Dopo 28 anni, è
arrivata al Piermarini una nuova produzione di Rigoletto.
Che la metà abbondante del folto pubblico ha accolto con calore (non
calor-rosso, per la verità) ma che una robusta minoranza ha invece mostrato di
non gradire, prendendosela proprio con i due artefici della proposta,
sonoramente buati (più il regista) alle uscite finali.
Personalmente
sarei più accomodante con Michele Gamba, che il suo compitino lo ha svolto
con diligenza, forse con eccessivo distacco e con venature veriste mutuate dall’approccio
interpretativo (il famigerato Konzept) di Mario Martone.
Il quale regista,
volendo a tutti i costi attualizzare ai tempi nostri il soggetto, e non
trovando esempi calzanti, ha fatto la facile scelta (per lui non nuova, ergo
recidiva – vedansi i suoi Oberto e Cena delle beffe scaligeri) di
ricorrere al trito riferimento alla malavita organizzata. Cioè dal Palazzo
del Louvre (Hugo) e dal Palazzo ducale di Mantova (Piave) che sono –
a dispetto delle malefatte dei loro inquilini – sedi del potere costituito,
lui ci ha portato dai… Casamonica! E notoriamente alle feste dei
Casamonica si balla il perigordino (! mamma mia!) E Monterone è evidentemente
il capo di una cosca rivale cui il Duca ha fatto le scarpe riducendolo in
miseria, e per di più sottraendogli (per ingropparsela) la figlia… Ben si spiega
quindi la scena sulla quale cala l’ultimo sipario: l’irruzione dai Casamonica di
una banda rivale che mette tutto a ferro e fuoco!
II lato-b
della scena girevole (il cui lato-a è la villa dei Casamonica) dove
dimora Rigoletto, è quindi il più orripilante quartiere degradato della più
degradata periferia dei nostri tempi; nell’atto terzo si trasforma nel bordello
gestito da Sparafucile e soreta: puro verismo!
Al Duca Verdi
riserva uno squarcio di umanità (Ella
mi fu rapita…) che Martone gli nega proditoriamente
mostrandocelo mentre si dispera tracannando un whisky dietro l’altro… Gilda da
parte sua non pare proprio una Maria Goretti sinceramente innamorata, ma
piuttosto una ragazza moderna insofferente ai divieti che le impone un padre-padrone.
Insomma, una concezione
francamente lunatica, quindi (per me) deludente, ecco.
___
Il fronte dei
suoni ha risollevato abbastanza la media. Detto della concertazione poco…
emozionante di Gamba, vanno elogiati il Coro di Malazzi (sempre una
sicurezza) e le voci dei due bassi Fabrizio Beggi e Gianluca Buratto,
davvero all’altezza dei due ruoli comprimari (Monterone e Sparafucile).
I protagonisti: apprezzata assai
la Gilda di Nadine Sierra (fu già parte del cast della ripresa del
2016): bella voce calda, penetrante ed espressiva, che le ha meritato applausi
a scena aperta (Caro nome) ed
ovazioni finali.
Anche Piero Pretti (praticamente
un veterano del ruolo qui alla Scala, avendolo cantato nel 2012 e 2016) si è
ben distinto, anche se la sua emissione mi è parsa un tantino, come dire,
vetrosa, soprattutto nella zona di passaggio.
Il Rigoletto di Amartuvshin Enkhbat
ha un portentoso vocione da far tremare la struttura del teatro: troppo spesso
peraltro tende a declamare invece che cantare e ad emettere urla belluine che
poco hanno a che fare con i requisiti estetici del ruolo (non lo vedrei male
spostato sul Wagner di ceffi tipo Fafner o Hagen o Hunding…) Ma è sperabile, se
non certo, che possa crescere ancora… insomma è uno che merita la fiducia che
gli ha espresso il pubblico di ieri. Da notare il rispetto filologico della
partitura: il follia lo ha cantato
sul MI e non (come tradizionalmente si fa) sullo stentoreo/eroico SOL.
Fra i personaggi
di contorno cito la Maddalena di Marina Viotti, che spero non me ne
voglia se dico di aver apprezzato il suo (castigato) spogliarello quanto la sua
calda voce contraltile. Agli altri sette (vedi locandina) va un doveroso
riconoscimento di aver fatto ciò che loro è richiesto.
___
Che dire, in
conclusione? Voto complessivamente discreto, ma fatto di un quasi-buono
ai suoni mediato da
un mediocre alla regìa.