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19 febbraio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°7


A 10 anni dalla scomparsa, Romano Gandolfi, indimenticabile fondatore del Coro de laVERDI (dopo aver fatto grande quello della Scala) viene degnamente ricordato con un concerto di cui è protagonista la compagine oggi guidata da Erina Gambarini. Sul podio di largo Mahler un altro veterano dell’orchestra, Claus Peter Flor.

Il concerto è introdotto dalla Sinfonia funebre di Giovanni Paisiello. Composizione del 1797, commemorativa della figura del generale Louis-Lazaire Hoche. Paisiello pare avesse simpatie napoleoniche (in buona compagnia... leggi Beethoven) e in effetti era stato nominato Direttore della musica nazionale ai tempi dell’estemporanea Repubblica napoletana. Ciò forse spiega perchè la scelta dei francesi di quella musica d’occasione privilegiò lui e non altri.

Ma Paisiello doveva essere davvero un gran paraculo, se solo due anni dopo (1799) – scampato alle simpatiche ritorsioni del redivivo Ferdinando - non ebbe il minimo pudore ad impiegare quella stessa musica, composta per la morte di un mangia-papi, per onorare quella di un... Papa, Pio VI, morto per di più nella prigione napoleonica di Valence (della serie: sotto terra tutti i cadaveri sono uguali, perbacco !!!) E così il brano divenne la Sinfonia della Missa Defunctorum.

Flor l’affronta calcando la mano e trattenendo i tempi: parrebbe la funèbre di Berlioz... però tutto sommato, essendo stata composta per Parigi, va bene anche così!
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Ecco poi il pezzo forte della serata: il rossiniano Stabat Mater, dove si cimentano anche i solisti Veronica Cangemi (che ha rimpiazzato la titolare Maria Grazia Schiavo), Marta Beretta, Davide Giusti e Mirco Palazzi.

Intanto Flor ha disposto l’orchestra in modo (apparentemente) bizzarro: configurazione di base tedesca (violini secondi al proscenio, a destra, violoncelli al centro) ma con alcune varianti non da poco: contrabbassi in linea frontale dietro a tutti e fiati spezzati in due: i legni all’estrema sinistra (più dei corni) e trombe e tromboni all’estrema destra (i tromboni addirittura al proscenio). A ben vedere è una disposizione che talvolta si adotta nella buca dei teatri d’opera, e quindi – nella fattispecie – non è proprio totalmente cervellotica (anche se qui la buca non c’è...) Invece, trovo personalmente più discutibile l’idea di dislocare i quattro solisti tutti a sinistra del podio: un’asimmetria francamente eccessiva.

Un’altra scelta in contrasto con la lettera della partitura riguarda il N°9 (a cappella): invece che ai quattro solisti, viene fatto eseguire all’intero coro. Scelta non certo invenzione di Flor (é assai praticata) ma sempre discutibile, anche se non priva di effetto. In questa occasione si potrebbe giustificare come un omaggio-extra per il festeggiato coro, ma spesso sappiamo essere determinata da non completa fiducia nei confronti dei solisti (evabbè, l’ho detto...)  

E a proposito dei solisti devo dire che il solo Mirco Palazzi (mi) ha pienamente convinto: per voce  (in tutta l’estensione), per portamento e per sensibilità interpretativa, che sono da elogiare senza se e senza ma. Degli altri tre mi ha abbastanza soddisfatto il giovin tenore Davide Giusti, ancora acerbo, ma dotato di gran voce da tenore drammatico: mancano l’espressività (tutto cantato forte, à la Grigolo) e la fluidità di emissione (il REb sovracuto lo ha tirato fuori proprio come non piaceva a Rossini, da gatto squartato). Le due gentil donne (un filino meglio la Marta Beretta, rispetto alla Veronica Gangemi) hanno mostrato mezzi naturali notevoli ma altrettanto chiari limiti di controllo dell’emissione.

Il coro della sciura Erina si è meritato applausi frenetici, alla memoria del suo fondatore, e i ragazzi agli strumenti non hanno certo deluso le aspettative. Quindi successo pieno, in un Auditorium non propriamente preso d’assalto.      
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Chi fosse impossibilitato ad assistere venerdi o domenica al concerto, può consolarsi con lo Stabat seguendo passo-passo questa eccellente esecuzione dei ceciliani con Pappano a Salzburg (2011) solisti Netrebko, Pizzolato, Polenzani e D’Arcangelo.

