Il 14 maggio 1763 (era un sabato) Bologna inaugurava il suo
nuovo Publico Teatro (dell’architetto
Galli Bibiena) con una nuovissima
opera del sommo Christoph Willibald Gluck:
Il
trionfo di Clelia.
E martedi 14 maggio 2013 le note di
quest’opera quasi dimenticata (venne ripresa 12 anni fa dopo un oblio di più di
2 secoli…) sono tornate a risuonare dentro quello stesso ambiente, dove ieri
sera si è tenuta la terza
rappresentazione.
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I retroscena della lunga e complessa
trattativa che si instaurò fra Gluck e il Teatro per la definizione di tutti i
dettagli – artistici ed economici – dell’impresa portano alla scoperta di
aspetti curiosi e sorprendenti. Ad esempio, se oggi ci si lamenta della scarsa cultura musicale del pubblico, che sembrerebbe
apprezzare di più qualche effetto epidermicamente interessante, che non i
contenuti estetici ed artistici dell’opera che si rappresenta, 250 anni orsono
pare che le cose non stessero poi in modo tanto diverso. Come si deduce dal contenuto della seguente missiva inviata dal Conte Luigi Bevilacqua (uno degli emissari del Teatro bolognese)
all’Abbate Ludovico Preti che da
Vienna – dove si trovava come segretario del Nunzio - teneva i contatti fra
Gluck e Bologna in vista dell’ingaggio del compositore per onorare
l’avvenimento:
Insomma, già a quei tempi si
stigmatizzava una certa incultura, in fatto di estetica del teatro musicale, di
un pubblico che guardava più all’apparenza che alla sostanza, e i cui gusti tuttavia
si dovevano in tutti i modi assecondare. Giustamente un musicista serio come
Gluck intravedeva i risvolti negativi di tale atteggiamento di connivenza da
parte del Teatro, se è vero che personalmente avrebbe preferito musicare per
l’occasione l’Olimpiade (il cui
libretto poco o punto si prestava a divagazioni frivole) invece del Trionfo.
Ma a proposito di spettacolarità delle
rappresentazioni operistiche, era a quei tempi consuetudine intrattenere il pubblico,
durante gli intervalli fra gli atti, con intermezzi di balletto e ricche
coreografie, che nulla avevano a che fare con il contenuto dell’opera, a
partire proprio dalla musica, che era di autori diversi. A Bologna si
eseguirono due balletti di Augusto Hus
(coreografo al quale è incertamente attribuita anche la musica) aventi per
titolo Il riposo interrotto (soggetto
di carattere bucolico, movimentato da un duello rusticano fra due spasimanti di
un’avvenente pastorella) e Le fontane
incantate, ispirato all’Orlando
furioso, ambientato nei boschi delle Ardenne, dove si trovano a passare Rinaldo e Angelica che bevono alle sorgenti, rispettivamente, dell’odio e
dell’amore, finchè Cupido interviene
di persona per garantire il… lieto fine.
Lo spazio e il rilievo riservato sulle
locandine ai balli e ai loro protagonisti ed interpreti, oltre agli elementi di
spettacolarità degli allestimenti, testimoniano dell’estrema importanza che
essi rivestivano all’interno della rappresentazione, la quale diventava perciò
una specie di interminabile kermesse
mondana.
E così accadde probabilmente anche in
quell’occasione del 1763, che vide lo spettacolo nel suo complesso accolto assai
positivamente, ma la musica non
altrettanto, almeno a giudicare dalla reazione di tale Alfonso di Maniago, un Padre gesuita che così ne commentò la cerebralità, che ne comprometteva a suo
dire la popolarità:
Su Gluck allego
anche un paio di documenti tratti da Musica&Dossier:
il primo è un breve ritratto del compositore, fatto da Piero Mioli
e comparso sul numero di marzo del 1987; il secondo è uno stralcio dal dossier
di Sandro Cappelletto
sull’Opera del ‘700, pubblicato nel
numero di ottobre 1989.
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Il soggetto dell’opera, su testo di Pietro Metastasio - che venne musicato,
prima e dopo Gluck, da altri compositori, fra cui Hasse a Vienna, Mysliveček a Torino e Jommelli
a Lisbona – è ambientato nell’antica Roma, ai tempi immediatamente successivi al
contrastato dominio etrusco (508 a.C.) Precisamente quando Porsenna cinse d’assedio la città per abbatterne la Repubblica, e
restaurarvi la monarchia di
Tarquinio il Superbo, che un anno
prima era stato defenestrato e costretto all’esilio da Giunio Bruto, postosi alla testa della rivolta dei romani contro i
tiranni etruschi, innescata dallo stupro di Lucrezia
da parte del figlio del Re, Tarquinio Sestio.
Costui – assassinato poco dopo la cacciata da Roma - è il protagonista del dramma The Rape of Lucretia di Shakespeare (poi musicato da Britten) le cui vicende si svolgono nel
509 a.C. Tutte vicende che furono narrate abbastanza in dettaglio da autori latini (e
non solo) Tito Livio in primis.
Il Tito Tarquinio deuteragonista dell’opera di Metastasio-Gluck è invece un fratello che ha attitudini un po’ diverse da quelle di Sestio
(un tipo, quest'ultimo, assetato di femmine, e in particolare di donne virtuose, come Lucrezia, evidentemente prede più pregiate – perché più difficili
da conquistare – delle facili sgualdrinelle di cui poteva disporre in quantità
industriale). Lui stesso, nella prima scena dell’opera, ci tiene a precisare a Clelia di non essere (come) Sestio, ma di desiderarla
onestamente come consorte. In compenso però vedremo come non esiterà a mettere in atto una montagna
di inganni, pur di raggiungere il suo nobile (?) obiettivo.
