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13 ottobre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°3


Anche laVerdi non poteva trascurare la ricorrenza dei 150 anni dalla morte di Rossini, così questo terzo concerto della stagione è incentrato su una delle opere non teatrali del genio pesarese, il grandioso Stabat Mater. E per l’occasione si è stabilito anche un sodalizio fra l’Orchestra e il Rossini Opera Festival, precisamente con l’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda”, la fucina di voci rossiniane creata e diretta (fino all’ultimo suo respiro!) dal venerabile maestro milanese che a Rossini ha dedicato l’intera sua esistenza. Della quale Accademia sono qui rappresentanti le voci soliste che - insieme al Coro di casa di Erina Gambarini (che festeggia i suoi primi vent’anni) e agli strumentisti guidati da Claus Peter Flor - danno vita alla serata.
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In un Auditorium preso d’assalto la serata è stata aperta dalla Trauer Symphonie (la n°44) dell’imparruccato - ma innovatore - Josephus Haydn, il quale tolse il disturbo proprio mentre un 17enne Gioachino stava per spiccare il volo verso la stratosfera... non prima però di aver approfondito gli studi delle opere di Mozart e, appunto, di Haydn, autore a sua volta di un sommo Stabat Mater (da qui l’appellativo di tedeschino affibbiato al ragazzo). A proposito di influenza di Mozart e Haydn su Rossini mi permetto di segnalare un acuto studio (una tesi di dottorato di laurea) di Federico Gon, che pochi mesi fa è stato ospite in Auditorium in veste di compositore... tardoromantico. 

L’accostamento di questa sinfonia con lo Stabat rossiniano ha quindi una valenza squisitamente musicale e non è certo da intendersi come omaggio funebre al grande Gioachino, cosa che si potrebbe arguire essendo stata la Sinfonia coloritamente quanto apocrifamente definita funebre... ma senza altro appiglio che il desiderio - espresso in tarda età dal compositore - di farne eseguire l’Adagio ai suoi funerali. Poichè per il resto poco o nulla si incontra nell’opera che richiami un mortorio, e la tonalità minore non basta a definire funebre un brano musicale (a nessuno viene in mente di affibbiare questo appellativo alla K550 di Mozart, per dire). Lo stesso Adagio è in tonalità maggiore, ed esprime serenità e pace, atmosfere che il vecchio Haydn si augurava evidentemente di trovare all’aldilà... ma a 35 anni di distanza dalla composizione di quella musica, partorita quando era 40enne nell’accogliente bambagia di Esterháza! 

Sinfonia, come detto, che contiene germi di innovazione rispetto agli standard classici settecenteschi, oltre a scelte piuttosto coraggiose, come il piano tonale che rimane costante per l’intera sinfonia, gravitando sempre sul MI minore e sulle due relative maggiori: MI e SOL. Tutti i movimenti sono sostanzialmente monotematici; il Menuetto è anticipato in seconda posizione, spostando quindi l’Adagio in terza. La compagine orchestrale è assai ridotta, al tempo Haydn faticava ad avere 20 strumentisti, quindi si tratta quasi di musica da camera
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Proviamo a seguire il brano come interpretato da Christopher Hogwood con la sua Academy of Ancient Music (diapason a 415 o giù di lì). 

L’Allegro con Brio è in MI minore (4/4) e si apre con l’esposizione del tema, che è costituito da due sezioni: la prima di carattere stentoreo, una sorta di motto di sole 4 battute e la seconda (8”) più cantabile, di 8 battute, che chiude sulla dominante SI. Il tema viene ripetuto (22”) ma in forma variata: alle 2 prime battute del motto segue (26”) una progressiva transizione di 5 battute verso la tonalità relativa di SOL maggiore, dove il motto (35”) è esposto dagli archi bassi, mentre il resto degli archi e gli oboi si sbizzariscono in veloci figurazioni di crome e semicrome. L’esposizione rimane in SOL maggiore, con riapparizione del tema (1’12”) seguita da una lunga cadenza che si chiude sul SI, dominante del MI con cui viene ripetuta (col canonico da-capo) l’esposizione (1’47”). 

Esposizione che si chiude (3’33”) per dar spazio allo sviluppo. Che si apre con il motto esposto dapprima in SI minore e poi (3’41”) in LA minore, seguito dalla sezione cantabile che sfocia in una modulazione (3’56”) a DO maggiore dove ricompaiono le veloci quartine di crome e semicrome degli archi, che modulano dapprima (4’14”) a RE maggiore e poi (4’22”) al SOL maggiore, per tornare infine al MI minore per la ripresa

Che inizia allorquando riudiamo (4’41”) il tema, motto più sezione cantabile che si amplia quasi fosse un nuovo sviluppo, ed è seguita (5’07”) dalle 5 battute di transizione e poi (5’16”) dalle folate dei violini. Le quali portano (5’28”) ad una ricomparsa del motto, cui segue un cadenza che sfuma sorprendentemente (5’50”) in un accordo di settima diminuita negli archi (RE#-FA#-LA-DO) con tanto di corona puntata