1. Introduzione – Stabat Mater. La tonalità d'impianto è SOL minore (su cui pure si concluderà l'opera) cui si arriva dopo che (2’25”) violoncelli e fagotti hanno aperto con una cupa scala ascendente che chiude (2’43”) in RE maggiore, ribadita da un’altra che sfocia (3’00”) nella tonalità d’impianto. L'introduzione, tutta in staccato e sincopi ci porta nel clima mesto, ma sempre più agitato dello Stabat, intonato prima (4’35”) dal coro (a canone: bassi, poi tenori, soprani e contralti) e poi (5’21”) dai quattro solisti, che entrano contemporaneamente, poi ancora dialogando con il coro. Dopo una drammatica esternazione – (6’27”) dominante RE, recto-tono - del coro su Dum pendebat filius, ecco una breve ma luminosa sezione centrale nella relativa SIb maggiore. Qui è il tenore (6’58”) a presentarsi in primo piano, subito accompagnato dalle due soliste e poi dal basso, nel dum pendebat, poi ripreso dal coro, che su un poderoso accordo di sesta (8’20”) porta al Filius, dove il SOL minore riprende il sopravvento, per la nuova esposizione dello Stabat da parte dei solisti. Rientra il coro (9’16”) sul Juxta crucem, scandito sul SOL ff ribattuto dell'orchestra, poi reiterato fino al ritorno della scala di RE di violoncelli e fagotti, che porta (10’26”) al dolorosa, cantato sotto voce, e poi (10’46”) al lacrimosa, per chiudere con il motivo dell'introduzione, negli archi, e (11’58”) i due perentori accordi di SOL minore.  
2. Cujus animam. Principia in LAb minore, ma tosto il maggiore si fa largo (12’54”) con ritmo marziale, zum-pà-pparà-pà/zum. Ecco, qui il pericolo è che l'orchestra suoni come una banda del pignataro che marcia per una strada di paese (come dimenticare Totò...) Pericolo che il direttore deve scongiurare rispettando l'agogica dolce prescritta da Rossini. Adesso tocca ancora al tenore (13’26”) esibirsi in questa parte famosa e difficile, dove si passa continuamente da maggiore a minore. Poi (14’25”) la sezione nella relativa FA minore (O quam tristis et afflicta) con altre modulazioni e un agitarsi del ritmo; che si acqueta poi (15’48”) per la ripresa (Quae moerebat et dolebat) nella tonalità principale che conduce (17’29”) alla coda, con quel gruppetto che fa da trampolino per l'impervia salita alla sottodominante, il REb acuto (17’42”) sull'ultimo poenas (incliti). Segue poi (18’11”) una stupefacente cadenza finale (che non può non ricordarci un certa selva opaca...)
3. Quis est homo. Altra perla orchestrale, l'incipit largo e misterioso dei corni (19’03”) in MI maggiore e degli oboi e archi, e poi l'improvviso erompere della scala ascendente (19’50”) che introduce il Qui est homo il soprano, affiancato poi (20’51”) dal mezzosoprano o contralto sul Qui non posset (Rossini in effetti prescrive, come anche per il N°7, un secondo soprano, ma la parte è di fatto sempre sostenuta dal mezzo - o contralto - data l'estensione limitata al FA# e al fatto che un contralto è comunque previsto per i due quartetti N° 6 e N° 9). È un duetto per terze assai cantabile ma allo stesso tempo virtuosistico, chiuso (23’46”) da una classica cadenza, dopo la quale (24’12”) i corni re-introducono la bellissima melodia iniziale. Ancora un intervento degli oboi e quindi la chiusura (25’00”) sulla melodrammatica scala ascendente dell’orchestra.
4. Pro peccatis. È uno dei pilastri dell'opera, e tocca al basso di… impersonarlo. Si parte (25’44”) in LA minore, per poi ripetere i versi (26’13”) modulando a maggiore. Il procedimento si ripete una seconda volta (27’14” e 27’43”) su Vidit suum dulcem natum. Il solista è grandemente impegnato nella parte finale (dum emisit spiritum) dove (29’23”) deve passare sopra il fracasso orchestrale.