Si noti che, mentre la
trama dello Stupro di Lucrezia (sia in Shakespeare che in Britten) è
sufficientemente fedele alle fonti (pseudo)storiche, questa di Metastasio è una
invenzione bella e buona, che fonde fantasticamente in un unico libretto fatti
e personaggi diversi e disgiunti. In particolare, a Tarquinio affianca come
protagonisti due personaggi romani diventati famosi – l’uno indipendentemente
dall’altra - per le imprese da loro compiute al tempo dell’assedio di Roma da
parte di Porsenna, imprese che vengono mostrate in scena nell’opera
(rispettivamente nel secondo e terzo atto): si tratta di Orazio (Coclite) che si oppose da solo ai nemici etruschi, impedendone
l’accesso al ponte Sublicio (da cui
avrebbero potuto entrare in Roma) il tempo necessario ai compagni alle sue
spalle per demolirlo, e raggiungendo poi a nuoto la riva romana; e di Clelia, una giovane ragazza della
nobiltà romana presa da Porsenna in ostaggio (in cambio di una tregua con i
romani assediati) che riuscì a fuggire dal campo etrusco ai piedi del Gianicolo,
guidando anche le compagne di cattività, con le quali poi attraversò il Tevere
a nuoto per riparare a Roma.
Ecco: Metastasio
si inventa e ci presenta Orazio come promesso sposo di Clelia, di cui però si è
invaghito (per l’appunto) Tarquinio, il quale ha contemporaneamente snobbato la
promessa sposa Larissa (figlia di
Porsenna) a sua volta innamorata di Mannio,
un principe di Veio. Insomma, addirittura due triangoli uniti dal comune vertice
Tarquinio! Il quale, come detto,
per raggiungere il suo obiettivo, non esita a prodursi in una serie
impressionante di menzogne, false promesse, inganni, macchinazioni e calunnie
ai danni di Orazio, indirettamente provocando i due atti di eroismo compiuti
dal medesimo Orazio e da Clelia.
Qui però – a
differenza del caso di Lucrezia - c’è il lieto fine (per la verità confermato
dagli storici): Porsenna perdona i romani, riconoscendo il loro valore, e
rinuncia per sempre alla conquista della città, mentre a Tarquinio, del quale
vengono finalmente smascherate tutte le ignobili trame, non resta che darsela a
gambe…
___
Nella produzione di Gluck il Trionfo arriva
pochissimo tempo dopo l’Orfeo, che
aveva segnato la svolta riformatrice del melodramma settecentesco, operata dal
compositore tedesco in combutta con il librettista Ranieri de’ Calzabigi e con la benedizione di Giacomo Durazzo, arrivato come diplomatico della Repubblica di Genova
in quel di Vienna e colà poi nominato Generalspektakeldirektor al Teatro di Corte. Riforma che ebbe come cardini: il passaggio dai
recitativi secchi (accompagnati solo dal
continuo) a quelli accompagnati (da parte dell’orchestra); lo
smagrimento dei puri virtuosismi vocali e un riavvicinamento al recitar cantando e alla valorizzazione degli
aspetti peculiari del dramma (con il conseguente
abbandono della struttura schematica delle arie)
e l’introduzione di brani d’insieme: duetti, terzetti, e soprattutto cori. Al confronto, il Trionfo appare – probabilmente a causa delle
circostanze extra-artistiche che la condizionarono, e del ritorno ai testi di
Metastasio – come un passo indietro rispetto all’Orfeo, un riflusso verso la
tradizione consolidata, anche se non vi mancano di certo aspetti innovativi.
(Gluck tornerà presto alla sua personale rivoluzione con Alceste.)
Ecco quindi
ancora i lunghissimi recitativi secchi,
ben 29 (9+11+9, nei tre atti) che solo in 8 occasioni (2+4+2) lasciano il passo
a quelli accompagnati. Ed ecco ancora
le classiche arie bi-strofiche tripartite:
A – B – da capo A (con piccole
varianti). Sono ben 18 (7+6+5, di
quattro versi a strofa, salvo la 4, la 8 e la 13, con tre). La tipica struttura
delle arie prevede una prima esposizione della prima strofa in una tonalità che
modula alla dominante; poi una ripetizione della prima strofa sulla tonalità che
parte dalla dominante e torna alla tonica. La seconda strofa – non ripetuta – è
abitualmente nella relativa minore della tonalità base. Poi – da capo - si riespone
la prima strofa.
Questi furono gli interpreti della prima bolognese:
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Come si può notare,
le parti di soprano e contralto dei personaggi maschili erano sostenute da… signori (già, era l’epoca dei castrati).
La distribuzione dei numeri prevede: per Orazio e Clelia 4 arie a testa (2+1+1) più il duetto; per Tarquinio, Larissa e Porsenna 3 (1+1+1) e per Mannio una (second’atto). Clelia-Larissa e Orazio-Mannio cantano il coro finale. Qui il libretto originale stampato in occasione della prima, con i testi delle arie evidenziati da riquadri.
L’organico orchestrale include, nei fiati: coppie di flauti, oboi, fagotti, corni e trombe; poi timpani, archi e cembalo. I violoncelli (salvo l’Overtura e l’Aria N°11) e i contrabbassi, oltre ad un fagotto e al cembalo, suonano solo la parte di continuo. Per le 28 rappresentazioni originali risultano essere stati impiegati complessivamente 58 orchestrali, il che fa supporre che la sezione archi fosse particolarmente nutrita.
La distribuzione dei numeri prevede: per Orazio e Clelia 4 arie a testa (2+1+1) più il duetto; per Tarquinio, Larissa e Porsenna 3 (1+1+1) e per Mannio una (second’atto). Clelia-Larissa e Orazio-Mannio cantano il coro finale. Qui il libretto originale stampato in occasione della prima, con i testi delle arie evidenziati da riquadri.
