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09 maggio, 2015

La Turandot di Chailly-Berio alla Scala

 

L’EXPO2015 ha regalato alla Scala un secondo SantAmbrogio (il 1° maggio persino il meteo si era allineato a dicembre!) e così ecco questa Turandot tutta nuova (almeno per il Piermarini) di cui ieri sera è andata in scena la terza delle otto rappresentazioni. (Qui la registrazione della prima).   

La (stagionata) novità di questa proposta consiste nel presentare - al posto di quello composto da Franco Alfano sotto la tutela di Toscanini, sempre criticato ma sempre eseguito in Scala (salvo alla… prima del ‘26!) - il finale di Luciano Berio, ormai vecchio anch'esso di 14 anni.

La mia (e non solo mia, direi) personale avversione alla pretesa di chiudere a tutti i costi l’opera secondo il libretto (e magari pure forzandolo, visto che lo stesso Puccini non si decideva a condividerne il finale) quando vi manca circa l’ultimo 10% di musica (di cui il compositore lasciò solo degli spizzichi e bocconi senza capo né coda) ho già manifestato nel post-scriptum di questo resoconto della penultima apparizione dell’opera in Scala, diretta da Gergiev, quindi qui mi limiterò ad integrare il concetto con qualche dettaglio in più.

Dirò subito che delle quattro versioni esistenti del finale posticcio-abusivo (rintracciabili in rete: 1. quella originale di Alfano; 2. quella tradizionalmente eseguita, e ulteriormente tagliata, come qui, di Alfano con i tagli chiesti da Toscanini ma con la chiusa del coro col Gloria sulle note di Vincerò; 3. quella di Berio; e 4. quella recente del cinese Hao Weiya – alle quali va aggiunta quella dell’americana Janet Maguire, mai eseguita) questa di Berio mi sembra perlomeno la più dignitosa, o la meno gratuita, anche grazie a qualche opportuno intervento sul libretto, a partire dall’espunzione del coro finale.

Insomma, a me pare che Alfano (imitato da Weiya molti anni dopo) tenda ad interpretare la scena finale come fosse quella del Siegfried: dove Brünnhilde inizialmente si nega al ragazzo, per poi cedere ai suoi focosi assalti e unirsi anche carnalmente a lui. Però in Wagner le premesse stanno agli antipodi rispetto alla Turandot! Brünnhilde ha apprezzato l’amore di Siegmund e Sieglinde fino al punto da perderci la… divinità; ha poi amato Siegfried fin dal suo concepimento; ha implorato Wotan di farla risvegliare dal Wälso; e ha subito manifestato la sua gioia nel riaprire gli occhi proprio su Siegfried. La sua iniziale ritrosia ad accoppiarsi con lui è tutta e solo freudiana: la paura - o meglio la tristezza, squisitamente femminile - legata alla prospettiva della perdita della verginità; non certo un pregiudizio idiota legato ad un fatto di cronaca nera di cui fu vittima un’ava nemmeno conosciuta. E alla fine è lei, liberamente e coscientemente, a concedersi al Wälso. Turandot invece è da sempre un pezzo di ghiaccio venefico; e tale rimane anche dopo aver assistito alla morte della povera Liù; il suo cedimento a Calaf è tutt’altro che spontaneo e convinto, anzi appare come conseguenza di un atto di molestia sessuale, per non chiamarlo di violenza carnale bella e buona!

