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05 marzo, 2022

Adriana Lecouvreur (Putin-free) alla Scala


Ieri sera prima rappresentazione alla Scala dell‘Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea, co-prodotta (con Vienna, Parigi, Barcellona e San Francisco) dalla ROH nell’ormai lontano 2010.
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(aperta parente...
Ovviamente la vigilia è stata vissuta, più che sul piano strettamente artistico, su quello politico, con il gran rifiuto della diva Anna Netrebko, seguito all’ostracismo deciso dal Teatro contro Valery Gergiev, reo di mancata abiura anti-putiniana. Invece il signor Netrebko (al secolo l’azero Yusif Eyvazov) oltre al green-pass si è potuto procurare anche il necessario war-pass e così è potuto tornare a calcare il tavolato del Piermarini.

Mi permetto qui di segnalare, a proposito della questione che oggi si discute spesso con approccio da bar-sport, un bell’intervento di un musicofilo italiano che mi sento di condividere ampiamente. Aggiungendo anche una domanda: ma tale Sala, oggi Presidente del CdA della Fondazione del Teatro, colui che ha istituito il war-pass anti-Putin, non è per caso lo stesso Sala che nel 2009 faceva il City-Manager nella Giunta della zia Letizia, fedelissima di quell’altro tale che per anni e anni - dopo la carneficina di Grozny e l’assassinio di giornalisti e oppositori - ha continuato a sostenere essere Putin il più grande statista difensore della libertà e della pace?
...chiusa parente)
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Come si evince chiaramente dalla registrazione del 2010, questo di David McVicar è un allestimento di grande pregio, di quelli che si etichettano oggi come tradizionali, spesso con sufficienza e magari con sarcasmo. Perchè tutto è precisamente come prevede (e prescrive) il testo di Arturo Colautti, ricchissimo di minuziose didascalie: dall’ambientazione (siamo proprio - clamoroso! - nel 1730 e non nel 1980, i costumi sono settecenteschi e non cappottoni DDR, gli spazi sono quelli di teatri e saloni della nobiltà dell’epoca e non di pacchiani salotti da borghesia cafona e velleitaria); e soprattutto alla recitazione dei personaggi, curata nei minimi dettagli come da libretto.

Giampaolo Bisanti ha fatto il suo esordio in Scala e l’accoglienza del pubblico gli è stata più che favorevole, direi quasi trionfale: il suo gesto è magari eccessivamente enfatico, ma mai gigionesco, e soprattutto il Direttore del Petruzzelli ha saputo dosare sempre le dinamiche, passando con efficacia dai lunghi momenti di intimità e introversione agli scoppi improvvisi che costellano la partitura. Partitura che l’Orchestra ha nobilitato, rispondendo sempre da par suo alle sollecitazioni di Bisanti.    

Il Coro di Alberto Malazzi ha come sempre dato il suo determinante contributo al successo della serata, meritandosi lunghi applausi alla fine della sua prestazione, prima di lasciare la scena al drammatico atto conclusivo.

Apprezzabili anche le coreografie del terz’atto (uno scorcio che rischia sempre di abbassare la tensione a livello di drama) che McVicar impiega sapientemente per portarci verso la scena-madre dell’invettiva di Adriana.

Adriana che è la rediviva in Scala Maria Agresta, protagonista di una prestazione in continuo crescendo, dopo un attacco non proprio impeccabile all’esordio dell’umile ancella. Sarebbe stucchevole e ingiusto fare qui illazioni su ciò che la diva Anna avrebbe potuto aggiungere; diamo invece alla bravissima Maria ciò che si merita, avendoci proposto - musicalmente e scenicamente - un’Adriana commovente e convincente.  

Yusif Eyvazov, già un più che discreto Chénier anni orsono, è stato ieri sera un buon Maurizio, il che testimonia del suo continuo impegno a migliorarsi, liberandosi dall’ombra fastidiosa (artisticamente parlando) legata al suo rapporto con la Netrebko. Se posso permettermi un confronto con il Kaufmann del 2010 (vedi citata registrazione della ROH) direi che non lo perde sicuramente.

La principessa di Anita Rachvelishvili esce con luci ed ombre: il suo vocione non sempre si attaglia perfettamente al personaggio, una donna gelosa e vendicativa sì, ma anche innamorata e debole (vedi second’atto). Difficile spiegarsi perchè non sia tornata alla fine a salutare il pubblico (che credo proprio l’avrebbe comunque applaudita).

Delle prime rappresentazioni del 2010 c’è un unico superstite: Alessandro Corbelli. Che si merita il plauso che il pubblico gli ha tributato per una prestazione di tutto rilievo: voce corposa e passante, recitazione impeccabile, insomma un Michonnet impagabile.