L’organico orchestrale include, nei fiati: coppie di flauti, oboi, fagotti, corni e trombe; poi timpani, archi e cembalo. I violoncelli (salvo l’Overtura e l’Aria N°11) e i contrabbassi, oltre ad un fagotto e al cembalo, suonano solo la parte di continuo. Per le 28 rappresentazioni originali risultano essere stati impiegati complessivamente 58 orchestrali, il che fa supporre che la sezione archi fosse particolarmente nutrita.
I tre atti
dell’opera comprendono in tutto 35 scene
(11+14+10) precedute dal
N°1
Overtura
in tre tempi: Moderato (introduzione,
4/4) e Allegro (3/4) in DO maggiore; Andante (2/4) in LA minore; Minuetto (3/4) in DO maggiore.
L’Allegro è in forma-sonata piuttosto
semplice: dopo un’introduzione viene esposto il primo tema in DO maggiore, che
poi modula alla dominante per la presentazione di un secondo tema, in SOL.
Segue direttamente la ripresa del primo tema, con relativa introduzione e poi
quella del secondo, accodatosi ora alla tonalità del primo; la cui introduzione
fa anche da chiusa.
L’Andante consta di due sezioni ripetute,
la prima che modula dal LA al MI minore; la seconda che compie il percorso
inverso, dal MI al LA minore. La melodia presentata è sempre la stessa, carica
di mestizia e di ansiosi fremiti allo stesso tempo.
Il Minuetto è strutturato su tre sezioni,
le prime due ripetute, che presentano il tema festoso e un suo controsoggetto;
la terza che serve da cadenza conclusiva.
I motivi
dell’Overtura non sono legati a temi dell’opera, ma le tre diverse parti
richiamano genericamente la regalità dello scenario, le vicende anche dolorose
che vi si svolgono, e il lieto fine che corona la vicenda.
N°2
Aria
Sì,
tacerò, se vuoi (Tarquinio): dopo che nella prima scena Tarquinio ha
invano cercato di far cadere le resistenze di Clelia, promettendole persino il
trono di Roma in cambio del suo amore, nella seconda scena arriva Larissa,
promessa sposa all’etrusco, il quale le si rivolge con fare ipocrita,
suscitandone lo sdegno. Zittito dalla figlia di Porsenna, Tarquinio intona
quest’aria in cui accetta di tacere, ma contemporaneamente esprime i suoi
sentimenti per Clelia. È un’aria dal carattere severo, che sottolinea
l’inquietudine che attanaglia l’animo di Tarquinio e la confessione del suo
struggimento per Clelia. Il tempo è Andante
(4/4) la tonalità va dal DO al SOL maggiore, al LA minore della seconda strofa.
L’accompagnamento è limitato agli archi alti.
N°3
Aria
Ah,
celar la bella face (Larissa): nella terza scena Larissa e Clelia si
sono confidate una parte dei rispettivi segreti. Clelia ha confermato le
pretese che Tarquinio ha su di lei; Larissa, nella sua aria, si lascia andare
ad ammettere di essere innamorata (chiunque capisce dal contesto che non sia
Tarquinio colui che la fa sospirare…) Un’aria la cui atmosfera non si discosta
molto da quella precedente di Tarquinio – anche nella struttura
dell’accompagnamento di soli violini e viole, oltre al continuo - con in più un
paio di momenti drammatici, di canto quasi declamato. Tempo Larghetto (3/4) tonalità fra il SOL e RE
maggiore, con seconda strofa in SI minore.
N°4
Aria
Resta, o
cara (Orazio): la quarta scena vede l’incontro tra Clelia e il
promesso sposo Orazio, arrivato per trattare con gli etruschi. Lei vorrebbe
fuggire, preoccupata dall’atteggiamento aggressivo di Tarquinio, mentre lui la
invita a restare, per non suscitare ritorsioni da parte di Porsenna. Dopo un
batti-e-ribatti, Clelia si convince della nobiltà patriottica degli intenti di
Orazio e della sincerità delle sue intenzioni, e decide di restare. Arriva
Mannio (quinta scena) a convocare Orazio presso Porsenna, così il romano canta
la sua aria, nella quale rincuora la giovane, invitandola a coniugare amor
patrio e fedeltà. L’aria è in tempo Maestoso,
RE e LA maggiore (la prima strofa, dove compaiono anche i corni, oltre agli archi) e
Andante, FA maggiore (la seconda). La
prima strofa (4/4) è ricca di quartine di semicrome che rendono il canto assai
agitato, come è logico sia, dato il testo; la seconda invece (3/4) è assai
riflessiva, laddove Orazio invita Clelia ad essere fiduciosa ed ottimista per
il futuro.
Recitativo
accompagnato Grazie, o dei protettori (Clelia):
avviatosi Orazio verso Porsenna, Clelia rimane per un po’ ancora con Mannio
(scena sesta) e gli rivela che Larissa non ama Tarquinio, ma… altri. Mannio
comincia quindi a sperare, ed offre a Clelia i suoi servigi (di indagatore su
Tarquinio). Nella settima scena ascoltiamo dapprima Clelia in uno dei pochi
recitativi accompagnati (Andante,
4/4) in cui la giovane ringrazia il cielo per aver riacquistato fiducia in se
stessa, in Orazio, in Roma, nel futuro. Vi sentiamo tutta la sua carica di
orgoglio, di dignità e di decisione. Il recitativo è accompagnato dagli archi
con piglio nervoso e note insistentemente ribattute, ad introdurre la
successiva
N°5
Aria
Tempeste
il mar minaccia (Clelia): la giovane romana la canta mescolandovi le
preoccupazioni per il presente e le speranze per il futuro. In tempo Allegro (3/4) ascoltiamo una lunga
introduzione in DO maggiore, dove oboi, fagotto e corni si uniscono agli archi
per evocare l’agitazione che pervade l’animo di Clelia, agitazione però mista
all’ottimismo che ormai si è fatto largo in lei. DO e SOL maggiore si scambiano
i ruoli, nella consueta ripetizione della prima strofa, caratterizzata da
lunghe volate del soprano. La seconda strofa, un poco più tranquilla nel pathos,
gravita in tonalità di LA minore.
