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03 febbraio, 2016

Haitink alla Scala: ich will euch wieder sehen...

 

Fra gli eventi concertistici del 15-16 alla Scala spicca la presenza di tre mostri sacri della direzione: dopo aver ammirato ed applaudito l’88enne Herbert Blomstedt in novembre, ed in attesa di ritrovare (22 febbraio) il quasi 92enne Georges Prêtre, in questi giorni ci si può godere il venerabile Bernard Haitink (87 primavere fra un mesetto, e ben portate se è vero che il vegliardo si è ben guardato dall’usare la sedia che gli era stata sistemata sul podio...) che ci dà la sua lettura di uno dei più preziosi monumenti della musica di tutti i tempi: Ein deutsches Requiem. Opera con la quale il Maestro fiammingo si è ovviamente cimentato in più occasioni, una delle quali è questa con i Wiener.


Ma con il Requiem si sono ovviamente cimentati tutti i Direttori, ed ognuno ne ha dato la sua personale interpretazione. A puro titolo di curiosità (e considerando solo 10 delle più di 20 edizioni integrali rintracciabili solo su youtube) ho messo a confronto i tempi di esecuzione di diversi interpreti, elencandoli in ordine di durata complessiva netta crescente (per semplicità ho indicato soltanto i minuti, arrotondando per eccesso o difetto): 


interprete
tot
I
II
III
IV
V
VI
VII
59
9
12
8
4
6
10
10
63
9
13
10
5
7
10
9
69
10
14
9
5
7
12
12
72
10
15
10
6
7
12
12
73
11
16
10
5
8
11
12
75
11
15
11
6
8
12
12
75
12
16
10
5
9
11
12
77
12
16
11
7
7
11
13
80
13
16
11
6
9
12
13
86
14
16
12
6
9
14
15

Come si può notare, la durata delle esecuzioni si dispone ai lati opposti della media ponderata (73 minuti, Gergiev). Ai due estremi si trovano il rapido Masur, che non arriva all’ora (19% sotto la media), e il sostenutissimo Celibidache, che la tira in lungo per quasi un’ora e mezza (+18% sopra la media!) Walter e Gatti sono fra i veloci, Sinopoli e Furtwängler fra i lenti.

Va da sè che queste considerazioni sulla durata lasciano sempre il tempo che trovano, dato che ciascun interprete ha il diritto-dovere di... interpretare per l’appunto la volontà espressa dal compositore con simboli e note sulla partitura (però interpretare non significa... inventare). Nel caso specifico manca anche ogni indicazione di metronomo (che Brahms ha sempre omesso nei lavori sinfonici, suggerendolo per lo più nei concerti solistici) e a maggior ragione perciò si possono dare differenze così profonde nell’approccio dei vari Direttori all’agogica dell’opera.

Per fare un esempio estremo, evidentemente l’indicazione Ziemlich langsam und mit Ausdruck (Piuttosto adagio e con espressione) che Brahms ha vergato in testa al numero di apertura (Selig sind, 158 battute in 4/4 senza alcun cambio di tempo) è stata interpretata in modo diametralmente opposto da Masur (8’55”, equivalenti ad un metronomo di 71 semiminime, quasi più spedito di un Andante) e da Celibidache (13’35”, equivalenti ad un metronomo di 47 semiminime, un Adagio molto, il che rende il brano – per me – addirittura insostenibile!) La conclusione che si può trarre è che ci troviamo di fronte a quelli che in politica si chiamerebbero opposti estremismi, due quasi antipodiche visioni del mondo: la prima che guarda alla vita e alla morte quasi con baldanza, con accenti eroici; l’altra che si adagia in una mistica contemplazione e anticipazione dell’eternità. Potremmo dire che la prima presenti un approccio occidentale, razionalista-illuministico (tipico di un individuo con la biografia di Masur); e che la seconda si richiami a filosofie orientali (e non a caso, date le personali attitudini di Celibidache).

Il nostro Haitink – come molti altri Direttori del resto - sta quasi al centro, ed anche ieri sera non si è smentito, registrando precisamente un totale netto di 75 minuti (12+15+10+6+7+13+12, tempi rilevati sommariamente). A parte però la durata, che è una componente importante, ma non certo l’unica di una interpretazione, il vegliardo tulipano ha saputo cavar fuori dai filarmonici scaligeri e dal coro di Casoni un Requiem memorabile, sotto tutti gli aspetti (positivi e non): dal misterioso attacco del Selig sind (il pedale introduttivo dei corni in pianissimo ha avuto un che di... tombale) al pesante strascicarsi di Denn alles Fleisch, per il quale non per nulla Brahms dà l’indicazione di Marschmässig (letteralmente: moderatamente marciando) fino alla colossale fuga che chiude il sesto numero (Herr, du bist würdig) che Haitink ha fatto declamare con una prosopopea, un’enfasi e una proterva retorica spinte al limite della sopportazione.      

Il coro si è superato (Haitink gli deve aver cavato anche l’ultimo fil di fiato!) mentre note poco esaltanti vengono dai due solisti (meno male che hanno parti quantitativamente circoscritte): appena passabile la Camilla Tilling, ma direi deludente la prova di Hanno Müller-Brachmann, che mi è parso proprio fuori ruolo, come dire, rispetto ai due interventi che lo riguardano (e anche l’intonazione mi ha lasciato perplesso).

Ad ogni buon conto il successo è stato pieno e costellato da parecchi bravo! (epiteti che il Maestro peraltro disdegna forse più dei buh!) Ma in fin dei conti è stata una specie di meneghino oscar alla carriera, che il successore di Mengelberg (hai detto nulla!) e VanBeinum sul podio del glorioso Concertgebouw si merita ampiamente. E non solo per le sue imprese musicali, ma per la sua straordinaria umanità e semplicità; che già mostrava quando - lo ricordo come fosse ieri, allora 50enne, in un concerto con la prima di Brahms nella londinese RFH – lo vidi ed ascoltai per la prima volta dal vivo. E per questo gli dico: grazie, Bernard!

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