Come perfetto è stato Carlo Bosi nella parte semiseria dell’Abate, nella quale ha messo tutto il mestiere di una lunghissima carriera.      

Il Principe di Alessandro Spina e il Poisson di Francesco Puttari, insieme a Caterina Sala, Svetlina Stoyanova, Costantino Finucci e Paolo Nevi, completano un cast di buona levatura complessiva.

In conclusione: ancora una proposta scaligera da apprezzare, a dimostrazione che allestimenti ben curati possono sopravvivere nel tempo, se alimentati da nuova linfa a livello di interpreti. 

09 maggio, 2015

La Turandot di Chailly-Berio alla Scala

 

L’EXPO2015 ha regalato alla Scala un secondo SantAmbrogio (il 1° maggio persino il meteo si era allineato a dicembre!) e così ecco questa Turandot tutta nuova (almeno per il Piermarini) di cui ieri sera è andata in scena la terza delle otto rappresentazioni. (Qui la registrazione della prima).   

La (stagionata) novità di questa proposta consiste nel presentare - al posto di quello composto da Franco Alfano sotto la tutela di Toscanini, sempre criticato ma sempre eseguito in Scala (salvo alla… prima del ‘26!) - il finale di Luciano Berio, ormai vecchio anch'esso di 14 anni.

La mia (e non solo mia, direi) personale avversione alla pretesa di chiudere a tutti i costi l’opera secondo il libretto (e magari pure forzandolo, visto che lo stesso Puccini non si decideva a condividerne il finale) quando vi manca circa l’ultimo 10% di musica (di cui il compositore lasciò solo degli spizzichi e bocconi senza capo né coda) ho già manifestato nel post-scriptum di questo resoconto della penultima apparizione dell’opera in Scala, diretta da Gergiev, quindi qui mi limiterò ad integrare il concetto con qualche dettaglio in più.

Dirò subito che delle quattro versioni esistenti del finale posticcio-abusivo (rintracciabili in rete: 1. quella originale di Alfano; 2. quella tradizionalmente eseguita, e ulteriormente tagliata, come qui, di Alfano con i tagli chiesti da Toscanini ma con la chiusa del coro col Gloria sulle note di Vincerò; 3. quella di Berio; e 4. quella recente del cinese Hao Weiya – alle quali va aggiunta quella dell’americana Janet Maguire, mai eseguita) questa di Berio mi sembra perlomeno la più dignitosa, o la meno gratuita, anche grazie a qualche opportuno intervento sul libretto, a partire dall’espunzione del coro finale.

Insomma, a me pare che Alfano (imitato da Weiya molti anni dopo) tenda ad interpretare la scena finale come fosse quella del Siegfried: dove Brünnhilde inizialmente si nega al ragazzo, per poi cedere ai suoi focosi assalti e unirsi anche carnalmente a lui. Però in Wagner le premesse stanno agli antipodi rispetto alla Turandot! Brünnhilde ha apprezzato l’amore di Siegmund e Sieglinde fino al punto da perderci la… divinità; ha poi amato Siegfried fin dal suo concepimento; ha implorato Wotan di farla risvegliare dal Wälso; e ha subito manifestato la sua gioia nel riaprire gli occhi proprio su Siegfried. La sua iniziale ritrosia ad accoppiarsi con lui è tutta e solo freudiana: la paura - o meglio la tristezza, squisitamente femminile - legata alla prospettiva della perdita della verginità; non certo un pregiudizio idiota legato ad un fatto di cronaca nera di cui fu vittima un’ava nemmeno conosciuta. E alla fine è lei, liberamente e coscientemente, a concedersi al Wälso. Turandot invece è da sempre un pezzo di ghiaccio venefico; e tale rimane anche dopo aver assistito alla morte della povera Liù; il suo cedimento a Calaf è tutt’altro che spontaneo e convinto, anzi appare come conseguenza di un atto di molestia sessuale, per non chiamarlo di violenza carnale bella e buona!

Scena finale che Berio cerca invece di Tristan-izzare, seguendo un vago accenno lasciato da Puccini sui suoi confusi appunti. L’idea sarebbe anche supportata da una testimonianza indiretta (perché riferita da Leonardo Pinzauti) di Salvatore Orlando, cui il Maestro avrebbe suonato – occhio alla data – nel 1923 un finale dell’opera dal sapore tristaniano. Però risulta che Puccini – a settembre 1924, due mesi prima di morire – avesse suonato alcune idee del finale anche a Toscanini, che poi avallò quello tutt’altro che tristaniano di Alfano! (Insomma, ce n’è per tutti i gusti…)

Il programma di sala ci offre un interessante documento che finora era di non immediata accessibilità: si tratta dell’Appendice I del saggio di Marco Uvietta È l’ora della prova: un finale Puccini/Berio per Turandot, originariamente pubblicato nel 2002 in Studi Musicali. Questa Appendice riporta in dettaglio tutti gli interventi di Berio, che si caratterizzano per: tagli al testo e alle didascalie (corposi); aggiunte o modifiche al testo (minime); impiego di molti (23 su 30) degli schizzi lasciati da Puccini; utilizzo di frammenti musicali prelevati da altre parti dell’opera; inserimento di frammenti musicali alieni (Wagner, Mahler, Schönberg, oltre a Berio medesimo).