N°6
Aria
Sai che
piegar si vede (Porsenna): l’ottava scena è dedicata alla
descrizione della trattativa di pace-guerra fra Porsenna ed Orazio. Il Re
etrusco è un ammiratore di Roma e dei romani, e vorrebbe una conquista…
condivisa (le larghe intese, già a quei
tempi!?) Ma Orazio è inamovibile: Roma vuole libertà o guerra. E qui il saggio
Porsenna cerca di convincere Orazio con una similitudine: fra l’arbustello
flessibile, che resiste anche alle tempeste, e la quercia tutta d’un pezzo, che
però da un uragano può essere sradicata. Questo è il succo dell’aria, un Andante in 4/4 alla breve, FA maggiore
(con modulazioni a modulazioni a DO e RE minore) dove udiamo, oltre agli archi, anche flauti
ed oboi, ad evocare turbini e folate di vento. Un’aria estremamente
impegnativa, dacchè il tenore è chiamato a continue volate di semicrome, oltre
ad alcune salite al DO acuto. L’aria ha una
struttura diversa dallo standard: le due strofe si succedono nello stesso ambito
tonale e manca il da-capo.
Recitativo
accompagnato Che crudel sacrifizio (Orazio e
Clelia): nella nona scena abbiamo assistito ad un drammatico incontro fra
Orazio e Tarquinio. Il principe etrusco ha fatto al nobile romano una proposta
tanto oscena, quanto ingannevole: tu mi lasci la tua Clelia, ed io ti lascio
Roma! E Orazio, che antepone il bene pubblico a quello privato (toh! proprio uguale
a un certo Berlusconi, smile!) si è
lasciato convincere. Nella decima scena lo ascoltiamo in questo recitativo
accompagnato, mentre si strugge al pensiero di come far digerire l’inciucio alla promessa sposa; e gli
archi ben sottolineano il suo stato d’animo, diciamo così, un po’ dissociato. Ora
Clelia lo raggiunge e si fa ragguagliare sull’esito (negativo) dell’incontro di
Orazio con Porsenna, dopodiché Orazio cerca (invano) di trovare le parole per
raccontarle dell’accordo con Tarquinio, come ascoltiamo nella successiva
N°7 Aria Saper ti basti, o cara (Orazio): siamo
in Adagio (3/4) MI bemolle maggiore
(e dominante SIb) con presenza dei corni la prima strofa; DO minore (soli archi)
la seconda. Un’aria stupenda, piena di struggimento e di calore che sgorgano da
un’anima profondamente innamorata, ma decisa al sacrificio dell’amore medesimo,
per una superiore causa.
N°8
Aria
Mille
dubbi mi destano nel petto (Clelia): siamo entrati nell’undicesima
ed ultima scena del primo atto e Clelia ha ben percepito dallo strano
comportamento di Orazio che lui le nasconde qualcosa. Ed esterna tutta la sua
ansia in quest’aria in Allegro (4/4)
DO maggiore (SOL maggiore), ancora con l’intervento dei corni. La prima strofa,
introdotta dall’orchestra che prepara il clima mosso, presenta una serie di
volate e picchiettature che sottolineano l’agitazione dell’anima di Clelia di
fronte al reticente atteggiamento dell’amato. La seconda (Andante non molto, 4/4 alla breve, DO minore) lascia spazio ad una
specie di rassegnazione al dolore che è piombato sulla giovane. Si può prendere
quest’aria come esempio del vecchio stile
dell’opera italiana, volto a valorizzare, oltre ogni contesto drammatico, l’abilità
del cantante:
Il secondo atto si apre con Tarquinio
che aspetta notizie da un messaggero, che finalmente arriva e gli conferma che
il piano per attaccare Roma di sorpresa è pronto e i suoi uomini stanno
ammassandosi verso il ponte Sublicio. Tarquinio scorge Orazio aggirarsi pensoso
e immagina che sia in procinto di comunicare il loro accordo a Clelia.
N°9 Aria Dei di Roma, ah perdonate (Orazio):
nella seconda scena il nobile romano è ancora alle prese con il suo interiore
conflitto (roma-amor, smile!) ed
esterna il suo cruccio con questa aria (Moderato,
3/4) introdotta e poi sostenuta dall’intera orchestra, compresi i fiati (trombe
escluse). La prima strofa è in tonalità FA maggiore; la seconda nella relativa
RE minore. Un’aria davvero straordinaria, di una semplicità e naturalezza
impareggiabili.
N°10 Duetto Sì, ti fido al tuo
gran core (Clelia e Orazio): Orazio sembra
deciso a rivelare finalmente a Clelia il suo accordo con Tarquinio, fiducioso
che il patriottismo della ragazza le farà… ingoiare il rospo. Ma ecco – terza
scena - Clelia sopraggiungere agitatissima, il che lascia sospettare Orazio che
lei abbia già scoperto tutto. Ma non è così, ciò che Clelia ha invece
accertato, grazie ad una soffiata di Mannio, è il proditorio piano di Tarquinio
per attaccare Roma. Orazio decide allora di sbarrare il passo agli etruschi al
ponte Sublicio. Clelia cerca di dissuaderlo, considerando l’impresa
impossibile, ma Orazio la convince che questo è l’unico mezzo per salvare Roma.
E così i due si congedano con questo duetto, un Andante in 4/4, in SOL maggiore (e RE maggiore) sostenuto anche da
oboi, fagotti e corni. I due dapprima dialogano, poi cantano per terze il loro duplice amore, quello
personale e quello di patria.