Scena finale che Berio cerca invece di Tristan-izzare, seguendo un vago accenno lasciato da Puccini sui suoi confusi appunti. L’idea sarebbe anche supportata da una testimonianza indiretta (perché riferita da Leonardo Pinzauti) di Salvatore Orlando, cui il Maestro avrebbe suonato – occhio alla data – nel 1923 un finale dell’opera dal sapore tristaniano. Però risulta che Puccini – a settembre 1924, due mesi prima di morire – avesse suonato alcune idee del finale anche a Toscanini, che poi avallò quello tutt’altro che tristaniano di Alfano! (Insomma, ce n’è per tutti i gusti…)

Il programma di sala ci offre un interessante documento che finora era di non immediata accessibilità: si tratta dell’Appendice I del saggio di Marco Uvietta È l’ora della prova: un finale Puccini/Berio per Turandot, originariamente pubblicato nel 2002 in Studi Musicali. Questa Appendice riporta in dettaglio tutti gli interventi di Berio, che si caratterizzano per: tagli al testo e alle didascalie (corposi); aggiunte o modifiche al testo (minime); impiego di molti (23 su 30) degli schizzi lasciati da Puccini; utilizzo di frammenti musicali prelevati da altre parti dell’opera; inserimento di frammenti musicali alieni (Wagner, Mahler, Schönberg, oltre a Berio medesimo).

Il saggio di Uvietta presenta ed analizza i razionali che sono stati posti da Berio alla base della sua proposta. Lo scopo principale degli sforzi del completatore è di riuscire là dove l’Autore non aveva avuto modo (e/o tempo?) di arrivare: aggirare in sostanza lo scoglio insormontabile legato alla prosaica modalità di scongelamento della Principessa. Il cuore di tale tentativo è rappresentato proprio dall’Interludio orchestrale (dove compaiono anche le citazioni aliene) che Berio ha predisposto come colonna sonora alla scena dell’abbraccio di Calaf al corpo di (così la nuova didascalia!) Turandot. Orbene, mentre in Alfano quella scena passa alla velocità della luce, in Berio abbiamo ben 2’30” di musica (scusate la battuta sconcia: il tempo per una sveltina?) che dovrebbero evocare la trasformazione della Principessa da sbifida carogna in angelica creatura (!?) E per rendere la cosa plausibile, evitandole il successivo clamoroso voltafaccia, dopo che Calaf ha rivelato il suo nome, i versi di Turandot (So il tuo nome! Arbitra sono ormai del tuo destino! e fino a …la mia fronte ricinta di corona!) sono stati abilmente ma bellamente cassati.

Ma alla fine i nodi vengono al pettine: come diceva il calvissimo Ispettore Rock nel carosello della brillantina Linetti, togliendosi il cappello? Anch’io ho commesso un errore! Eh sì, anche Berio (e prima di lui Puccini, se davvero pensava al Tristan) ha preso una bella cantonata: come spiegare tristanianamente l’esternazione di Calaf (che permane nella versione beriana) È l’alba! E amor nasce col sole! ??? 

Insomma, come la si voglia prendere, siamo sempre lì, accanto a Puccini sul lettino dell’ospedale belga dove morirà: la personalità della protagonista, come emersa e consolidatasi fino a quel momento dell’opera (parole e musica) rende irrimediabilmente vano ogni tentativo di giustificarne la repentina conversione, e così anche Berio – del quale va incondizionatamente apprezzato lo spirito, oltre che il livello assoluto del contenuto musicale del suo completamento - purtroppo pretende l’impossibile, finendo con il contrabbandarci per Verklärung una volgare Vergewaltigung!  
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In questo allestimento è il regista Nikolaus Lehnhoff che cerca di far quadrare il cerchio del finale, naturalmente contravvenendo lo stesso libretto di Berio, che prevederebbe per i 150” dell’Interludio un altrettanto lungo abbraccio di Calaf a Turandot: invece il regista ci mostra la principessa, in preda a dubbi e angosce, vagare per il palcoscenico ritrovando prima il suo copricapo da spaventapasseri, poi il suo mantello piumato, quasi a voler con essi processare tutta la sua precedente esistenza, fino poi a raccogliere dalle mani di Calaf il pugnale con cui si è ammazzata Liù e minacciare di usarlo (contro lui o contro di sé? mistero)  per poi farlo cadere e gettarsi (ma senza eccessiva convinzione…) fra le braccia del Principe. Dopodiché, in assenza del trionfalistico coro finale, i due si allontanano insieme, ma in un’atmosfera strindberghiana (e al buio, altro che alba luminosa!) forse puniti e contriti entrambi per le loro (pur diverse) malefatte.