Il saggio di Uvietta presenta ed analizza i razionali che sono stati posti da Berio alla base della sua proposta. Lo scopo principale degli sforzi del completatore è di riuscire là dove l’Autore non aveva avuto modo (e/o tempo?) di arrivare: aggirare in sostanza lo scoglio insormontabile legato alla prosaica modalità di scongelamento della Principessa. Il cuore di tale tentativo è rappresentato proprio dall’Interludio orchestrale (dove compaiono anche le citazioni aliene) che Berio ha predisposto come colonna sonora alla scena dell’abbraccio di Calaf al corpo di (così la nuova didascalia!) Turandot. Orbene, mentre in Alfano quella scena passa alla velocità della luce, in Berio abbiamo ben 2’30” di musica (scusate la battuta sconcia: il tempo per una sveltina?) che dovrebbero evocare la trasformazione della Principessa da sbifida carogna in angelica creatura (!?) E per rendere la cosa plausibile, evitandole il successivo clamoroso voltafaccia, dopo che Calaf ha rivelato il suo nome, i versi di Turandot (So il tuo nome! Arbitra sono ormai del tuo destino! e fino a …la mia fronte ricinta di corona!) sono stati abilmente ma bellamente cassati.

Ma alla fine i nodi vengono al pettine: come diceva il calvissimo Ispettore Rock nel carosello della brillantina Linetti, togliendosi il cappello? Anch’io ho commesso un errore! Eh sì, anche Berio (e prima di lui Puccini, se davvero pensava al Tristan) ha preso una bella cantonata: come spiegare tristanianamente l’esternazione di Calaf (che permane nella versione beriana) È l’alba! E amor nasce col sole! ??? 

Insomma, come la si voglia prendere, siamo sempre lì, accanto a Puccini sul lettino dell’ospedale belga dove morirà: la personalità della protagonista, come emersa e consolidatasi fino a quel momento dell’opera (parole e musica) rende irrimediabilmente vano ogni tentativo di giustificarne la repentina conversione, e così anche Berio – del quale va incondizionatamente apprezzato lo spirito, oltre che il livello assoluto del contenuto musicale del suo completamento - purtroppo pretende l’impossibile, finendo con il contrabbandarci per Verklärung una volgare Vergewaltigung!  
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In questo allestimento è il regista Nikolaus Lehnhoff che cerca di far quadrare il cerchio del finale, naturalmente contravvenendo lo stesso libretto di Berio, che prevederebbe per i 150” dell’Interludio un altrettanto lungo abbraccio di Calaf a Turandot: invece il regista ci mostra la principessa, in preda a dubbi e angosce, vagare per il palcoscenico ritrovando prima il suo copricapo da spaventapasseri, poi il suo mantello piumato, quasi a voler con essi processare tutta la sua precedente esistenza, fino poi a raccogliere dalle mani di Calaf il pugnale con cui si è ammazzata Liù e minacciare di usarlo (contro lui o contro di sé? mistero)  per poi farlo cadere e gettarsi (ma senza eccessiva convinzione…) fra le braccia del Principe. Dopodiché, in assenza del trionfalistico coro finale, i due si allontanano insieme, ma in un’atmosfera strindberghiana (e al buio, altro che alba luminosa!) forse puniti e contriti entrambi per le loro (pur diverse) malefatte.

In sostanza: il regista cerca lodevolmente di assecondare al meglio la grande musica di Berio per restituire un minimo di plausibilità ad un finale che proprio non ne ha, e così il risultato – dal punto di vista del dramma - è comunque deludente, pur per ragioni opposte a quelle che rendono indigesto il completamento di Alfano.

