo essere determinata da non completa fiducia nei
confronti dei solisti (evabbè, l’ho detto...)
E a
proposito dei solisti devo dire che il solo Mirco
Palazzi (mi) ha pienamente convinto: per voce (in tutta l’estensione), per portamento e per sensibilità
interpretativa, che sono da elogiare senza se e senza ma. Degli altri tre mi ha
abbastanza soddisfatto il giovin tenore Davide
Giusti, ancora acerbo, ma dotato di gran voce da tenore drammatico: mancano
l’espressività (tutto cantato forte,
à la Grigolo) e la fluidità di emissione (il REb sovracuto lo ha tirato fuori
proprio come non piaceva a Rossini, da gatto squartato). Le due gentil donne
(un filino meglio la Marta Beretta,
rispetto alla Veronica Gangemi) hanno
mostrato mezzi naturali notevoli ma altrettanto chiari limiti di controllo dell’emissione.
Il coro della sciura Erina si è meritato applausi frenetici, alla memoria del suo
fondatore, e i ragazzi agli strumenti non hanno certo deluso le aspettative. Quindi
successo pieno, in un Auditorium non propriamente preso d’assalto.
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Chi fosse
impossibilitato ad assistere venerdi o domenica al concerto, può consolarsi con
lo Stabat seguendo passo-passo questa
eccellente esecuzione
dei ceciliani con Pappano a Salzburg (2011) solisti Netrebko, Pizzolato, Polenzani e D’Arcangelo.
1. Introduzione – Stabat Mater. La tonalità d'impianto è SOL minore (su cui pure si concluderà l'opera) cui
si arriva dopo che (2’25”) violoncelli e fagotti hanno aperto con una cupa scala
ascendente che chiude (2’43”) in RE maggiore, ribadita da
un’altra che sfocia (3’00”) nella tonalità d’impianto.
L'introduzione, tutta in staccato e sincopi ci porta nel clima mesto, ma sempre
più agitato dello Stabat, intonato prima (4’35”) dal coro (a canone: bassi,
poi tenori, soprani e contralti) e poi (5’21”) dai quattro solisti, che
entrano contemporaneamente, poi ancora dialogando con il coro. Dopo una
drammatica esternazione – (6’27”) dominante RE, recto-tono - del coro su Dum pendebat
filius, ecco una breve ma luminosa sezione
centrale nella relativa SIb maggiore. Qui è il tenore (6’58”)
a presentarsi in primo piano, subito accompagnato dalle due soliste e poi dal
basso, nel dum pendebat, poi ripreso dal coro, che su un poderoso accordo di
sesta (8’20”) porta al Filius, dove il SOL minore riprende il sopravvento, per la
nuova esposizione dello Stabat da parte dei solisti. Rientra il coro (9’16”)
sul Juxta crucem, scandito sul SOL ff ribattuto
dell'orchestra, poi reiterato fino al ritorno della scala di RE di violoncelli
e fagotti, che porta (10’26”) al dolorosa,
cantato sotto voce, e poi (10’46”) al lacrimosa,
per chiudere con il motivo dell'introduzione, negli archi, e (11’58”)
i due perentori accordi di SOL minore.
2. Cujus animam. Principia
in LAb minore, ma tosto il maggiore si fa largo (12’54”) con ritmo
marziale, zum-pà-pparà-pà/zum. Ecco, qui il pericolo è che
l'orchestra suoni come una banda del pignataro che marcia per
una strada di paese (come dimenticare Totò...) Pericolo che il direttore deve scongiurare
rispettando l'agogica dolce prescritta da Rossini. Adesso
tocca ancora al tenore (13’26”) esibirsi in questa parte famosa e difficile,
dove si passa continuamente da maggiore a minore. Poi (14’25”) la sezione nella
relativa FA minore (O quam tristis et afflicta) con altre modulazioni e un agitarsi del ritmo; che
si acqueta poi (15’48”) per la ripresa (Quae moerebat et dolebat) nella tonalità principale che conduce (17’29”)
alla coda, con quel gruppetto che fa da trampolino per l'impervia
salita alla sottodominante, il REb acuto (17’42”) sull'ultimo poenas (incliti). Segue poi (18’11”) una stupefacente cadenza finale (che non può non
ricordarci un certa selva opaca...)
3. Quis est homo. Altra
perla orchestrale, l'incipit largo e misterioso dei corni (19’03”)
in MI maggiore e degli oboi e archi, e poi l'improvviso erompere della scala
ascendente (19’50”) che introduce il Qui est homo il soprano, affiancato poi (20’51”)
dal mezzosoprano o contralto sul Qui
non posset (Rossini in effetti prescrive, come
anche per il N°7, un secondo soprano, ma la parte è di fatto sempre sostenuta
dal mezzo - o contralto - data l'estensione limitata al FA# e al fatto che un
contralto è comunque previsto per i due quartetti N° 6 e N° 9). È un duetto per terze assai cantabile ma allo stesso
tempo virtuosistico, chiuso (23’46”) da una classica cadenza, dopo
la quale (24’12”) i corni re-introducono la bellissima melodia iniziale. Ancora
un intervento degli oboi e quindi la chiusura (25’00”) sulla
melodrammatica scala ascendente dell’orchestra.
