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03 ottobre, 2016

La Semiramide al Maggio, ovvero la “tagliata alla fiorentina”


Ieri pomeriggio terza e penultima recita di Semiramide all’OF, per l’occasione piacevolmente presa d’assalto da un pubblico tanto folto quanto entusiasta (il che è già di per sè un bello spettacolo...)

Semiramide è opera di lunghezza... wagneriana (intonsa tocca come nulla le 3 ore e 3/4 nette) e per questo spaventa chi la deve allestire ancor più di chi la va ad ascoltare (personalmente vorrei che di ore ne durasse cinque o sei, tale è la grandezza della musica!) Così capita quasi sempre che venga fatta oggetto di tagli più o meno corposi e più o meno giustificati. Firenze non ha fatto eccezione con potature che saranno pure, come si usa dire, di tradizione, ma alcune purtroppo intaccano componenti non proprio marginali dell’opera e qualche piccolo o medio danno alla drammaturgia e all’equilibrio complessivo lo arrecano. Sarebbe come rimuovere dalla facciata del Duomo di Firenze le nicchie con relative statue e le raggiere dei rosoni e dal campanile le colonnine che impreziosiscono bifore e trifore: certo, il Duomo resterebbe lì in tutta la sua imponenza, ma insomma...

Tanto per essere esageratamente pignoli, ecco il menu completo (rilevazione – spartito Ricordi alla mano - dalla prima radiotrasmessa il 27) della tagliata fiorentina (stra-smile!) Nel primo atto abbiamo le seguenti cassazioni:
- N°1 (Coro di apertura): tutta la sezione Dal Gange aurato alla fine; poi (esordio Idreno): seconda delle tre ripetizioni del verso Un costante e vivo amor; poi (esordio Assur): seconda delle tre ripetizioni del verso La Regina sceglierà; poi (terzetto Assur-Idreno-Oroe, A quei detti): la prima parte di Oroe; poi (Coro Ah! Ti vediamo ancor): ripetizione di In lei, elementi dei; poi (insieme Ah già il sacro fuoco è spento): prima esposizione di Trema il Tempio, infausto evento;
- Tutto il recitativo dopo il N°1 (da Oh tu, de’ Magi fino all’ingresso di Arsace);
- N°2: brevissimo recitativo dopo la cabaletta di Arsace (Ministri, al gran Pontefice);
- N°4 (Aria di Idreno): dalla ripresa di Ah! Dov’è, dov’è il cimento fino alla cadenza conclusiva (che ognora Idreno adorerà);
- Breve recitativo di Azema dopo il N°4 (Se non avesse e meritasse Arsace);
- N°5: nell’Introduzione strumentale si salta il controsoggetto, da metà della battuta 7 a metà della battuta 23 (delle 31 totali);
- Recitativo dopo il N°5: tagliato dalla frase di Semiramide E voi dunque approvate, fino a Va’, Mitrane; poi da Oroe, co’ Magi fino all’entrata di Arsace; poi da Io ne conosco già la fè fino a inizio cantabile (Serbami ognor);
- Tutto il recitativo dopo il N°6 (Oroe dal tempio nella reggia?);
- N°7: soppresso il Coro di Magi (E dal ciel placati, o numi); poi (Coro finale Atto I): tagliata la ripetizione di Atro evento...

Nell’Atto II spariscono:
- Breve recitativo introduttivo di Mitrane (Alla reggia d’intorno cauto);
- Recitativo Semiramide-Assur: da A me restava allor un figlio, fino a inizio duetto;
- N°8 (Duetto Semiramide-Assur): ripetizione di Ah! Senti! Questa gioja! fino alla stretta conclusiva del duetto;
- N°9: dalla quinta battuta del Preludio, eliminato il Coro di Magi, fino all’ingresso di Arsace (Ebben, compiasi omai); poi la frase di Oroe Gli empi conosci omai... è il tuo dover e la risposta di Arsace (Ah tu gelar mi fai); poi (Arsace e Coro) l’interiezione fra le due ripetizioni di Al gran cimento;
- N°10 (Idreno-Coro): seconda delle tre ripetizioni del verso S’abbandoni il vostro cor;
- N°11 (Semiramide-Arsace): ponte e ripetizione di Tu serena intanto il ciglio;
- N°12 (Coro Oroe dal tempio uscì): soppressa la frase Sull’Assiria al nuovo dì fino a Non v’è soglio più per te;
- Recitativo dopo il N°12 (Mitrane);
- N°13: Coro di Magi (Un traditor con empio ardir) soppresso fino ad entrata di Arsace (Qual densa notte);
- N°13: soppresso il resto della scena da Il vostro Re mirate fino al Coro finale.  