Per il resto la regìa di Lehnhoff non disturba nessuno, dato che racconta la storia per filo e per segno, senza pretendere di aggiungervi (né togliervi) alcunché. Dalle scene di Raimund Bauer non c’è da rimanere a bocca aperta, anzi bisognerebbe suggerire allo scenografo di recarsi almeno una volta in loggione, per verificare ciò che della sua opera d’arte si vede di lassù: così sistemerebbe le cose in modo che di Turandot (Atto I) e dell’Imperatore (Atto II) si veda qualcosa di più delle… ciabatte! Belli i costumi della Andrea Schmidt-Futterer, con un calo di stile per la verità nei confronti dei tre poveri P(i-a-o)ng, scaduti a livello di… battistrada. Efficaci le luci di Duane Schuler e i movimenti coreografici di Denni Sayers.
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Va riconosciuta invece al prossimo Direttore Musicale scaligero la coerenza di approccio interpretativo dell’opera, anche rispetto al finale prescelto: pur senza stravolgerne le originarie caratteristiche, Chailly ci propone una Turandot dai tratti decisamente asciutti e scevra da compiacimenti a buon mercato. Un Puccini – e la cosa non è poi tanto campata in aria - allievo della seconda scuola di Vienna? Certo qualche decibel di troppo in un paio di occasioni ha messo a repentaglio i cantanti, ma in generale la sua è stata una concertazione pregevole.

La protagonista Nina Stemme tende pericolosamente a sforzare gli acuti, sfociando nell’urlo: però in tal modo riesce a farsi sempre sentire, anche sopra i fracassi dell’orchestra. Certo, Turandot non è Brünnhilde… e poi Berio non è Alfano, così la svedesina riesce, con molto mestiere, a farsi apprezzare.

Aleksandrs  Antonenko mostra voce discreta, non potentissima, con qualche vibrato sgradevole, arriva bene agli acuti e insomma fa il suo compitino con diligenza, senza destare grandi entusiasmi.

Brava come sempre Maria Agresta, che disegna una convincente Liù: a lei va la palma di migliore in campo (ma con quei concorrenti non le è stato difficile conquistarla).

Poco più che sufficiente il contributo di Alexander Tsymbalyuk, un Timur poco penetrante nel canto e poco efficace nel portamento scenico.

Dai tre… porcellini Michelin (smile!) luci ed ombre, con una menzione per Paolo Veccia, che almeno si fa sentire con facilità e non demerita con la sua casetta nell’Honan; i due tenori (Roberto Covatta e Blagoj Nakoski) fanno molto avanspettacolo e poco… canto!

L’Imperatore ha una parte circoscritta, ma Carlo Bosi ci si mette d’impegno per rendercela al meglio. Poco convincente invece il Mandarino di Gianluca Breda, che mi è parso un po’ in difficoltà (entrare a freddo non è sempre facile).

Azer Rza-Zadà (basta giochi di parole sul suo nome…) deve cantare due semicrome sul MI e una minima, tenuta, sul LA acuto (Tu-ran-dot): ce l’ha fatta! Certo le migliori qualità le ha mostrate il suo fisico statuario, di cui il pubblico può ammirare il lato… C!

Oneste le prestazioni delle due ancelle: Barbara Rita Lavanan e Kjersti Ødegård.

Sempre bravamente all’altezza il coro di Bruno Casoni, tanto nei grandi come nei piccoli.

Alla fine, successo pieno per uno spettacolo di livello decisamente superiore alla media scaligera. 

19 febbraio, 2014

Un Trovatore… trovatello?

 

No, il titolo non è farina del mio sacco, ma qualcuno lo coniò ai tempi di Muti, ultimo a proporre l’opera in Scala nell’ormai lontano 2000 (ma l’allestimento è proprio quello ripreso oggi).

 

Certo, se era un trovatello quello di Muti con Nucci-Frittoli-Urmana-Licitra (tutti al loro top, ai tempi) allora per quello di oggi si dovrebbe inventare un nomignolo davvero imbarazzante! Invece, dopo la prima semi-burrascosa (a leggere in giro) di sabato scorso, ieri la seconda è passata (come da cliché, che vuole la Scala trasformarsi in MET) non solo senza danni, ma in modo più che positivo. Però in un teatro che purtroppo presentava numerosi vuoti: brutto segno, trattandosi della riproposta dopo anni di uno dei titoli che dovrebbero immancabilmente fare cassetta.

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Come si sa, Salvadore Cammarano scrisse il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez. Protagonisti sono due uomini (il Conte di Luna e Manrico) che fino alla fine non sanno di essere fratelli e sono innamorati della stessa donna (Leonora). Ecco, riguardo i due personaggi il buon librettista si prese una non marginale libertà rispetto all’originale ispanico, come vado a spiegare.


Sappiamo che il Conte fa la parte del cattivone: viene risparmiato da Manrico in un duello rusticano (a proposito di Leonora) e per tutta… riconoscenza più tardi lo ferisce quasi mortalmente in battaglia; poi vuole conquistare Leonora - che non lo ama affatto - a tutti i costi e con tutti i mezzi, proprio come fosse un oggetto (Leonora è mia!) Ergo gli viene affibbiata, secondo i sacri crismi del melodramma, la tessitura vocale di baritono. A Manrico – buono, disinteressato, amorevole e soprattutto… riamato da Leonora (soprano) – tocca ovviamente, secondo gli stereotipi della lirica, la voce di tenore.