4. Pro peccatis. È
uno dei pilastri dell'opera, e tocca al basso di… impersonarlo. Si parte (25’44”)
in LA minore, per poi ripetere i versi (26’13”) modulando a maggiore. Il
procedimento si ripete una seconda volta (27’14” e 27’43”) su Vidit suum
dulcem natum. Il solista è grandemente impegnato nella
parte finale (dum emisit spiritum) dove (29’23”) deve passare sopra il fracasso
orchestrale.
5. Eia Mater. Sul RE minore di
base (con fugaci modulazioni alla relativa FA maggiore) il coro dialoga ancora (30’47”)
a lungo col basso, che deve toccare poi (32’33” e 33’21”) due FA acuti sul Fa cut ardeat cor meum. La chiusura (Ut sibi complaceam) è in un tranquillo FA maggiore.
6. Sancta Mater, istud agas. È di fatto un quartetto, dove tenore (34’27”) soprano (35’40”)
basso e mezzosoprano entrano in sequenza. La tonalità è LAb maggiore, con
escursione sul DO minore, all'ingresso (36’34”) del basso (Fac me vere) e
del mezzosoprano, e poi (37’21”, Iuxta crucem) sulla dominante MIb maggiore. I quattro solisti devono
poi mostrare affiatamento e precisione negli attacchi, senza mai lasciarsi
prendere la mano (anzi la voce) e ricorrere ad effetti troppo melodrammatici. Una
dolce cadenza orchestrale (40’50”) chiude il quartetto.
7. Fac ut portem. È
indicata come cavatina, in MI maggiore, introdotta (41’28”)
da un attacco, dolce, dei corni e del clarinetto, corni che
tornano più volte, con il loro nobile arpeggio. È assegnata (42’18”)
al soprano secondo (o al mezzo, o contralto) ed è caratterizzata da grande
cantabilità e portamento. Sulla seconda strofa (Fac me plagis vulnerari) abbiamo un repentino cambio di scenario (43’10”)
con modulazione brusca a DO# minore e furiosi strappi dell’orchestra. Ma si
torna presto (44’06”) al MI maggiore, con i corni che portano poi alla cadenza
conclusiva (45’18”) della solista (ob amore Filii).
8. Inflammatus et accensus. Grande
spazio qui viene dato agli ottoni, con trombe e tromboni a scandire i pesanti
accordi di DO minore e i corni a proporre tracotanti incisi
discendenti. Poi il soprano (46’55”) stacca il FA forte,
sul primo Inflammatus, per passare subito al sotto voce, sul
secondo. Arriva il coro (47’25” In die judicii) a
ribattere ostinatamente il DO, fino all'inizio (48’00”) della sezione
nella relativa MIb maggiore, dove il soprano canta Fac me cruce custodiri, contrappuntato dal coro. Si torna (48’39”)
al pesantissimo DO minore e poi, sul successivo Fac me, ad
un inizialmente calmo (49’46”) ma subito agitantesi DO
maggiore, dove la solista deve toccare due consecutivi DO acuti (confoveri gratia, 50’26” e 50’35”) prima che tutta
l'orchestra chiuda con una fracassona cadenza da puro melodramma (un po' come
sarà la conclusione in FA del Sanctus verdiano).
9. Quando corpus. L'orchestra
tace, solo le voci restano protagoniste di questa grande polifonia,
probabilmente l'unico numero dell'opera che davvero si rifà alla tradizione
della musica religiosa. In partitura è affidato ai soli quattro solisti, ma
spesso viene invece eseguito dal coro (scelta discutibile ma non priva di
effetto). Principia (51’00”) in SIb, per poi passare (51’17”)
alla relativa SOL minore. Torna significativamente il SIb maggiore (51’52”)
sulle prime due proposizioni di Paradisi gloria. É un
susseguirsi di piano e forte che mette a dura prova le voci. L’ultima
reiterazione a canone (54’38”) di Paradisi
gloria è sulla tonalità principale di SOL
minore, che fa da ponte per il numero finale.
10. In sempiterna saecula, Amen. Dopo
un triplice Amen, è questa (55’44”)
una colossale fuga in Allegro, davvero una superba conclusione per quest'opera
che, nata quasi per caso e per far un favore ad un ammiratore ecclesiastico, è
invece un autentico capolavoro. Il motto iniziale, la scala ascendente di
violoncelli e fagotti, torna ancora drammaticamente (59’10”) nell'Andantino
moderato, per l'Amen. Prima che arrivi (1h00’30”) la strepitosa
cadenza finale.
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