5. Eia Mater. Sul RE minore di base (con fugaci modulazioni alla relativa FA maggiore) il coro dialoga ancora (30’47”) a lungo col basso, che deve toccare poi (32’33” e 33’21”) due FA acuti sul Fa cut ardeat cor meum. La chiusura (Ut sibi complaceam) è in un tranquillo FA maggiore.
6. Sancta Mater, istud agas. È di fatto un quartetto, dove tenore (34’27”) soprano (35’40”) basso e mezzosoprano entrano in sequenza. La tonalità è LAb maggiore, con escursione sul DO minore, all'ingresso (36’34”) del basso (Fac me vere) e del mezzosoprano, e poi (37’21”, Iuxta crucem) sulla dominante MIb maggiore. I quattro solisti devono poi mostrare affiatamento e precisione negli attacchi, senza mai lasciarsi prendere la mano (anzi la voce) e ricorrere ad effetti troppo melodrammatici. Una dolce cadenza orchestrale (40’50”) chiude il quartetto.
7. Fac ut portem. È indicata come cavatina, in MI maggiore, introdotta (41’28”) da un attacco, dolce, dei corni e del clarinetto, corni che tornano più volte, con il loro nobile arpeggio. È assegnata (42’18”) al soprano secondo (o al mezzo, o contralto) ed è caratterizzata da grande cantabilità e portamento. Sulla seconda strofa (Fac me plagis vulnerari) abbiamo un repentino cambio di scenario (43’10”) con modulazione brusca a DO# minore e furiosi strappi dell’orchestra. Ma si torna presto (44’06”) al MI maggiore, con i corni che portano poi alla cadenza conclusiva (45’18”) della solista (ob amore Filii).
8. Inflammatus et accensus. Grande spazio qui viene dato agli ottoni, con trombe e tromboni a scandire i pesanti accordi di DO minore e i corni a proporre tracotanti incisi discendenti. Poi il soprano (46’55”) stacca il FA forte, sul primo Inflammatus, per passare subito al sotto voce, sul secondo. Arriva il coro (47’25” In die judicii) a ribattere ostinatamente il DO, fino all'inizio (48’00”) della sezione nella relativa MIb maggiore, dove il soprano canta Fac me cruce custodiri, contrappuntato dal coro. Si torna (48’39”) al pesantissimo DO minore e poi, sul successivo Fac me, ad un inizialmente calmo (49’46”) ma subito agitantesi DO maggiore, dove la solista deve toccare due consecutivi DO acuti (confoveri gratia, 50’26” e 50’35”) prima che tutta l'orchestra chiuda con una fracassona cadenza da puro melodramma (un po' come sarà la conclusione in FA del Sanctus verdiano). 
9. Quando corpus. L'orchestra tace, solo le voci restano protagoniste di questa grande polifonia, probabilmente l'unico numero dell'opera che davvero si rifà alla tradizione della musica religiosa. In partitura è affidato ai soli quattro solisti, ma spesso viene invece eseguito dal coro (scelta discutibile ma non priva di effetto). Principia (51’00”) in SIb, per poi passare (51’17”) alla relativa SOL minore. Torna significativamente il SIb maggiore (51’52”) sulle prime due proposizioni di Paradisi gloria. É un susseguirsi di piano e forte che mette a dura prova le voci. L’ultima reiterazione a canone (54’38”) di Paradisi gloria è sulla tonalità principale di SOL minore, che fa da ponte per il numero finale.
10. In sempiterna saecula, Amen. Dopo un triplice Amen, è questa (55’44”) una colossale fuga in Allegro, davvero una superba conclusione per quest'opera che, nata quasi per caso e per far un favore ad un ammiratore ecclesiastico, è invece un autentico capolavoro. Il motto iniziale, la scala ascendente di violoncelli e fagotti, torna ancora drammaticamente (59’10”) nell'Andantino moderato, per l'Amen. Prima che arrivi (1h00’30”) la strepitosa cadenza finale.
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