Ne consegue che il Conte (laido, protervo e libidinoso) deve apparire anche piuttosto attempato, se non proprio vecchio; Manrico (puro, eroico e idealista) giovine. E infatti il libretto di Cammarano ci conferma che il Conte è il fratello maggiore; infatti Ferrando racconta, proprio all’inizio della prima parte, le vicende dei due fratelli ed esclama: fida nutrice del secondo nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena (mezzosoprano) per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli.

Bene, qual è la libertà che si è preso Cammarano? Semplice: invertire l’età dei due personaggi! In Gutiérrez Manrique è infatti il maggiore, e Nuño (il Conte) è più giovane di due anni. Racconta infatti Jimeno: Don Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma imponeva persino di falsificare i certificati di nascita dei protagonisti!

E anche di addolcire certe …ehm, spigolosità del linguaggio di Gutiérrez: nelle ultimissime battute del cui dramma Azucena grida al Conte: él es... tu hermano, imbécil!  
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Ora vediamo come mi è parsa la recita di ieri.


Maria Agresta si conferma cantante di gran talento: una Leonora convincente, proprio in virtù della sua voce, che non è da soprano drammatico spinto, e quindi è aderente a questo personaggio verdiano, lontano assai dalle Abigaille e consimili. Piccola pecca la scarsa penetrazione (negli ampi spazi scaligeri) del registro basso.   

 

Ekaterina Semenchuk mi è parsa musicalmente un po’ troppo… zingarella (smile!) Nel senso di non avere un chiaro indirizzo di casa, quanto ad approccio interpretativo. Però la voce c’è, e tanta: andrà (se lei lo vorrà e saprà fare) meglio coltivata.

 

Marcelo Álvarez si è difeso con mestiere, distribuendo bene le sue (non esuberanti) energie per arrivare sano e salvo alla fine. (Mi chiedo ancora perché, per le parti da eseguire fuori scena - qui sono due - il cantante venga seppellito chissà dove, cosicchè la voce pare arrivi dall’aldilà…) Quanto alla pira, anche lui ha scelto la soluzione (relativamente) più conservativa: intanto si è scontato la ripetizione, poi non volendo rinunciare a far colpo sul pubblico, con lo sparo della tonica finale (invece di fermarsi, come scrive Verdi, alla più comoda dominante) e nel contempo evitare figuracce (il DO è pur sempre un azzardo…) è prudentemente degradato sul SI, come del resto hanno fatto e fanno spesso anche i tenori più titolati. Per curiosità, ecco dove si trova il bivio che porta o al DO o al SI:

Se il tenore, sul fi-glio, invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema agli orecchi dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa…

Franco Vassallo così e così: chissà, forse per cercare di conquistare Leonora, lui prova a cantare come… Manrico (stra-smile!) Quello che ne esce fuori è un Luna…tico (!)

Chi ha fatto la sua bella figura (ma pochi avevano dubbi, data la caratura del basso coreano) è Kwangchul Youn: un Ferrando assolutamente di alto livello.

Marzia Castellini (Ines) e Massimiliano Chiarolla (Ruiz) bene nelle loro piccole parti. Come sempre onesti comprimari l’immarcescibile Ernesto Panariello e Giuseppe Bellanca.

Il Coro di Casoni in queste opere si trova proprio a casa sua e non si è smentito.

Che dire di Daniele Rustioni? Che non sarà il migliore, ma nemmeno il peggiore del pacchetto di ggiovani che in questi ultimi anni la Scala ha deciso di mandare… allo sbaraglio. Per prudenza, si è portato sul leggìo una seconda bacchetta di scorta (non si sa mai…) Così anche lui – piuttosto contestato, così si racconta, alla prima – ha ricevuto, come tutti, solo applausi e pure qualche bravo!
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Quanto alla messinscena (di Hugo De Ana, a.d. 2000) è di quelle – magari fin troppo - serie e rassicuranti (qualità ai giorni nostri sempre meno reperibili in natura e sempre più vituperate dalle élite che contano).

In definitiva, un trovatello (smile!) non proprio disprezzabile.

01 maggio, 2013

Gomorra - di Verdi?! - alla Scala


Ieri quarta recita, in un teatro abbastanza affollato, della quarta opera verdiana della stagione del bicentone, che è proprio la sua prima: Oberto. Praticamente: un riciclaggio (smile! e ricordiamoci di questo termine quando si tratterà di disquisire sulla regìa di questa proposta scaligera).

