La Fenice ha aperto la stagione 17-18 con una nuova
produzione del Ballo verdiano, di
cui ieri pomeriggio - sala piacevolmente affollata - è andata in scena la seconda recita. La prima, trasmessa venerdi da Radio3, (mi)
aveva lasciato una discreta impressione, confermata nella sostanza dall’ascolto
dal vivo.
Per l’occasione il sito web che pubblica i contenuti
multimediali dell’Archivio Storico del
Teatro ha reso disponibile una fulminante
conferenza tenuta da Massimo Mila in occasione della produzione del Ballo
del lontano 1971 (un breve estratto di essa è stato messo in onda durante il
collegamento di Radio3): trattasi di un documento che chiunque voglia apprezzare
in pieno quest’opera (invece di limitarsi a gustarla passivamente) dovrebbe ascoltare
con attenzione.
E credo che farebbero bene ad ascoltarlo anche tanti
registi che si esercitano ad inventare interpretazioni cervellotiche del
soggetto di (Scribe-)Somma-Verdi. Per nostra fortuna non è il caso di Gianmaria Aliverta, che già in questa interessante intervista lasciava
intendere come lui... intenda la messinscena di un’opera e in particolare del Ballo. Anche lui non si è sottratto alla tentazione di cambiare qualcosa nell’ambientazione,
avanzando l’epoca di un paio di secoli (da fine-600 a fine-800) il che comporta
inevitabilmente qualche disallineamento con il testo, ma senza stravolgerlo più
di tanto, nè soprattutto adulterare i caratteri di fondo delle personalità dei
protagonisti del dramma: insomma, una cosa meno pretenziosa ma in compenso molto
meno perniciosa di questa.
I riferimenti
al problema nero sono enunciati in
teoria dal regista, ma in pratica si riducono a
qualche moderato maltrattamento di un servitore proprio durante l’esecuzione
del Preludio, per il resto rimangono... nella testa di Aliverta, ecco. Le
scene di Checchetto e i costumi di Tieppo richiamano l’800 più che altro
per qualche stars&stripes e per la fiaccola e la testa della Statua della Libertà, in grandezza quasi naturale
(!) dove nel finale si appostano, a sinistra, i 7 elementi dell’orchestrina di
archi che Verdi prevede sulla scena e, a destra, i due innamorati per l’ultimo
addio, che verrà brutalmente interrotto da un colpo di pistola che Renato esplode proprio dalle scale che
conducono alla fiaccola (evabbè).
Altre
amenità riguardano il second’atto, dove in scena troviamo un luogo
effettivamente lugubre, ma che ha più l’apparenza di uno scavo archeologico (a
Boston evidentemente abbondano... !) e dove – per convincere lo spettatore che
la figura dello zombie che si para
dinanzi ad Amelia non sia un’allucinazione, ma invece un moribondo in carne ed
ossa - Aliverta ci mostra un vero agguato di sicari che lasciano sul posto l’anonimo
malcapitato. Comunque, cose infantili e tutto sommato perdonabili: come detto,
c’è in giro di molto peggio.
La festa
finale all’ombra dei pezzi di Statua
è stata dignitosamente proposta dai movimenti coreografici di Barbara Pessina. Appropriato l’impiego
delle luci di Barettin, forse
discutibile la serie di fari accecanti posti sul fondo-scena nella fase
cruciale del second’atto.
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Il cast di questa produzione fenicea è (in 4/5 dei
ruoli principali, Ulrica l’eccezione) lo stesso che anni fa aveva cantato l’opera al Regio di Parma sotto l’esperta
direzione di Gelmetti. Qui le redini sono state affidate al sommo Myung-Whun Chung, che ancora una volta non ha deluso le attese, con una lettura di
altissimo livello ed una concertazione che non definisco perfetta
solo per via di un paio di... coperture di voci.
Meli su tutti: non solo per la
voce (di Pavarotti non ne son più nati...) ma anche per la sensibilità nel porgere
le diverse anime del personaggio: qui spaccone e goliardico, là capo autorevole-illuminato,
ma soprattutto poi innamorato sincero ed appassionato. La Lewis conferma di essere in crescita con una prestazione all’altezza:
acuti ben portati (inclusa la salita al DO nel second’atto) a fronte di qualche
centro meno efficace.
Il
Renato di Stoyanov (che Aliverta-Tieppo
dotano di parrucchino a coprire la naturale capigliatura di uomo di mezz’età,
mah...) non incanta, ma nemmeno scontenta, ecco: la voce è solida e ben
impostata, il suo eri tu porto con passione
e varietà di accenti.
Le due
donne co-protagoniste hanno ben meritato: la Gamberoni (che dice di voler appendere al chiodo il ruolo di Oscar)
ha sciorinato agilità e brillantezza nei suoi interventi sbarazzini, oltre che
una perfetta rispondenza al ruolo en-travesti, sempre di difficile
interpretazione in un’opera del secondo ‘800. La maga-sibilla di Silvia Beltrami ha sciorinato
sufficiente brutalità e protervia, coerenti peraltro con il ruolo e la musica
che Verdi le appiccica addosso, evitando eccessive volgarità o forzature: in
complesso una prestazione da accogliere favorevolmente.
I
comprimari (Corrò, Lim e Denti) se la son cavata con onore, Giannino e D’Ostuni han
fatto diligentemente le loro piccole parti. Benissimo
il Coro di Moretti, compresi i piccoli di Diana D’Alessio, rispolverati per l’occasione.
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Che
dire, in conclusione? Che la Fenice ha proposto aperture di stagione più
eccitanti di questa? Forse, ma credo – parlo per me, ovviamente - che ci si
possa accontentare.
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