Mi limito a commentare lapidariamente solo l’ultimo dei tagli: semplicemente da denuncia penale!

Domanda: ma ne vale davvero la pena? Per quale pro? Accorciare i tempi di circa 15 minuti su 225? (ma allora perchè non fare le cose in grande e, già che ci siamo, tagliarne 30 o 45 di minuti, tornando alla barbarie della pre-renaissance...?) Oppure risparmiare un po’ di fiato ai cantanti e fiato e fatica agli orchestrali? Mah...

Vengo ai protagonisti, cominciando ovviamente da madre e figlio. Che devo dire hanno cantato assai bene, corrette in tutti i passaggi, particolarmente nelle impervie fioriture (originali e/o predisposte all’uopo). Purtroppo sia Pratt che Santafé mi paiono, come dire, fuori-ruolo, avendo voci congenitamente assai più leggere di quanto non servirebbe per i due personaggi. Pratt trasporta spesso e volentieri dei passaggi (o singole note) all’ottava superiore; nel Bel Raggio si permette addirittura un paio di MI sovracuti, staccati perfettamente e che le procurano un diluvio di applausi, poi nel Giuri ognuno sale in agilità ad un MIb ghermito approssimativamente. Tutte note che Rossini si era ben guardato dallo scrivere, conoscendo alla perfezione i limiti della mogliettina, che mai e poi mai ci sarebbe potuta arrivare. La sua è quindi una Semiramide assai lirica ma assai meno drammatica, ecco. Idem per il contralto, che in effetti è un mezzo (adatto più per Azema che per Arsace?)  

L’Idreno di Gatell ha mostrato buone (e riconosciute) qualità, apparendo abbastanza omogeneo su tutta la gamma, con qualche affanno sugli acuti (il RE, scritto in partitura, questo, uscito un po’ sporco) nella sua prima aria. Inspiegabile pertanto (o sospetto) il taglio apportato al medesimo numero. Cionondimeno si è avuto un lungo applauso dopo l’aria con cui saluta tutti, dove tocca un bel SI (non scritto).

Palazzi è un più che discreto Assur, voce sempre ben impostata, con qualche affanno però sui diversi FA sopra il rigo, dove perde chiaramente potenza e si fa sommergere da coro e orchestra (vedi la chiusa della sua grande aria nel finale).

Gli altri (Tsybulko, Lee, Giovannini e Langella) su standard appena accettabili, così come il coro di Fratini (relegato in buca, faccia al palco e dietro al Direttore, per discutibili prescrizioni ronconiane) anch’esso gratificato di sconti da saldi di fine stagione...

Benino l’Orchestra, non indenne da svirgolamenti di corni e da qualche attacco approssimativo, e malino (malissimo per parte del pubblico) il Direttore Walker. Costui si è preso una serie di buh al rientro e poi è stato sommerso di improperi – unico dell’intera compagnia - all’uscita finale. Io sono di bocca buona e gli rimprovero una certa erraticità nello stacco dei tempi, spesso fin troppo compassati e talvolta eccessivamente stretti (il coro finale davvero incredibile: ci mancava solo che invece di Vieni Arsace cantassero Vecchio scarpone...) Anche le dinamiche non sempre erano a posto... però bisogna riconoscere che pilotare fino al porto un transatlantico (pur alleggerito) come questo non è comunque cosa da poco.
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Ronconi. Parlar male dei morti, lo so, non sta bene... ma quando ce vo’, ce vo’! poi era ancora vivo nel 2011 quando inventò questa genialata per il SanCarlo. Lui, come tutti i grandi, fa grandi anche le... cazzate, come questa messinscena davvero inaccettabile (per me, ovviamente).

Dico, va bene che Semiramide è un soggetto pieno zeppo di problematiche assai cupe: lei con i continui sensi di colpa, Assur frustrato per non riuscire a raggiungere il potere, Arsace disperato che vede sfumare sul più bello l’amore della sua vita, Oroe che sfoga le sue clericali inibizioni abbeverandosi di sangue... Però, accidenti, l’ambiente immaginato da Rossi-Rossini è quello della Babilonia fiorente, prospera, ricchissima e viziosa, proprio come la stessa Regina l’aveva modellata dopo aver fatto secco il marito che la stava ripudiando! E i numerosi cori che (se non vengono brutalmente tagliati) costellano l’intero svolgersi della vicenda sono proprio lì a mostrarcene la magnificenza e la gloria. Ed è precisamente il contrasto fra l’euforia dell’ambiente esterno e lo strazio che abita le anime dei protagonisti a rendere mirabile l’intero impianto estetico dell’opera, grazie ai suoni di cui Rossini l’ha rivestito.