Sì, perché Verdi, inopinatamente vincitore all’enalotto di allora (1839, la Scala che – in brache di tela in fatto di novità plausibili – aveva deciso di scommettere su un carneade debuttante rifiutato persino da teatri di provincia e insisterà ancora su di lui affidandogli persino una scimmiottatura di Rossini, prima dell’epocale Nabucco) non ebbe altra scelta che adattare una sua velleitaria – e abortita - opera-prima (Rocesterad un nuovo soggetto messo in mano ad un tizio più giovane di lui, ma di lui più navigato, che successivamente lo affiancherà in alcune delle opere che lanceranno Verdi nel gotha del melodramma: Temistocle Solera.

Oberto rappresenta propriamente quello che i crucchi chiamerebbero l’ur-Verdi (il Verdi primigenio) cioè il germoglio - non certo un frutto maturo! - di ciò che diventerà nel giro di pochi anni la sostanza caratteristica di tutta la produzione del maestro di Roncole: la creazione di drammi in musica, dove lo scavo psicologico dell’anima umana e la scolpitura in suoni dei sentimenti e delle passioni si inseriscono all’interno della rappresentazione di grandi (o pretesi-grandi) scenari storici (o pseudo-storici).

Ora, l’estetica dell’epoca di Verdi imponeva tassativamente la nobiltà del testo e, soprattutto, della musica, anche e più che mai laddove il soggetto dell’opera fosse di carattere crudo, o presentasse componenti di violenza, o scene cruente, o personaggi sgradevoli se non addirittura spregevoli. E quindi, se il compito della produzione artistica era (come in fondo dovrebbe essere, per distinguersi da quella documentaristica) la poetizzazione dei soggetti, ne consegue che tutto - testo, musica e ambientazione scenica - dovesse sottostare a regole ben precise.

E infatti, in Oberto, Solera e Verdi tendono a presentarci in modo poetico anche gli aspetti più crudi di vicenda e protagonisti: dimore lussuose (Magnifica sala nel castello di Ezzelino) anche se di proprietà di gente poco raccomandabile; cavalieri, dame e vassalli, magari coinvolti in trame e faide non propriamente edificanti, che tuttavia cantano versi come: Qual d’Eugania sulle spalle nivea falda, hai puro il cor…

Lo sbifido Riccardo di Salinguerra (un nome, un programma!) facendo il suo ingresso in scena in mezzo ad una folla festante per le sue prossime nozze, così esprime il suo odio verso i nemici: Già parmi udire il fremito degl’invidi nemici. Le balde lor cervici prostrate al suol vedrò. Il senso non è certo rassicurante, ma la forma, accipicchia, è aulica per davvero; e la musica? una vispa cabaletta, Allegro brillante, in SOL maggiore:


Insomma, il cattivone mica sbraita - magari su truci accordi dissonanti di tutta l’orchestra - a quei brutti figli di puttana gli faccio un buco in testa…, accompagnato da compari che gridano: e fagliene pure due, a ‘sti fetentissimi cornuti…   

Prendiamo poi un fatto di sangue, la morte del protagonista; essa ci viene notificata da una musica in Allegro agitato, MI minore, sulla quale il coro maschile canta versi come Nella selva ei giace esangue:

Di sicuro: non dal grido sguaiato di una donna che vocifera: Hanno ammazzato compare Oberto!

Fu solo a partire dal verismo (50 anni dopo) che i canoni estetici cominciarono a mutare – in biunivoca e reciproca relazione di causa-effetto con l’evolvere dei gusti e dell’attitudine del pubblico – contribuendo a portare sulle scene soggetti, personaggi, linguaggio e ambienti direttamente mutuati dalla realtà contemporanea. E di conseguenza spingendo gli autori (di testi e musica) e i responsabili degli allestimenti a trovare nuovi e appropriati strumenti di espressione e di presentazione, tagliati su misura della nuova offerta artistica.

Nei  primi decenni del ‘900 l’esempio più fulgido di queste tendenze sarà Wozzeck, nato quasi un secolo dopo l’Oberto, dove anche la musica dovrà radicalmente adeguarsi ai nuovi canoni estetici, trovando nella cassetta degli attrezzi resasi nel frattempo disponibile (affrancamento più o meno marcato dalla tonalità e/o serialismo) i mezzi più congrui per supportarli.

Tornando ad Oberto in persona, varrà la pena di constatare come egli venga ammazzato non già da una banda di brigatisti che ricattano lo Stato, né da sicari di una cosca camorristica rivale, ma da Riccardo in un duello (che l’uccisore vorrebbe persino evitare) per motivi d’onore (Io venni in questi lidi vindice dell’onor! canta il vecchio padre): ecco, è l’onore il fulcro di tutto il dramma, null’altro; non il potere (alla cui perdita Oberto è ormai rassegnato), non la politica, non l’interesse, solo l’onore di un padre, infangato da Riccardo che ha sedotta e poi abbandonata sua figlia Leonora.

