Ieri pomeriggio
seconda recita di The turn of the screw di Benjamin Britten al Maggio Musicale,
Teatro Goldoni, un ritrovo discreto – tipo club
londinese - per pochi (ma buoni?) intimi.
Comincio dalla
parte musicale, che a mio modesto avviso è stata quella più convincente:
innanzitutto per la prova dei 13 solisti
(proprio così) dell’Orchestra del Maggio, guidati dal violino di Yehezkel Yerushalmi e diretti con gran
cura dei dettagli da Jonathan Webb. Tutti insieme (compresa l’arpa traslocata in
palco di proscenio) hanno reso al meglio le atmosfere ora idilliache, molto più
spesso sinistre, che caratterizzano l’opera. Certamente favoriti anche dalle
dimensioni raccolte della buca e del teatro.
Fra le voci direi bene o benissimo tutte quelle femminili, che potrei
ordinare in classifica mettendo in testa l’Istitutrice Sara Hershkowitz, seguita dalla Miss Jessel di Yana Kleyn, dalla Flora di Rebecca
Leggett e dalla Mrs. Grose di Gabriella
Sborgi. I maschietti (si fa per dire) nel cast sono due: benissimo il
piccolo Miles, al secolo Theo Lally e
più che dignitoso (con quache riserva) John
Daszak, sdoppiatosi come consuetudine fra Prologo e Quint.
Per tutti un’accoglienza calorosa, concretizzatasi in parecchie chiamate
al proscenio.
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Più articolato il mio giudizio sullo spettacolo, che ha proposto cose
interessanti accanto ad altre francamente discutibili.
Come nel recente Flauto di
Bologna, anche qui si è fatto uso – da parte del regista Benedetto Sicca – di immagini tridimensionali proiettate su uno
schermo rettangolare collocato proprio al centro della scena, a far da parete
ad una torre stilizzata (sulla sommità della quale apparivano di volta in volta
personaggi del dramma, e non solo Quint). Però, a differenza di Bologna, dove
si è impiegata una tecnologia piuttosto antiquata (anaglifo, quella che contempla l’uso degli occhialini con le due
lenti colorate (blu e rosso, per semplificare) a Firenze Marco Farace (responsabile delle elaborazioni video) ha fatto uso
della tecnologia basata sulla polarizzazione
e sulle lenti polarizzate, tecnologia obiettivamente più efficace, oltre che
meno disturbante per la visione di tutto il resto di ciò che sta in scena (che
poi è la parte più importante dello spettacolo).
Peraltro anche qui ciò che viene proiettato in 3D ha pertinenza ed
efficacia piuttosto discutibile rispetto ai contenuti dell’opera: il treno che
porta l’Istitutrice a Bly, il cigno (o i cigni) di cui vedremo la (eccessiva)
rilevanza attribuitagli dal regista, corpi o volti o scritte più o meno
efficaci a sottolineare l’azione che si svolge sul palcoscenico.
Le scene di Maria Paola Di
Francesco sono assai spartane e in sostanza abbiamo il palcoscenico
suddiviso in tre sezioni: in basso, la parte anteriore è sempre vuota e lì vi
si muovono i personaggi in primo piano; nella parte posteriore, separata dalla
torre-schermo e da altri pannelli, vediamo ciò che contemporaneamente accade
altrove, rispetto all’azione in primo piano; la parte alta (la sommità della torre)
serve come detto per farvi apparire Quint (come da libretto) ma anche Jessel e
l’Istitutrice. In più anche un paio di palchi vengono impiegati per farvi
comparire i due fantasmi.
I costumi di Marco Piemontese
dovrebbero ricalcare quelli dell’epoca del racconto, ottocento avanzato.
Efficaci e sempre discrete le luci di Marco
Giusti.