N°11
Aria
Sol del
Tebro in su la sponda (Porsenna): nella quarta scena assistiamo al
colloquio di Porsenna con la figlia, alla quale il padre chiede la ragione
della sua tristezza. Larissa gli rivela quindi di odiare Tarquinio, e Porsenna
comprende che ci sia di mezzo Mannio. In quel momento – scena quinta – arriva
Clelia, furibonda, a protestare col Re etrusco per l’inganno di Tarquinio.
Porsenna, ignaro e scettico, le chiede le prove di quanto sospetta, e lo fa
cantando quest’aria (Andante, 4/4) in
SI bemolle maggiore (e FA maggiore) accompagnata dai soli archi (qui anche dai violoncelli). La seconda strofa è nella relativa SOL minore. Un’aria assai
mossa, caratterizzata da frequenti volate di crome e semicrome.
N°12
Aria
Dico che
ingiusto sei (Larissa): nella sesta scena Larissa cerca a sua volta
di convincere Clelia dell’infondatezza delle sue accuse a Tarquinio,
ipotizzando che anche Mannio sia caduto in errore. Ma ecco che sopraggiunge
proprio lo spasimante di Larissa – scena settima – che conferma tutto,
rincarando la dose riguardo l’imminente pericolo per Roma. Clelia allora decide
di andare a difendere la sua città, mentre Larissa e Mannio, nella scena
ottava, recitano una specie di commedia degli equivoci, nessuno dei due
trovando il coraggio di rivelare all’altro il proprio amore. Così Larissa
esterna il suo cruccio in quest’aria (Andante
non tanto, 4/4) accompagnata dai soli archi, chiedendo a Mannio di non
odiarla, ma di non pretendere che lei lo ami. La prima strofa è in FA maggiore
(DO maggiore) e la seconda in RE minore.
N°13
Aria
Vorrei
che almen per gioco (Mannio): nella nona scena vediamo Mannio
sconsolato dopo l’incontro con Larissa, cantare la sua speranza che Larissa gli
dichiari il suo amore anche per scherzo, poiché il gioco si può col tempo
tramutare in affar serio (!?) L’aria, introdotta ed accompagnata anche da
flauti e corni, è un languido Andantino
in 3/4 in SOL maggiore. Entrambe le strofe (3 versi) sono esposte di seguito e
ripetute, con leggere variazioni; poi viene riesposta la prima strofa, seguita
da un postludio. Come detto, questa è l’unica aria riservata a Mannio.
N°14 Marcia:
la decima scena è occupata dalla prima parte dello scontro fra gli etruschi e
Orazio al ponte Sublicio. Dapprima gli etruschi si inoltrano sul ponte,
abbandonato dai guardiani romani, e udiamo questa marcia (tempo Maestoso, 4/4, RE maggiore) suonata da
tutta l’orchestra (trombe comprese). È in due sezioni ripetute, di sole 7
battute ciascuna: enfatica e solenne, con gran cipiglio.
Recitativo
accompagnato No, traditori, in ciel di Roma (Orazio):
Orazio, evidentemente già salito sul ponte in precedenza, affronta da solo gli
etruschi, e il suo canto minaccioso è sostenuto dagli archi con biscrome
ribattute.
N°15
Sinfonia: ecco la battaglia sul ponte, fra gli
etruschi e il solo Orazio, favorito evidentemente dalla strettezza della…
passerella, che gli consente di respingere i nemici. La sinfonia riprende lo
stesso ritmo della Marcia precedente, in tempo Presto (4/4, sempre RE maggiore). Sono due sezioni, rispettivamente
di 8 e 12 battute.
Recitativo
accompagnato Ecco il tempo, o Romani (Orazio):
accompagnato solo da secchi accordi degli archi, Orazio incita i suoi
compatrioti a distruggere il ponte alle sue spalle, per togliere al nemico
l’unica via di accesso a Roma.
Recitativo
accompagnato Dove, o codardi? (Tarquinio e
Orazio): siamo all’undicesima scena e l’introduzione tempestosa degli archi ci
testimonia dell’arrivo trafelato del principe etrusco. Il quale, accompagnato
ora solo dal continuo, ferma i suoi, ormai in rotta, costringendoli a tornare
all’assalto del ponte. Gli archi riprendono il loro accompagnamento agitato,
mentre Orazio rifiuta di dare ascolto ai suoi che gli chiedono di abbandonare
la posizione ed invece torna ad affrontare la seconda ondata di etruschi. I
romani incendiano e fanno a pezzi il ponte alle sue spalle, mentre l’orchestra
reitera per intero la Sinfonia (N°15).
Recitativo
accompagnato Ah da’ cardini suoi (Clelia): siamo
ora nella dodicesima scena e Clelia è arrivata sul posto, vede Orazio che ha
nuovamente respinto il nemico e che ora, distrutto il ponte, decide di
abbandonarlo… buttandosi in acqua per raggiungere la sponda romana, mentre la
povera Clelia rimane lì costernata e disperata.