E in effetti va detto e sottolineato come l’obiettivo di Verdi, dei suoi librettisti e degli impresari teatrali che mettevano in scena le sue opere non fosse certo quello di denunciare la violenza o l'incultura della società contemporanea, attraverso l’impiego – a mo’ di allegoria – di storie medievali. E nemmeno - come si continua a mistificare - di fare propaganda risorgimentale. Molto più semplicemente, l’obiettivo era quello di fare – e offrire al pubblico – del teatro musicale di alto livello artistico ed estetico, secondo i canoni e i parametri dell’epoca (e casomai, di ricavarne lauti guadagni, cosa di cui Verdi mai si vergognò). Che poi il pubblico decidesse di vederci messaggi risorgimentali o di condanna di certi fatti di attualità, piuttosto che lo specchio dei mali della società contemporanea, liberissimo di farlo; ma non era questo il fine ultimo, né il primo, e menchemeno l'unico, di quelle imprese. (Martone è avvertito…)
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Stabilita la prospettiva storica ed estetica in cui si inserisce l’Oberto, non si  può non dissentire quindi in modo radicale dall’impostazione che il regista (confondendo evidentemente Verdi con Leoncavallo e Mascagni - da lui dignitosamente rappresentati al Piermarini poco tempo fa - se non addirittura con Berg) ha deciso di dare al suo allestimento - portato in epoca a noi contemporanea, fra camorra e mafia - e allo stesso tempo non si può non dissentire dal suo intento maieutico, del tutto estraneo allo scenario artistico-estetico dell’opera da rappresentare.   

Si dirà:
a. ma in fondo in Oberto ci sono due signorotti poco raccomandabili e le rispettive fazioni (con sedi a Bassano e SanBonifacio) e Martone ci mostra due cosche camorristiche (o mafiose, fa lo stesso) in lotta senza quartiere per il controllo del territorio (Casal di Principe e Scampìa, o Corleone e Alcamo, fa lo stesso): quindi fin qui ci siamo.
b. poi in Oberto c’è la questione d’onore, che in Sicilia (e un po’ meno in Campania) è uno dei motori della nostra inciviltà: e anche qui il conto torna.
c. in Oberto le donne sono trattate più o meno come ad Arcore (smile!) dove ha la residenza un caimano a nome Berluscardo (stra-smile!) uso ad avere fior di mafiosi alle sue dipendenze.

Quindi: tutto sembrerebbe quadrare, quasi alla perfezione!  

E invece no, ahilui (Martone) e ahinoi. Sì, perché il problema non è se la trama del libretto venga più o meno scimmiottata dall’allestimento. Eh no, il problema della genialoide trovata del regista è che lo spirito (e in buona misura anche la lettera) dell’Oberto nulla ha a che fare con la sua trasposizione (ai nostri tempi, ma non è questo il punto) nel mondo delle associazioni a delinquere.

Quali non erano, ma proprio per nulla – e non solo nel libretto di Solera, ma anche nella realtà storica - le famiglie o le oligarchie che sostenevano gli Oberto e i Riccardo, personaggi di certo non eletti democraticamente, anzi propriamente dei tiranni, ma pur sempre rappresentanti le istituzioni (per quanto discutibili, ai nostri occhi) di quel tempo, e legittimati da uno dei due massimi poteri allora costituiti: quello imperiale e/o quello papale. Quindi altro da chi, come oggigiorno mafia e camorra (e brigate di vario colore) alle Istituzioni si oppone.

Questo per quanto attiene il piano ideologico. E su quello materiale? Di male in peggio: è un mondo, quello di Martone, dove sorgono volgari quanto pacchiane abitazioni-bunker (scenografie da Scarface, altro che magnifica sala!) situate in vicinanza di discariche a cielo aperto (altro che la deliziosa campagna!) Dove persino l’abbigliamento dei protagonisti, oltre che delle masse, è indice di totale incultura e degrado.

E così vediamo Riccardo, abbigliato come un tipico esemplare di boss della camorra, che entra in scena in vestaglia da camera damascata cantando Questi plausi a me d’intorno, questi voti io devo a lei, a lei sola che m’invita alle gioie dell’amor… un’ardente cavatina in SI maggiore! E attorno a lui, invece di Cavalieri, Dame e Vassalli, chi vediamo? Volgarissimi esemplari di fauna feccia criminale, con ampio seguito di zoccole, che però noi ascoltiamo cantare  Oh felici! omai compita è la speme d’ogni cor, su una musica che anticipa nientemeno che il Libiamo… E gli stessi loschi figuri, verso la fine dell’opera, così si esprimeranno: Son compagne in questa vita la sventura e la virtù… e poi ancora: Ah, sventura! e dalla Croce sol di pace Iddio parlò! Fatto sordo a quella voce, l’uom nel sangue s’allegrò! Camorristi? Picciotti? Ohibò.