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L’interpretazione di Sicca, come detto, è per me caratterizzata da luci
ed ombre. In generale il regista si è attenuto al libretto (insomma, non ha
inventato un’altra storia, ecco, salvo per il finale, come vedremo) ed anzi il
suo è spesso un approccio fin troppo didascalico, il che non è detto sia un
bene. Gratuito anche se efficace il mezzo spogliarello del Prologo, che entra
in camicia bianca (su pantaloni neri) e poi si toglie la camicia per indossarne
una nera (quella da fantasma di Quint) passatagli da… Miles. Poi, i due
fantasmi compaiono a fianco dei ragazzi già alla scena V (dove si dovrebbe
manifestare solo Quint); nel retroscena si vedono sempre (fin troppo) azioni
che dovrebbero soltanto essere immaginate, sulla base dei dialoghi (ad esempio, nella scena
VII del primo atto, con Flora e Isitutrice presso il laghetto, si vede sullo
sfondo Quint intrattenersi con Miles); peggio accade nella corrispondente scena,
sempre al lago, del second’atto, dove arriva anche Quint recando in braccio
Miles (!)
Ma queste in fin dei conti sono sottigliezze di poco conto. C’è invece
un’idea che il regista ha messo al centro della sua interpretazione, anzi,
propriamente, un simbolo. Ora, nella
prima scena del second’atto, quella dove i due fantasmi si ritrovano insieme, Jessel
subito rimprovera Quint per averla richiamata dai suoi sogni, e lui risponde:
sei tu che hai udito il terribile suono delle ali del cigno selvatico. Frase ad effetto, certamente, ma del tutto isolata:
mai più il riferimento al cigno tornerà nel testo della Piper. Bene, questo è
invece il simbolo che Sicca mentre al centro della sua concettualizzazione dell’opera.
Già nella seconda scena il cigno ci appare, rappresentato da un origami bianco, nelle mani dell’Istitutrice,
che ne fa dono a Miles (mentre non regala nulla a Flora…) D’ora in poi il cigno
è protagonista delle animazioni 3D, dove il suo collo si allunga fino a portare
il becco dell’animale sul… naso dello spettatore. Poi i cigni diventano due,
aggiungendosene uno nero (affibbiato a Jessel, che ne ha uno attaccato al suo vestito,
sulla spalla sinistra). I due cigni si vedono anche insieme in alcune animazioni
e una grossa piuma cade dall’alto al termine del primo atto.
Ma il colpo di scena (inutile dire che è un’invenzione
– peraltro non nuova in assoluto – del regista) arriva alla fine: nella scena
VII (al laghetto) l’Istitutrice arriva con in mano l’origami del cigno, poi
rimane lì, quasi inebetita e nella scena successiva (l’ultima) avviene il
fattaccio: Miles, proprio dopo aver pronunciato la fatidica frase Peter Quint, you devil!, e mentre Quint gli
dice addio, riconoscendo di avere fallito, invece di schiattare per colpo apoplettico
si getta fra le braccia del fantasma e pure della fantasmessa Jessel, arrivata
appositamente sul posto, e con loro se ne va quasi allegramente. La povera
Istitutrice pronuncia le sue ultime parole e scimmiotta la canzoncina (Malo) di
Miles trastullandosi con l’origami del cigno, mentre tornano pure Mrs.Grose e
Flora a portarsela via verso… il manicomio?
Bene, abbiamo capito che Sicca appartiene alla scuola di pensiero che
sostiene i fantasmi e le relative conseguenze essere una pura invenzione della
mente malata dell’Istitutrice. E quindi, visto l’epilogo, dobbiamo supporre che
anche il piccolo Miles sia un fantasma, ecco. E già che ci siamo, perché non
anche la stessa Istitutrice? Boh…
Insomma, Sicca falsa smaccatamente il finale per presentarci l‘Istitutrice
come colpevole e responsabile di ciò che è accaduto. Ma per insinuarci questo
dubbio - che tale dovrebbe restare - bastano ed avanzano il testo di Piper e la musica di Britten, senza
bisogno di aggiungervi o mutarci alcunchè.
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