XIV

da prevosto a leone
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01 giugno, 2024

Orchestra Sinfonica di Milano – Stagione 23-24.24

Di tanto in tanto, l’Orchestra Sinfonica di Milano si (e ci) regala qualche escursione nel genere del teatro musicale. Questa volta tocca a Puccini (di cui si celebra il centenario della scomparsa…) e a Suor Angelicaalla sua seconda apparizione dopo quella di 18 anni orsono con Bisanti.

Questa produzione è realizzata in collaborazione con l’Accademia del Teatro alla Scala, da cui provengono 5 delle 7 interpreti dell’opera (Monica Zanettin e Silvia Beltrami sono le altre due). Per l’occasione torna per la terza volta sul podio dell’Auditorium il 34enne tarantino Vincenzo Milletarì, già ospite qui nel ’22 e ’23.

Serata per (quasi) tutte rappresentanti del genere femminile: oltre alle sette interpreti (dei 14 ruoli) anche la Direttrice del Coro di Voci Bianche (tutte ragazze) Maria Teresa Tramontin. A rappresentare il genere maschile, oltre al Direttore, è il Maestro del Coro Massimo Fiocchi Malaspina, con tenori e bassi che nel finale si aggiungono alle signore e alle voci bianche.    

I tre ruoli principali dell’opera, dal punto di vista musicale, sono senz’altro Angelica, Principessa e Genovieffa.

La protagonista del title-role si presenta esponendo la sua filosofia della bella morte, dove ogni umano desiderio è già realizzato prima ancora di manifestarsi, grazie all’intercessione della Beata Vergine. Poi la vediamo all’opera come esperta di medicina e farmacologia, quando prepara la pozione contro le punture di vespa; tornerà ad esercitare questa sua sapienza nel finale, allorquando preparerà la mortale bevanda per sé medesima. Poi la vediamo in preda all’ansia, all’annuncio di una visita che la riguarda; e subito dopo affrontare il drammatico incontro-scontro con la Zia Principessa, dove emerge la sua aperta ribellione contro i pregiudizi della società. Deve poi sopportare il devastante dolore alla notizia della morte del figlioletto. Da qui la decisione di darsi la morte per raggiungerlo in Paradiso, subito seguita dal pentimento per la consapevolezza della mortale peccaminosità del gesto. Infine, lo scioglimento della sua vicenda terrena nella celeste beatitudine.

Insomma, un ruolo complesso e dalle mille sfaccettature, che Puccini ha scolpito mirabilmente in musica. Ebbene, l’ormai veterana Monica Zanettin ha mostrato di sapersi calare assai bene in questa parte che alterna toni dimessi e riflessivi a scatti di passione, amor materno che arriva al sacrificio, ma anche disprezzo per la società che l’ha punita invece di comprenderla e aiutarla. Avesse un po’ più di penetrazione negli acuti sarebbe quasi perfetta. A lei è andato il maggior consenso del pubblico.

La Zia Principessa è la classica espressione femminile della società patriarcale in auge in quel lontano 1600 (ma le cui propaggini si spingono fino a noi…) Obbedienza cieca a principii ottusi; inflessibile esercizio dell’autorità: e disprezzo, in luogo di comprensione, per chi esce dalla retta via. La navigata Silvia Beltrami si è ben calata nella parte, facendo emergere con la sua solida voce contraltile tutta la freddezza e l’ottusa severità del personaggio. Anche con lei il pubblico è stato assai generoso. 

Genovieffa rappresenta l’ingenuità e la sincerità della gente comune. Sa apprezzare la bellezza di un tramonto; mostra premura nel ricordare una sorella defunta; non trova sconveniente avere desideri, se sono innocenti (agnellino = Agnus Dei…) e non animati dall’egoismo; mostra comprensione per l’ansia di Angelica. L’alfiere delle accademiche scaligere, Greta Doveri, l’ha efficacemente interpretata, accollandosi anche i ruoli marginali di seconda cercatrice e seconda conversa.

Le altre interpreti sono Elena Caccamo (Badessa + Suora zelatrice); Fan Zhou (Osmina, Dolcina, Novizia); Laura Lolita Perešivana (prima cercatrice, prima conversa) e Dilan Saka (Maestra e Suora infermiera). Le loro parti sono di portata quantitativamente limitata: accumunerei tutte in un giudizio lusonghiero. E il pubblico mi pare abbia fatto altrettanto.

Bene Milletarì, gesto sempre essenziale e precisione negli attacchi, che con questo Puccini evidentemente ha trovato una buona consonanza, valorizzandone al meglio questa difficile partitura. E l’Orchestra lo ha assecondato alla grande: da antologia tutto il finale, in cui è spiccato il mirabile passaggio (guidato dai violoncelli) che accompagna Lodiam! La Grazia è discesa dal cielo! di Angelica.

Hanno completato degnamente l’opera i cori di Tramontin e Fiocchi Malaspina. Alla fine, lunghi e convinti applausi per tutti, da parte di un pubblico assai folto e partecipe. Una serata davvero da incorniciare. 

27 novembre, 2017

Un Ballo in gondola


La Fenice ha aperto la stagione 17-18 con una nuova produzione del Ballo verdiano, di cui ieri pomeriggio - sala piacevolmente affollata - è andata in scena la seconda recita. La prima, trasmessa venerdi da Radio3, (mi) aveva lasciato una discreta impressione, confermata nella sostanza dall’ascolto dal vivo.