Come ciliegina (marcia) sulla torta (rancida) troviamo in questo allestimento stupidi quanto gratuiti, nonchè irrispettosi, riferimenti alle vittime degli anni di piombo (Oberto = Aldo Moro? roba da manicomio!) uomini che sacrificarono la vita per motivi ben diversi da un  malinteso onore…   

Insomma: di poesia, nemmeno l’ombra! Solo volgare e crudo realismo, e indebiti e beceri riferimenti a fenomeni tipici della nostra società: cosa che contravviene in-toto precisamente ai princìpi fondatori dell’opera, stravolgendone completamente la natura, e quindi presentando al pubblico un oggetto del tutto diverso dall’originale. Ecco: un prodotto adulterato spacciato per autentico, esattamente come vendere un Modigliani falso (si rischia la galera, o sbaglio?)

Intendiamoci, il film ideato dal regista – non abbiamo alcuna difficoltà a dargliene atto - è in sé e per sé di alto livello e di grande attualità (per quanto un Gomorra sia già stato prodotto, da altri). Peccato che soffra di un clamoroso difetto, che ne compromette irrimediabilmente il valore: la scelta dei testi e, soprattutto, della colonna sonora!     
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Purtroppo la lunaticità della regìa si ripercuote inevitabilmente anche sulla percezione che uno spettatore appena-appena non sprovveduto ha della prestazione musicale degli interpreti (non dico direttamente sulla sua qualità intrinseca). Interpreti che solo per questo dovrebbero chiedere i danni a Martone…

Sì perché vedere Fabio Sartori che, dopo aver ucciso Oberto in regolare duello – quasi impostogli dal vecchio! – arriva vestendo i panni di un sicario della camorra, con tanto di mitra, per poi intonare un’accorata romanza in SIb maggiore - Ciel pietoso, ciel clemente, se pregarti ancor mi lice, deh! perdona un infelice, tu mi salva per pietà – ti mette un tal disagio addosso, che la stonatura della scena finisce per farti sembrare stonato pure il tenore! Accidenti al regista! Peccato, perché la prestazione del nostro è stata tutt’altro che malvagia, in una parte per nulla facile. Ha anche rispettato alla lettera la partitura come quando, nella cavatina d’esordio, ha cantato tranquillamente il SI acuto (sul m’invita) e poi è rimasto sul FA# in chiusura.

Maria Agresta è una Leonora che convince a metà: voce sempre ben impostata, nelle volate virtuosistiche, come nei più nobili cantabili. Ma la parte – quasi da mezzosoprano – la mette in seria difficoltà nell’ottava bassa (non parliamo del LA sotto il rigo) dove arranca o… fa il pesce. Per lei comunque una calorosa accoglienza. Qui dobbiamo anche ringraziare Martone per averci chiarito in modo inequivocabile, mostrandocela con un gran pancione, ciò che noi poveri pirla non avevamo minimamente sospettato dal libretto di Solera… 

Il protagonista nel ruolo del titolo è Michele Pertusi, che ha confermato la sua classe e la sua grande sicurezza: per me, il migliore della compagnia.  

Sonia Ganassi impersona Cuniza, per me, senza infamia e senza lode (anche se il pubblico le tributa solo le lodi…): anche qui temo di essere negativamente influenzato dall’esteriorità (leggi: come viene acconciata e fatta recitare dal regista) poiché invece di una nobildonna sensibile e magn-anima, sembra la zoccola di un magn-accia, e chi mi dice che pure il suo canto non si sia fatto trascinare nella… discarica in cui Martone ha collocato la vicenda.

L’Imelda di José Maria Lo Monaco ha dato il suo meritevole contributo ai numeri di insieme in cui è quasi esclusivamente impegnata.

Molto bene il coro di Bruno Casoni, che ha un impegno quantitativamente esteso, ma – credo io – relativamente facile.

Al mio conterraneo Riccardo Frizza va il mio personale plauso (pochi invece ne ha avuti dal pubblico) se non altro per aver evitato di trasformare l’Oberto in Ernani o in Boccanegra. Insomma, ci ha dignitosamente restituito il Verdi esordiente, con tutte le sue velleità e i suoi limiti, e questo in fin dei conti è ciò che si può chiedere ad un onesto concertatore.

Alla fine moderato successo, diciamo così, di stima, come ormai capita sempre più spesso in questa Scala piuttosto… appiattita (smile!)