In sostanza: il regista cerca lodevolmente di assecondare al meglio la grande musica di Berio per restituire un minimo di plausibilità ad un finale che proprio non ne ha, e così il risultato – dal punto di vista del dramma - è comunque deludente, pur per ragioni opposte a quelle che rendono indigesto il completamento di Alfano.

Per il resto la regìa di Lehnhoff non disturba nessuno, dato che racconta la storia per filo e per segno, senza pretendere di aggiungervi (né togliervi) alcunché. Dalle scene di Raimund Bauer non c’è da rimanere a bocca aperta, anzi bisognerebbe suggerire allo scenografo di recarsi almeno una volta in loggione, per verificare ciò che della sua opera d’arte si vede di lassù: così sistemerebbe le cose in modo che di Turandot (Atto I) e dell’Imperatore (Atto II) si veda qualcosa di più delle… ciabatte! Belli i costumi della Andrea Schmidt-Futterer, con un calo di stile per la verità nei confronti dei tre poveri P(i-a-o)ng, scaduti a livello di… battistrada. Efficaci le luci di Duane Schuler e i movimenti coreografici di Denni Sayers.
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Va riconosciuta invece al prossimo Direttore Musicale scaligero la coerenza di approccio interpretativo dell’opera, anche rispetto al finale prescelto: pur senza stravolgerne le originarie caratteristiche, Chailly ci propone una Turandot dai tratti decisamente asciutti e scevra da compiacimenti a buon mercato. Un Puccini – e la cosa non è poi tanto campata in aria - allievo della seconda scuola di Vienna? Certo qualche decibel di troppo in un paio di occasioni ha messo a repentaglio i cantanti, ma in generale la sua è stata una concertazione pregevole.

La protagonista Nina Stemme tende pericolosamente a sforzare gli acuti, sfociando nell’urlo: però in tal modo riesce a farsi sempre sentire, anche sopra i fracassi dell’orchestra. Certo, Turandot non è Brünnhilde… e poi Berio non è Alfano, così la svedesina riesce, con molto mestiere, a farsi apprezzare.

Aleksandrs  Antonenko mostra voce discreta, non potentissima, con qualche vibrato sgradevole, arriva bene agli acuti e insomma fa il suo compitino con diligenza, senza destare grandi entusiasmi.

Brava come sempre Maria Agresta, che disegna una convincente Liù: a lei va la palma di migliore in campo (ma con quei concorrenti non le è stato difficile conquistarla).

Poco più che sufficiente il contributo di Alexander Tsymbalyuk, un Timur poco penetrante nel canto e poco efficace nel portamento scenico.

Dai tre… porcellini Michelin (smile!) luci ed ombre, con una menzione per Paolo Veccia, che almeno si fa sentire con facilità e non demerita con la sua casetta nell’Honan; i due tenori (Roberto Covatta e Blagoj Nakoski) fanno molto avanspettacolo e poco… canto!

L’Imperatore ha una parte circoscritta, ma Carlo Bosi ci si mette d’impegno per rendercela al meglio. Poco convincente invece il Mandarino di Gianluca Breda, che mi è parso un po’ in difficoltà (entrare a freddo non è sempre facile).

Azer Rza-Zadà (basta giochi di parole sul suo nome…) deve cantare due semicrome sul MI e una minima, tenuta, sul LA acuto (Tu-ran-dot): ce l’ha fatta! Certo le migliori qualità le ha mostrate il suo fisico statuario, di cui il pubblico può ammirare il lato… C!

Oneste le prestazioni delle due ancelle: Barbara Rita Lavanan e Kjersti Ødegård.

Sempre bravamente all’altezza il coro di Bruno Casoni, tanto nei grandi come nei piccoli.

Alla fine, successo pieno per uno spettacolo di livello decisamente superiore alla media scaligera. 

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