Per l’occasione il sito web che pubblica i contenuti multimediali dell’Archivio Storico del Teatro ha reso disponibile una fulminante conferenza tenuta da Massimo Mila in occasione della produzione del Ballo del lontano 1971 (un breve estratto di essa è stato messo in onda durante il collegamento di Radio3): trattasi di un documento che chiunque voglia apprezzare in pieno quest’opera (invece di limitarsi a gustarla passivamente) dovrebbe ascoltare con attenzione.

E credo che farebbero bene ad ascoltarlo anche tanti registi che si esercitano ad inventare interpretazioni cervellotiche del soggetto di (Scribe-)Somma-Verdi. Per nostra fortuna non è il caso di Gianmaria Aliverta, che già in questa interessante intervista lasciava intendere come lui... intenda la messinscena di un’opera e in particolare del Ballo. Anche lui non si è sottratto alla tentazione di cambiare qualcosa nell’ambientazione, avanzando l’epoca di un paio di secoli (da fine-600 a fine-800) il che comporta inevitabilmente qualche disallineamento con il testo, ma senza stravolgerlo più di tanto, nè soprattutto adulterare i caratteri di fondo delle personalità dei protagonisti del dramma: insomma, una cosa meno pretenziosa ma in compenso molto meno perniciosa di questa.


I riferimenti al problema nero sono enunciati in teoria dal regista, ma in pratica si riducono a qualche moderato maltrattamento di un servitore proprio durante l’esecuzione del Preludio, per il resto rimangono... nella testa di Aliverta, ecco. Le scene di Checchetto e i costumi di Tieppo richiamano l’800 più che altro per qualche stars&stripes e per la fiaccola e la testa della Statua della Libertà, in grandezza quasi naturale (!) dove nel finale si appostano, a sinistra, i 7 elementi dell’orchestrina di archi che Verdi prevede sulla scena e, a destra, i due innamorati per l’ultimo addio, che verrà brutalmente interrotto da un colpo di pistola che Renato esplode proprio dalle scale che conducono alla fiaccola (evabbè).

Altre amenità riguardano il second’atto, dove in scena troviamo un luogo effettivamente lugubre, ma che ha più l’apparenza di uno scavo archeologico (a Boston evidentemente abbondano... !) e dove – per convincere lo spettatore che la figura dello zombie che si para dinanzi ad Amelia non sia un’allucinazione, ma invece un moribondo in carne ed ossa - Aliverta ci mostra un vero agguato di sicari che lasciano sul posto l’anonimo malcapitato. Comunque, cose infantili e tutto sommato perdonabili: come detto, c’è in giro di molto peggio.

La festa finale all’ombra dei pezzi di Statua è stata dignitosamente proposta dai movimenti coreografici di Barbara Pessina. Appropriato l’impiego delle luci di Barettin, forse discutibile la serie di fari accecanti posti sul fondo-scena nella fase cruciale del second’atto.
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Il cast di questa produzione fenicea è (in 4/5 dei ruoli principali, Ulrica l’eccezione) lo stesso che anni fa aveva cantato l’opera al Regio di Parma sotto l’esperta direzione di Gelmetti. Qui le redini sono state affidate al sommo Myung-Whun Chung, che ancora una volta non ha deluso le attese, con una lettura di altissimo livello ed una concertazione che non definisco perfetta solo per via di un paio di... coperture di voci.

Meli su tutti: non solo per la voce (di Pavarotti non ne son più nati...) ma anche per la sensibilità nel porgere le diverse anime del personaggio: qui spaccone e goliardico, là capo autorevole-illuminato, ma soprattutto poi innamorato sincero ed appassionato. La Lewis conferma di essere in crescita con una prestazione all’altezza: acuti ben portati (inclusa la salita al DO nel second’atto) a fronte di qualche centro meno efficace.

Il Renato di Stoyanov (che Aliverta-Tieppo dotano di parrucchino a coprire la naturale capigliatura di uomo di mezz’età, mah...) non incanta, ma nemmeno scontenta, ecco: la voce è solida e ben impostata, il suo eri tu porto con passione e varietà di accenti.

Le due donne co-protagoniste hanno ben meritato: la Gamberoni (che dice di voler appendere al chiodo il ruolo di Oscar) ha sciorinato agilità e brillantezza nei suoi interventi sbarazzini, oltre che una perfetta rispondenza al ruolo en-travesti, sempre di difficile interpretazione in un’opera del secondo ‘800. La maga-sibilla di Silvia Beltrami ha sciorinato sufficiente brutalità e protervia, coerenti peraltro con il ruolo e la musica che Verdi le appiccica addosso, evitando eccessive volgarità o forzature: in complesso una prestazione da accogliere favorevolmente.

I comprimari (Corrò, Lim e Denti) se la son cavata con onore, Giannino e D’Ostuni han fatto diligentemente le loro piccole parti. Benissimo il Coro di Moretti, compresi i piccoli di Diana D’Alessio, rispolverati per l’occasione.
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Che dire, in conclusione? Che la Fenice ha proposto aperture di stagione più eccitanti di questa? Forse, ma credo – parlo per me, ovviamente - che ci si possa accontentare.