N°16
Aria
Io
nemica? A torto il dici (Clelia): Tarquinio – tredicesima scena - se
la prende con la malasorte, ma già architetta un nuovo piano, incolpare Orazio
e i romani della rottura della tregua. Vede Clelia, un po’ risollevata dal
vedere Orazio sano e salvo sull’altra sponda, ed ancora cerca di convincerla ad
amarlo. Ma lei gli risponde per le rime con quest’aria, dove gli rinfaccia le
sue scelleratezze e lo svergogna da par suo. L’aria (4/4, tonalità FA) è assai
breve (45 battute in tutto): è in tempo Sostenuto
(prima strofa) e poi Più andante
(seconda strofa, dove Clelia fa i suoi secchi rimproveri a Tarquinio). L’incipit della prima strofa viene ripetuto, seguito
da un postludio orchestrale. Ecco, quest’aria può essere presa ad esempio del nuovo
corso che Gluck aveva aperto con Orfeo:
N°17 Aria Non speri onusto il pino (Tarquinio): nella quattordicesima, ed ultima scena dell’atto secondo, troviamo Tarquinio architettare il suo ennesimo piano scellerato, consistente nell’organizzare il rapimento di Clelia (all’uopo verga un foglio con gli ordini per un suo fedelissimo) e nel contempo convincere Porsenna della colpevolezza di Orazio e dei romani. Si rende perfettamente conto dei rischi che sta correndo, ma nell’aria che canta sembra parafrasare con poetici versi il motto chi non risica, non rosica. L’aria, introdotta e accompagnata anche da oboi e corni, è un Andante in 4/4. La prima strofa è al solito esposta nella tonalità base (LA maggiore) con modulazione alla dominante (MI maggiore) nella quale viene ripetuta, con ritorno al LA. Qui viene ancora ripetuta due volte, con variazioni, nella tonalità di base. La seconda strofa è in RE maggiore ed è seguita dalla ripresa in LA maggiore dell’introduzione e della prima strofa, con mutate colorature virtuosistiche. Un postludio conclude l’aria e l’atto.
N°17 Aria Non speri onusto il pino (Tarquinio): nella quattordicesima, ed ultima scena dell’atto secondo, troviamo Tarquinio architettare il suo ennesimo piano scellerato, consistente nell’organizzare il rapimento di Clelia (all’uopo verga un foglio con gli ordini per un suo fedelissimo) e nel contempo convincere Porsenna della colpevolezza di Orazio e dei romani. Si rende perfettamente conto dei rischi che sta correndo, ma nell’aria che canta sembra parafrasare con poetici versi il motto chi non risica, non rosica. L’aria, introdotta e accompagnata anche da oboi e corni, è un Andante in 4/4. La prima strofa è al solito esposta nella tonalità base (LA maggiore) con modulazione alla dominante (MI maggiore) nella quale viene ripetuta, con ritorno al LA. Qui viene ancora ripetuta due volte, con variazioni, nella tonalità di base. La seconda strofa è in RE maggiore ed è seguita dalla ripresa in LA maggiore dell’introduzione e della prima strofa, con mutate colorature virtuosistiche. Un postludio conclude l’aria e l’atto.
Il terzo
atto si apre, come il primo, nelle stanze del palazzo dove Clelia è
ospitata – in realtà come ostaggio – dagli etruschi. La giovane non si spiega
il comportamento di Re Porsenna – che non crede alle malefatte di Tarquinio – e
soprattutto di Larissa. Così canta la sua
N°18
Aria
Tanto
esposta alle sventure (Clelia): un’aria relativamente breve (senza
il da-capo, di 75 battute) dove l’accompagnamento è limitato agli archi e siamo
in tempo Moderato, 4/4 in LA maggiore.
La prima strofa modula a MI maggiore, da dove la seconda riparte per tornare al
LA, per cedere infine spazio alla prima.
Recitativo
accompagnato Eterni dei! (Clelia): invece di
Larissa arriva un emissario di Mannio, che consegna a Clelia un foglio. È
l’ordine del suo rapimento stilato da Tarquinio, che Mannio ha evidentemente
intercettato e glielo ha fatto recapitare (sarà la prova decisiva contro il
principe etrusco). Clelia vorrebbe fuggire, ma sopravviene Tarquinio. Nel recitativo
accompagnato (Presto, poiché è l’agitazione che imperversa nel suo animo) ascoltiamo
la giovane impegnata a trovare una via d’uscita per sfuggire al reprobo: per
sua fortuna i cancelli sono aperti e nei paraggi c’è miracolosamente un
cavallo, che lei impiegherà per scendere al Tevere, attraversarlo e riparare a
Roma.
N°19
Aria
Ah
ritorna età dell’oro (Larissa): nella seconda scena Tarquinio viene
raggiunto da Larissa, intenzionata a difendere Clelia dalle mire del principe.
Ma invece di Clelia trova il suo mantello e, scrutando in lontananza, addita a
Tarquinio la giovane romana che sta guadando il fiume. Larissa resta sola
(terza scena) e manifesta la sua preoccupazione per Clelia, che teme travolta
dai gorghi del fiume, e impreca contro il destino che non punisce i colpevoli.
Poi canta la sua aria (Tempo di Minoè,
3/4). La prima strofa è in SOL maggiore, modula a RE e riprende da lì per
tornare al SOL. La seconda strofa (dove agli archi si aggiunge il fagotto) è in
SOL minore e SIb maggiore, chiudendo ancora in SOL minore per preparare il
da-capo della prima.
N°20 Aria Spesso, sebben
l’affretta ragione (Porsenna): nella quarta scena
si incontrano Porsenna e Tarquinio. Il Re sembra convinto della colpevolezza
dei romani (e Tarquinio in ciò lo spalleggia) ma prova anche grande ammirazione
per i nemici; tuttavia ha deciso: sarà guerra contro Roma. La scena successiva
(quinta) vede l’arrivo di Mannio che annuncia un ambasciatore romano. Porsenna
si appresta a riceverlo e nella sua aria manifesta la volontà di essere duro e
intransigente. L’aria, introdotta e poi sostenuta dai soli archi, è in tempo Andante, 4/4 alla breve, LA maggiore,
andamento marziale. La prima strofa modula presto alla dominante MI maggiore.
Viene ripetuta, partendo dal MI per tornare al LA di partenza. La seconda
strofa è nella relativa minore (FA#) e presto chiude per lasciar spazio alla
ripetizione della prima.