Ronconi? Mentre il coro vero canta (per quel che gli lasciano cantare) la sua felicità restando invisibile, noi che vediamo sulla scena? Mura diroccate e catacombe dalle quali fuoriescono ospiti di un lebbrosario: mammamia!

Non aggiungo altro per non incappare nel reato di vilipendio di cadavere, ecco.
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Che dire, al tirar delle somme? Un’occasione sprecata.

17 agosto, 2014

ROF XXXV live: Armida


Ieri, in una serata fresca dopo un pomeriggio addirittura autunnale, l’Adriatic Arena ha ospitato la terza rappresentazione di Armida, che domenica 10 aveva aperto - non proprio trionfalmente - questa edizione del ROF. Da anni non si vedevano tante poltrone vuote, in un parterre già smagrito di un paio di sezioni (più di 100 posti…): non è certo un buon segno. Dirò subito comunque che il pubblico ha accolto la recita con calore, se non proprio con entusiasmo (pare di essere alla Scala, dove le prime vengono spesso contestate e poi le recite successive rimettono le cose a posto): può anche darsi che nel frattempo la macchina si sia meglio rodata.     
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Armida è opera dal soggetto piuttosto abborracciato e dalla struttura almeno apparentemente… antiquata. Vi si trovano in abbondanza magia ed eventi preternaturali: bacchette magiche, draghi e carri volanti, orride boscaglie che si trasformano di punto in bianco in giardini incantati e in sontuosi palazzi, per poi ri-scomparire con la stessa facilità, spiritelli infernali che assumono sembianze di ninfe incantatrici… un po’ come nel barocco alla Händel, per dire. Ecco, che ad ’800 ormai ben avviato si proponessero nel teatro musicale ancora questi stereotipi del secolo precedente si spiega forse con il fatto che la piazza era quella di Napoli, non certo apertissima alle novità del romanticismo e che d’altra parte un marpione come l’impresario Barbaja non voleva certo inimicarsi.

Poi è un’opera praticamente priva di azione, dove l’unica scena movimentata riguarda una tenzone fra due cavalieri: ma trattasi non di una lotta di eroici nemici sul campo di battaglia, né di una sfida fra due pretendenti per stabilire chi debba godere dei favori della bella principessa di turno; no no, siamo di fronte ad una prosaica resa dei conti fra due commilitoni per questioni di avanzamento di carriera!

Opera chiaramente costruita – più dal compositore che dal librettista Schmidt - per l’esibizione delle qualità vocali dei cantanti: in primo luogo della grande Isabella Colbran, alla quale venne riservato l’unico ma centralissimo ruolo femminile del lavoro, circondata da ben 6 tenori, che salgono fino a 7 in una certa versione, o si riducono a… soli 5 in altre. Sì, perché, a parte Rinaldo che sopravvive ai tre atti, gli altri vanno e vengono in modo abbastanza scriteriato: Goffredo da Buglione ed il suo luogotenente Eustazio si dileguano alla fine del primo atto senza apparente giustificazione; Gernando se ne va via con loro, ma almeno lui con un valido motivo: viene fatto secco da Rinaldo! Carlo e Ubaldo compaiono solo nel terz’atto e ciò consente di risparmiare due tenori, accoppiando Goffredo a Ubaldo e Gernando a Carlo. (Ma in uno spartito per canto e pianoforte, edito da Breitkopf, Gernando muore canonicamente a fine del primo atto, per poi reincarnarsi… magicamente all’inizio del terzo, al posto del titolare Carlo).

Opera infine che include un balletto (in chiusura dell’atto centrale) di corpose dimensioni: minimo una decina di minuti, ampliabili a discrezione di direttore e coreografo fin quasi al doppio, semplicemente moltiplicando i da-capo.

