Ieri
quarta recita, in un teatro abbastanza affollato, della quarta opera verdiana
della stagione del bicentone, che è
proprio la sua prima: Oberto. Praticamente: un
riciclaggio (smile! e ricordiamoci di
questo termine quando si tratterà di disquisire sulla regìa di questa proposta
scaligera).
Sì, perché Verdi, inopinatamente
vincitore all’enalotto di allora (1839,
la Scala che – in brache di tela in fatto di novità plausibili – aveva deciso
di scommettere su un carneade debuttante rifiutato persino da teatri di
provincia e insisterà ancora su di lui affidandogli
persino una scimmiottatura di Rossini, prima dell’epocale Nabucco) non ebbe altra scelta che adattare una sua velleitaria – e
abortita - opera-prima (Rocester) ad un
nuovo soggetto messo in mano ad un tizio più giovane di lui, ma di lui più navigato,
che successivamente lo affiancherà in alcune delle opere che lanceranno Verdi nel
gotha del melodramma: Temistocle Solera.
Oberto rappresenta propriamente quello
che i crucchi chiamerebbero l’ur-Verdi (il
Verdi primigenio) cioè il germoglio - non certo un frutto maturo! - di ciò che
diventerà nel giro di pochi anni la sostanza caratteristica
di tutta la produzione del maestro di Roncole: la creazione di drammi in musica, dove lo scavo
psicologico dell’anima umana e la scolpitura in suoni dei sentimenti e delle
passioni si inseriscono all’interno della rappresentazione di grandi (o
pretesi-grandi) scenari storici (o pseudo-storici).
Ora, l’estetica dell’epoca di Verdi imponeva tassativamente la nobiltà del testo e, soprattutto, della
musica, anche e più che mai laddove il soggetto dell’opera fosse di carattere crudo, o
presentasse componenti di violenza, o scene cruente, o personaggi sgradevoli se
non addirittura spregevoli. E quindi,
se il compito della produzione artistica
era (come in fondo dovrebbe essere, per distinguersi da quella documentaristica) la poetizzazione dei soggetti, ne consegue che
tutto - testo, musica e ambientazione scenica - dovesse sottostare a regole ben
precise.
E infatti,
in Oberto, Solera e Verdi tendono a presentarci in modo poetico anche gli
aspetti più crudi di vicenda e protagonisti: dimore lussuose (Magnifica sala nel castello di Ezzelino) anche se di proprietà di gente poco raccomandabile; cavalieri, dame e vassalli, magari coinvolti in trame e faide non propriamente edificanti, che tuttavia cantano versi come: Qual d’Eugania sulle spalle nivea falda, hai puro il cor…
Insomma, il cattivone mica sbraita - magari su truci accordi dissonanti di tutta l’orchestra - a quei brutti figli di puttana gli faccio un buco in testa…, accompagnato da compari che gridano: e fagliene pure due, a ‘sti fetentissimi cornuti…
Prendiamo poi un fatto di sangue, la morte del protagonista; essa ci viene notificata da una musica in Allegro agitato, MI minore, sulla quale il coro maschile canta versi come Nella selva ei giace esangue:
Di sicuro: non dal grido sguaiato di
una donna che vocifera: Hanno ammazzato compare Oberto!
Fu solo a partire dal verismo (50 anni dopo) che i
canoni estetici cominciarono a mutare – in biunivoca e reciproca relazione di
causa-effetto con l’evolvere dei gusti e dell’attitudine del pubblico – contribuendo
a portare sulle scene soggetti, personaggi, linguaggio e ambienti direttamente
mutuati dalla realtà contemporanea. E di conseguenza spingendo gli autori (di
testi e musica) e i responsabili degli allestimenti a trovare nuovi e
appropriati strumenti di espressione e di presentazione, tagliati su misura
della nuova offerta artistica.
Nei
primi decenni del ‘900 l’esempio più fulgido di queste tendenze sarà Wozzeck, nato quasi un secolo dopo
l’Oberto, dove anche la musica dovrà radicalmente
adeguarsi ai nuovi canoni estetici, trovando nella cassetta degli attrezzi
resasi nel frattempo disponibile (affrancamento più o meno marcato dalla
tonalità e/o serialismo) i mezzi più congrui per supportarli.
Tornando ad Oberto in persona, varrà
la pena di constatare come egli venga ammazzato non già da una banda di
brigatisti che ricattano lo Stato, né da sicari di una cosca camorristica
rivale, ma da Riccardo in un duello
(che l’uccisore vorrebbe persino evitare) per motivi d’onore (Io venni in questi
lidi vindice dell’onor! canta il vecchio padre): ecco, è l’onore il fulcro di tutto il dramma,
null’altro; non il potere (alla cui perdita Oberto è ormai rassegnato), non la
politica, non l’interesse, solo l’onore di un padre, infangato da Riccardo che
ha sedotta e poi abbandonata sua figlia Leonora.