N°21
Aria
Sin
questa selva oscura (Tarquinio): nella sesta scena troviamo Tarquinio
solo e quasi disperato: sente che ormai per lui sta arrivando il redde-rationem
e comincia a perdere fiducia in se stesso. Lo canta nella sua aria, Andante 4/4 alla breve, FA maggiore, con
introduzione e successivo sostegno dei soli archi. La prima strofa modula
rapidamente a DO maggiore, poi viene ripetuta e dal DO torna al FA, dove viene
ancora ripetuta e variata. La seconda strofa è in RE minore, poi la prima viene
canonicamente ripetuta.
Recitativo
accompagnato Violatrice Roma de’ giuramenti! (Orazio):
nella scena settima ritroviamo Porsenna in attesa dell’ambasciatore romano.
Tarquinio, sempre più intimorito, annuncia che si tratta nientemeno che di
Orazio! Porsenna, come sempre magnanimo, si appresta a dargli accoglienza
dignitosa. Così nell’ottava scena assistiamo allo scambio di accuse fra Orazio
e Porsenna (spalleggiato da Tarquinio) che si rimpallano la responsabilità
della rottura della tregua. Quando a Porsenna viene annunciata la fuga di
Clelia la situazione sembra precipitare per i romani, e a Orazio non resta che proclamare
la strenua volontà di Roma di resistere all’invasione. Lo fa dapprima nel recitativo
accompagnato, sostenuto da agitatissime semicrome degli archi, e poi nella successiva
N°22
Aria
De’
folgori di Giove (Orazio): con tutta la potenza dell’intera orchestra,
l’Allegro assai, 4/4, attacca nel luminoso
DO maggiore. La prima strofa, caratterizzata da lunghi arpeggi della voce, vira
al solito alla dominante SOL, poi nelle ripetizioni, variate, torna da SOL al DO.
La seconda strofa è in LA minore, che modula poi al MI per preparare la ripetizione
integrale della prima strofa.
___
Certo,
quest’opera non si può propriamente considerare un capolavoro, e la sua caduta
nel dimenticatoio dopo il successo delle prime rappresentazioni non è del tutto
immeritata. Ma resta comunque un bell’esempio di opera italiana, che cerca di sfruttare al meglio le caratteristiche
delle voci che nel ‘700 spopolavano, castrati in primis. Così si spiegano tutti
gli abbellimenti e i virtuosismi tecnici di cui è ricca, destinati ad esaltare
le qualità delle voci. Ma vi si trovano anche squarci delle nuove strade che
Gluck stava aprendo al teatro musicale.
Per il resto, la spropositata lunghezza dei recitativi secchi (quasi un’ora, circa un terzo della durata complessiva), la rigidità quasi maniacale (con poche eccezioni) della forma delle arie e l’assenza di numeri di insieme rischiano di renderla, a noi che veniamo da due secoli e mezzo di… evoluzione, piuttosto noiosa e stucchevole.
Devo dire subito però che l’allestimento di questa ripresa ha contribuito in buona misura a renderci l’opera più digeribile. Un allestimento, già presentato ad Atene e a Londra nel 2012, che è stato reso possibile attraverso un progetto europeo di TAO (Tutti All’Opera); l’incisione diretta da Giuseppe Sigismondi de Risio è ascoltabile integralmente (è anche accessibile direttamente da Youtube) anzi… di più, essendovi duplicata la parte finale del second’atto (circa 17 minuti, da 2h 24’ 00” – Sinfonia - al termine, 2h 40’ 50”). Oltre al Direttore, altri quattro (su sei) interpreti fanno parte del cast di questa edizione bolognese.
Si tratta di Mary-Ellen Nesi (Orazio); Burçu Uyar (Larissa); Irini Karaianni (Tarquinio) e Vassilis Kavayas (Porsenna). Ai quali si affiancano qui Maria Grazia Schiavo (la protagonista) e Daichi Fujiki (Mannio). Non saranno dei mostri sacri, ma in questo repertorio mi sentirei di accomunarli in un unico e sincero apprezzamento, insieme a quello per gli strumentisti del Comunale (41 in tutto) e al Direttore de Risio. Tutti accolti alla fine da grandi e meritate ovazioni.
Rispetto all’incisione citata, qui a Bologna c’è un drastico taglio dei recitativi (la durata totale dello spettacolo - strutturato in due tempi: primo atto e poi secondo+terzo - è di circa due ore e 15’, intervallo escluso). Il che elimina un po’ di parti noiose, anche se poi rischia di rendere l’intera trama più difficile da seguire per uno spettatore poco… preparato. Ma tutto sommato mi è parso un compromesso dignitoso, compreso lo spostamento di arie nel finale: quella di Tarquinio (Sin questa selva oscura) viene messa dopo quella di Orazio (De’ folgori di Giove) all’interno della scena conclusiva. Nella quale anche Porsenna, dopo la sua magnanima decisione, si unisce alle due coppie innamorate per cantare, anzi… cantarsi, l’epinicio che chiude l’opera.
La proposta di Nigel Lowery a prima vista potrebbe apparire cervellotica e strampalata, ma in realtà mi sembra animata da lodevoli intenzioni: evita, come ovvio, ogni grandiosità di cartapesta (quella per cui andavano matti nel ‘700) e quindi niente cavalli in carne ed ossa, nè il finto incendio di un ponticello, o la ridicola simulazione di guadi del Tevere; allo stesso tempo non inventa ambientazioni astruse, non tira in ballo Freud, non veste i personaggi con cappotti-ddr… e allora, che fa?
Ecco, semplicemente ci narra questa vicenda un po’ come immaginavamo la Storia di Roma noi bambini delle elementari, a sentirla raccontata dalla signora maestra e a guardare le figure sul sussidiario: il Re Porsenna (già l’onomatopea del nome incuteva timore!) che vuole soggiogare Roma; Orazio Coclite che da solo respinge eroicamente un intero esercito di etruschi; e poi Muzio Scevola che sfida Porsenna immergendo la mano nel braciere, e ancora gli Orazi e Curiazi, e così via fantasticando.