Inizia ora (5’54”) la coda, con il motto in MI minore negli archi bassi e viole, sommessamente contrappuntato in canone alla dominante dai violini. A 6’06” sono ancora le veloci figurazioni dei violini a portare il movimento alla conclusione (6’24”) Ma Haydn qui ci fa un bello scherzetto: mette il da-capo anche all’intera sezione sviluppo-ripresa-coda! Se lo si rispetta - come fa Hogwood - il primo tempo chiude a 9’16”

Il Menuetto (3/4, Allegretto) rimane nella tonalità di MI minore. Il suo tema (9’22”) occupa 16 battute ed è esposto a canone (ritardo di una battuta) da violini, poi celli-bassi (un’ottava sotto, da cui l’indicazione Canone in Diapason) e quindi viole, sfociando nella relativa SOL maggiore. Viene canonicamente ripetuto (9’40”). La seconda sezione (9’58”) ripropone il tema in SOL maggiore, ma subito torna a MI minore. Per spegnersi sulla dominante SI (10’15”). Ora troviamo un nuovo soggetto, variante del tema, che chiude la sezione (10’45”) da ripetersi.come la prima. Il Menuetto si conclude quindi a 11’33” 

Ecco il Trio in MI maggiore, con la sua prima sezione che chiude sulla dominante SI (11’46”). Sezione ripetuta e seguita poi (11’59”) dalla seconda, sempre in MI maggiore, fino a 12’17”, anch’essa ripetuta: il trio chiude quindi a 12’34”. Qui riprende il Menuetto, dove Hogwood (contrariamente alla prassi moderna) esegue le ripetizioni di entrambe le sezioni. Menuetto che chiude quindi a 14’42”

Passiamo ora (14’49”) al mirabile Adagio, 2/4 in MI maggiore, strutturato su due sezioni (entrambe da ripetersi). La prima inizia con un dolcissimo tema esposto dai violini con sordina, seguito (15’13”) da una sua variante tutta puntata, chiusa (15’34”) da un crescendo che porta la tonalità (15’46”) alla dominante SI maggiore, con il ritmo dettato da continue terzine, che chiudono questa sezione (16’45”) poi ripetuta fino a 18’38”

Ecco poi la seconda parte, che rimane inizialmente in SI maggiore per poi tornare perentoriamente (19’26”, intervento del corno) al MI maggiore, con il persistere delle terzine che portano (protagonista ancora il corno) alla chiusura della sezione (20’44”) che viene ripetuta fino a 22’53”

Il Finale (Presto, 4/4 alla breve, MI minore) è suddiviso in due sezioni e si apre (22’58”) con il tema principale, tutto in staccato e con ritmo concitato. Il tema viene ripreso subito (23’04”) un’ottava sopra, fino a raggiungere (23’12”) in forte la relativa SOL maggiore. A 23’50” il suono si dirada assai per il ritorno a MI minore, che conduce alla chiusa (23’56”) della prima sezione, che viene ripetuta (fino a 24’52”). 

La seconda sezione sviluppa il tema principale, in MI minore, con escursioni a SOL e MI maggiore (si fa notare il corno). Dopo una teatrale cadenza (26’03”) si arriva rapidamente alla conclusione (26’19”). Anche la seconda sezione prevede il da-capo
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laVerdi non eseguiva questa sinfonia da più di 11 anni. Flor è più ricco di Haydn e così, anche per meglio riempire lo spazio sonoro dell'Auditorium che dev'essere ben più vasto di quello delle sale di Esterháza, rimpolpa assai gli archi, disposti alla tedesca, con i violini secondi al proscenio.

Approccio del Direttore assai rispettoso della lettera della partitura (rigorosamente rispettati ed eseguiti tutti i da-capo!) e piuttosto lezioso, con qualche gigioneria corporea (mossette, ammiccamenti vari) esibita proprio nell’Adagio che il vecchio Haydn desiderava suonato al suo funerale! Ma va bene così, e il pubblico non ha lesinato applausi convinti.
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Ed eccoci allo Stabat, che è alla sua settima comparsa in stagioni de laVerdi (l’ultima meno di tre anni fa sempre con Flor sul podio in un Audiorium meno affollato). Invece al ROF è stato eseguito in ben 13 edizioni, a partire dal 1981, l’ultima nel 2017 (qui da me commentata) quando cantò Salome Jicia, originariamente scritturata per questo concerto, ma poi rimpiazzata da Aleksandra Sennikova.

Flor non ha cambiato una virgola rispetto alla precedente esecuzione per ciò che riguarda la disposizione degli strumenti e delle voci, con trombe e tromboni all’estrema destra, legni all’estrema sinistra e solisti a sinistra del podio.

Mentre il coro della Gambarini ha sciorinato le sue ottime qualità, i 4 solisti non hanno particolarmente brillato. Discreti il basso Roberto Lorenzi (cui manca però un pizzico in più di profondità) e il mezzo Valeria Girardello, buona intonazione e voce abbastanza corposa. Shanul Sharma ha una voce proprio piccola, anche se bene impostata; non ha però avuto difficoltà sul REb acuto del Cujus animam. La Sennikova, oltre alla vocina pigolante, mostra la corda negli acuti, dove il timbro diviene francamente sgradevole.

Ma a dispetto di ciò il successo è stato grande per tutti e il pubblico se n’è uscito in questa notte ancora tiepida con il sorriso sulle labbra.

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