E in effetti va detto e sottolineato
come l’obiettivo di Verdi, dei suoi librettisti e degli impresari teatrali che
mettevano in scena le sue opere non fosse certo quello di denunciare la
violenza o l'incultura della società contemporanea, attraverso l’impiego – a mo’ di allegoria
– di storie medievali. E nemmeno - come si continua a mistificare - di fare
propaganda risorgimentale. Molto più semplicemente, l’obiettivo era quello di
fare – e offrire al pubblico – del teatro musicale di alto livello artistico ed
estetico, secondo i canoni e i parametri
dell’epoca (e casomai, di ricavarne lauti guadagni, cosa di cui Verdi mai si
vergognò). Che poi il pubblico decidesse di vederci messaggi risorgimentali o
di condanna di certi fatti di attualità, piuttosto che lo specchio dei mali
della società contemporanea, liberissimo di farlo; ma non era questo il fine
ultimo, né il primo, e menchemeno l'unico, di quelle imprese. (Martone
è avvertito…)
___
Stabilita la
prospettiva storica ed estetica in cui si inserisce l’Oberto, non si può non dissentire quindi in modo radicale dall’impostazione
che il regista (confondendo evidentemente Verdi con Leoncavallo e Mascagni - da
lui dignitosamente rappresentati al Piermarini poco tempo fa - se non
addirittura con Berg) ha deciso di
dare al suo allestimento - portato in epoca a noi contemporanea, fra camorra e
mafia - e allo stesso tempo non si può non dissentire dal suo intento maieutico, del tutto estraneo allo
scenario artistico-estetico dell’opera da rappresentare.
Si dirà:
a. ma in fondo
in Oberto ci sono due signorotti poco raccomandabili e le rispettive fazioni
(con sedi a Bassano e SanBonifacio) e Martone ci mostra due cosche
camorristiche (o mafiose, fa lo stesso) in lotta senza quartiere per il controllo
del territorio (Casal di Principe e
Scampìa, o Corleone e Alcamo, fa lo stesso): quindi fin qui ci siamo.
b. poi in Oberto
c’è la questione d’onore, che in
Sicilia (e un po’ meno in Campania) è uno dei motori della nostra inciviltà:
e anche qui il conto torna.
c. in Oberto
le donne sono trattate più o meno come ad Arcore (smile!) dove ha la residenza un caimano a nome Berluscardo (stra-smile!) uso ad avere fior di mafiosi
alle sue dipendenze.
Quindi: tutto sembrerebbe
quadrare, quasi alla perfezione!
E invece no,
ahilui (Martone) e ahinoi. Sì, perché il problema non è se la trama del
libretto venga più o meno scimmiottata dall’allestimento. Eh no, il problema
della genialoide trovata del regista è che lo spirito (e in buona misura anche la lettera) dell’Oberto nulla ha a che fare con la sua trasposizione (ai
nostri tempi, ma non è questo il punto) nel mondo delle associazioni a delinquere.
Quali non erano, ma proprio per nulla – e non
solo nel libretto di Solera, ma anche nella realtà storica - le famiglie o le oligarchie
che sostenevano gli Oberto e i Riccardo, personaggi di certo non eletti
democraticamente, anzi propriamente dei tiranni, ma pur sempre rappresentanti
le istituzioni (per quanto
discutibili, ai nostri occhi) di quel tempo, e legittimati da uno dei due massimi poteri allora costituiti: quello
imperiale e/o quello papale. Quindi altro da chi, come oggigiorno
mafia e camorra (e brigate di vario
colore) alle Istituzioni si oppone.
Questo per
quanto attiene il piano ideologico. E
su quello materiale? Di male in
peggio: è un mondo, quello di Martone, dove sorgono volgari quanto pacchiane
abitazioni-bunker (scenografie da Scarface,
altro che magnifica
sala!) situate in vicinanza di discariche a cielo aperto (altro che
la deliziosa
campagna!) Dove persino l’abbigliamento dei protagonisti, oltre che delle
masse, è indice di totale incultura e degrado.
E così
vediamo Riccardo, abbigliato come un tipico esemplare di boss della camorra, che entra in scena in vestaglia da camera damascata
cantando Questi plausi a me d’intorno, questi voti io devo a
lei, a lei sola che m’invita alle gioie dell’amor… un’ardente cavatina in SI
maggiore! E attorno a lui, invece di Cavalieri,
Dame e Vassalli, chi vediamo? Volgarissimi
esemplari di fauna feccia criminale, con ampio seguito di zoccole, che
però noi ascoltiamo cantare Oh
felici! omai compita è la speme d’ogni cor, su una musica che anticipa nientemeno che il Libiamo… E gli stessi loschi figuri, verso la fine dell’opera,
così si esprimeranno: Son compagne in questa vita la sventura e la virtù…
e poi ancora: Ah,
sventura! e dalla Croce sol di pace Iddio parlò! Fatto sordo a quella voce,
l’uom nel sangue s’allegrò! Camorristi? Picciotti? Ohibò.