E la storia sembra infatti rappresentata in un teatrino scolastico, al saggio di fine anno, fra banchetti di scuola e scenografie di compensato (felicissima quella del ponte Sublicio fatto con scatoloni di cartone accatastati - su cui scorrono immagini animate degli scontri fra Orazio e i nemici - e poi buttati all’aria al momento opportuno). O dove il Tevere in piena è evocato semplicemente da un film che fa scorrere acqua sul pavimento; e il destriero di Clelia da un cavallino-giocattolo…
I personaggi stessi sono vestiti con costumi fantasiosi, quasi fossero maschere di carnevale, e le loro personalità evocate in modo efficace e pertinente da semplici posture o oggetti (come Larissa con la bambola di pezza o Porsenna sempre immerso in attività intellettuali).
Tirando le
somme: uno spettacolo piacevole e meritevole del consenso che (almeno ieri sera)
gli è stato tributato. Da un pubblico – ed ecco la nota davvero dolentissima – che
occupava forse la metà (alla fine anche meno) delle poltrone del Bibiena.
Per il resto, la spropositata lunghezza dei recitativi secchi (quasi un’ora, circa un terzo della durata complessiva), la rigidità quasi maniacale (con poche eccezioni) della forma delle arie e l’assenza di numeri di insieme rischiano di renderla, a noi che veniamo da due secoli e mezzo di… evoluzione, piuttosto noiosa e stucchevole.
Devo dire subito però che l’allestimento di questa ripresa ha contribuito in buona misura a renderci l’opera più digeribile. Un allestimento, già presentato ad Atene e a Londra nel 2012, che è stato reso possibile attraverso un progetto europeo di TAO (Tutti All’Opera); l’incisione diretta da Giuseppe Sigismondi de Risio è ascoltabile integralmente (è anche accessibile direttamente da Youtube) anzi… di più, essendovi duplicata la parte finale del second’atto (circa 17 minuti, da 2h 24’ 00” – Sinfonia - al termine, 2h 40’ 50”). Oltre al Direttore, altri quattro (su sei) interpreti fanno parte del cast di questa edizione bolognese.
Si tratta di Mary-Ellen Nesi (Orazio); Burçu Uyar (Larissa); Irini Karaianni (Tarquinio) e Vassilis Kavayas (Porsenna). Ai quali si affiancano qui Maria Grazia Schiavo (la protagonista) e Daichi Fujiki (Mannio). Non saranno dei mostri sacri, ma in questo repertorio mi sentirei di accomunarli in un unico e sincero apprezzamento, insieme a quello per gli strumentisti del Comunale (41 in tutto) e al Direttore de Risio. Tutti accolti alla fine da grandi e meritate ovazioni.
Rispetto all’incisione citata, qui a Bologna c’è un drastico taglio dei recitativi (la durata totale dello spettacolo - strutturato in due tempi: primo atto e poi secondo+terzo - è di circa due ore e 15’, intervallo escluso). Il che elimina un po’ di parti noiose, anche se poi rischia di rendere l’intera trama più difficile da seguire per uno spettatore poco… preparato. Ma tutto sommato mi è parso un compromesso dignitoso, compreso lo spostamento di arie nel finale: quella di Tarquinio (Sin questa selva oscura) viene messa dopo quella di Orazio (De’ folgori di Giove) all’interno della scena conclusiva. Nella quale anche Porsenna, dopo la sua magnanima decisione, si unisce alle due coppie innamorate per cantare, anzi… cantarsi, l’epinicio che chiude l’opera.
La proposta di Nigel Lowery a prima vista potrebbe apparire cervellotica e strampalata, ma in realtà mi sembra animata da lodevoli intenzioni: evita, come ovvio, ogni grandiosità di cartapesta (quella per cui andavano matti nel ‘700) e quindi niente cavalli in carne ed ossa, nè il finto incendio di un ponticello, o la ridicola simulazione di guadi del Tevere; allo stesso tempo non inventa ambientazioni astruse, non tira in ballo Freud, non veste i personaggi con cappotti-ddr… e allora, che fa?
Ecco, semplicemente ci narra questa vicenda un po’ come immaginavamo la Storia di Roma noi bambini delle elementari, a sentirla raccontata dalla signora maestra e a guardare le figure sul sussidiario: il Re Porsenna (già l’onomatopea del nome incuteva timore!) che vuole soggiogare Roma; Orazio Coclite che da solo respinge eroicamente un intero esercito di etruschi; e poi Muzio Scevola che sfida Porsenna immergendo la mano nel braciere, e ancora gli Orazi e Curiazi, e così via fantasticando.
E la storia sembra infatti rappresentata in un teatrino scolastico, al saggio di fine anno, fra banchetti di scuola e scenografie di compensato (felicissima quella del ponte Sublicio fatto con scatoloni di cartone accatastati - su cui scorrono immagini animate degli scontri fra Orazio e i nemici - e poi buttati all’aria al momento opportuno). O dove il Tevere in piena è evocato semplicemente da un film che fa scorrere acqua sul pavimento; e il destriero di Clelia da un cavallino-giocattolo…
I personaggi stessi sono vestiti con costumi fantasiosi, quasi fossero maschere di carnevale, e le loro personalità evocate in modo efficace e pertinente da semplici posture o oggetti (come Larissa con la bambola di pezza o Porsenna sempre immerso in attività intellettuali).
C’è anche qualche
accenno non troppo intrusivo agli aspetti più ideologici dell’opera: lo spirito
di sacrificio e l’anelito alla libertà, con tanto di proclamazione della superiorità
della ResPublica su tutti i totalitarismi.
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