Ebbene, è superfluo dire che se Armida non è finita nel totale dimenticatoio, ciò si deve alla grande musica del Gioachino, che guardava in direzione esattamente opposta a quella del libretto: non parleremo di capolavoro (per non trovarci poi a corto di attributi in altri casi) ma di certo siamo di fronte ad un fior fior di opera, dove Rossini continua ad applicare i suoi principi innovatori, già manifestati in anni precedenti (vedi fra l’altro proprio l’Aureliano, novità di questo ROF) anticipando addirittura certo Verdi (guarda caso per la parte musicale, a Napoli in occasione della prima qualcuno riesumò per il pesarese l’epiteto di tedeschino, e non certo in accezione affettuosa): grandi numeri di assieme, sui quali si stagliano le parti solistiche; recitativi sempre musicati; balletto inserito nel contesto e non, com’era consuetudine settecentesca, affidato a terzi; virtuosismi non lasciati ai vezzi degli interpreti, ma compiutamente delineati sulle rispettive potenzialità. Ecco, caso mai è la disponibilità sul mercato di interpreti adeguati a rendere ardua l’impresa di chi voglia rappresentare Armida.

E così vengo a questa riproposta del ROF, dove il ruolo principale è stato affidato a Carmen Romeu. Una scelta, per così dire, casalinga, essendo il soprano spagnolo un prodotto dell’Accademia pesarese, quindi pupilla del Maestro Zedda e quindi un po’ in famiglia da queste parti. Il che, intendiamoci, in linea di principio non sarebbe per nulla disdicevole, tutt’altro; a patto però che i risultati fossero perlomeno decorosi, se non proprio brillanti. Ahinoi, e ahilei, ciò non è (e lo ha dovuto riconoscere a denti stretti lo stesso Zedda dopo la prima) e anche ieri il soprano spagnolo – pur non apertamente contestato - ha confermato i suoi limiti: ottava bassa inudibile e acuti spesso sfocianti in urletti o stonature.

Degli otto personaggi maschili (concentrati su 5 interpreti) che circondano la protagonista chi ha convinto di più è Antonino Siragusa, un Rinaldo assai sicuro ed efficace e soprattutto dotato di voce chiara e squillante in tutta la gamma. Abbastanza al di sotto Dmitry Korchak (meglio come Carlo che come Gernando) discreto nelle mezze voci, ma in difficoltà negli acuti, sforzati e spesso calanti. Come pure Randall Bills, (Goffredo-Ubaldo): voce piccola e poco penetrante. Forse un filino meglio di lui l’Eustazio di Vassilis Kavayas. Carlo Lepore (Idraote e Astarotte) ha completato il cast in modo decoroso, pur in una parte non certo proibitiva: voce potente e bene impostata.

Ho trovato orchestra e coro migliorati rispetto al radio-ascolto di domenica scorsa: evidentemente una recita in più è servita a tutti. Bravi gli strumentisti al corno, violoncello e violino nelle parti solistiche, e l’ottavino davvero scintillante. Anche Carlo Rizzi mi è parso dare più spessore alla sua direzione. Quanto al lungo balletto che chiude l’atto secondo, l’Ensemble di danza (Compagnia Abbondanza-Bertoni) ne ha dato un’interpretazione moderna e sufficientemente gradevole. Insomma, complessivamente una prova dignitosa, che una protagonista più autorevole avrebbe ulteriormente illustrato.
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Luca Ronconi, che ha evidentemente l’esclusiva dal ROF per quest’opera, deve aver coniugato un sano minimalismo (il rischio di fare stupidaggini o pacchianate con opere come questa è grande) con il budget spartano del Festival, così lui e il suo team hanno preso come spunto il teatro dei pupi, che tradizionalmente si è servito dei personaggi della Gerusalemme liberata (o consimili) per farne lo sfondo alla messinscena. Nicchie prismatiche che occupano l’intera altezza della scena e in cui sono di volta in volta appesi i pupi di varie misure, oppure nelle quali trovano posto i protagonisti (la nuvola del second’atto). Da pupi sono anche vestiti i crociati, con tanto di elmi crinuti e corazze più romani che medievali. Armida invece sfoggia eleganti abiti da sera, nero e poi rosso fuoco. Completano la scena alcuni pannelli che traslano (come le nicchie) orizzontalmente a muovere un po’ lo spazio. Efficace la resa degli spiriti del male, vestiti da pipistrelli, come pipistrellone è il loro capo Astarotte (e – per simpatia! – anche lo sbifido Idraote del primo atto). La recitazione è pure essa… minimalista: gesti plastici e ieratici, come si addice ad un soggetto… barocco.

Tutto sommato, nulla di straordinario, nel bene e nel male, ma con il pregio di non aver, per così dire, disturbato la musica! Il che è già qualcosa.