Come ciliegina (marcia) sulla torta (rancida) troviamo in questo
allestimento stupidi
quanto gratuiti, nonchè irrispettosi, riferimenti alle vittime degli anni di piombo (Oberto = Aldo Moro? roba da manicomio!) uomini che sacrificarono la
vita per motivi ben diversi da un malinteso onore…
Insomma: di poesia, nemmeno l’ombra! Solo volgare e
crudo realismo, e indebiti e beceri riferimenti a fenomeni tipici della nostra
società: cosa che contravviene in-toto precisamente ai princìpi fondatori
dell’opera, stravolgendone completamente la natura, e quindi presentando al
pubblico un oggetto del tutto diverso dall’originale. Ecco: un prodotto
adulterato spacciato per autentico, esattamente come vendere un Modigliani
falso (si rischia la galera, o sbaglio?)
Intendiamoci, il film ideato dal regista – non abbiamo alcuna difficoltà a dargliene
atto - è in sé e per sé di alto livello e di grande attualità (per quanto un Gomorra sia già stato prodotto, da
altri). Peccato che soffra di un clamoroso difetto, che ne compromette
irrimediabilmente il valore: la scelta dei testi e, soprattutto, della colonna sonora!
___
Purtroppo la lunaticità
della regìa si ripercuote inevitabilmente anche sulla percezione che uno
spettatore appena-appena non sprovveduto ha della prestazione musicale degli
interpreti (non dico direttamente sulla sua qualità intrinseca). Interpreti che
solo per questo dovrebbero chiedere i danni a Martone…
Sì perché
vedere Fabio Sartori che, dopo aver
ucciso Oberto in regolare duello – quasi impostogli dal vecchio! – arriva vestendo
i panni di un sicario della camorra, con tanto di mitra, per poi intonare un’accorata romanza in SIb maggiore - Ciel pietoso, ciel clemente, se pregarti ancor mi
lice, deh! perdona un infelice, tu mi salva per pietà – ti mette un tal disagio
addosso, che la stonatura della scena finisce per farti sembrare stonato pure
il tenore! Accidenti al regista! Peccato, perché la prestazione del nostro è
stata tutt’altro che malvagia, in una parte per nulla facile. Ha anche rispettato
alla lettera la partitura come quando, nella cavatina d’esordio, ha cantato tranquillamente
il SI acuto (sul m’invita)
e poi è rimasto sul FA# in chiusura.
Maria Agresta è una Leonora che convince a metà:
voce sempre ben impostata, nelle volate virtuosistiche, come nei più nobili
cantabili. Ma la parte – quasi da mezzosoprano – la mette in seria difficoltà nell’ottava
bassa (non parliamo del LA sotto il rigo) dove arranca o… fa il pesce. Per lei comunque
una calorosa accoglienza. Qui dobbiamo anche ringraziare Martone per averci
chiarito in modo inequivocabile, mostrandocela con un gran pancione, ciò che
noi poveri pirla non avevamo minimamente sospettato dal libretto di Solera…
Il
protagonista nel ruolo del titolo è Michele
Pertusi, che ha confermato la sua classe e la sua grande sicurezza: per me,
il migliore della compagnia.
Sonia Ganassi impersona Cuniza, per me,
senza infamia e senza lode (anche se il pubblico le tributa solo le lodi…):
anche qui temo di essere negativamente influenzato dall’esteriorità (leggi:
come viene acconciata e fatta recitare dal regista) poiché invece di una
nobildonna sensibile e magn-anima, sembra la zoccola di un magn-accia, e
chi mi dice che pure il suo canto non si sia fatto trascinare nella… discarica
in cui Martone ha collocato la vicenda.
L’Imelda di José Maria Lo Monaco ha dato il suo meritevole
contributo ai numeri di insieme in cui
è quasi esclusivamente impegnata.
Molto bene il coro
di Bruno Casoni, che ha un impegno quantitativamente
esteso, ma – credo io – relativamente facile.
Al mio conterraneo Riccardo Frizza va il mio personale
plauso (pochi invece ne ha avuti dal pubblico) se non altro per aver evitato di
trasformare l’Oberto in Ernani o in Boccanegra. Insomma, ci ha dignitosamente
restituito il Verdi esordiente, con tutte le sue velleità e i suoi limiti, e questo in fin dei conti è ciò che si può chiedere ad un
onesto concertatore.
Alla fine moderato successo, diciamo così, di stima, come ormai capita sempre più spesso in questa
Scala piuttosto… appiattita (smile!)
2 commenti:
Prossimamente, suggerisco il Rigoletto ambientato a Scampia, con Roberto Saviano come regista....
@mozart2006
Effettivamente lo scenario di camorra si presta splendidamente a rappresentare un sacco di melodrammi. Per restare al solo Verdi, dato che nell'80% delle sue opere ci sono sempre due personaggi - o popoli - in lotta fra loro, stai sicuro che la trasposizione nelle faide fra bande in Campania, Calabria o Sicilia calza sempre a pennello.
Per il Boccanegra non vedrei male anche la storica rivalità fra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti.
Ciao!
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