Anche laVerdi non poteva
trascurare la ricorrenza dei 150 anni dalla morte di Rossini, così questo terzo
concerto della stagione è incentrato su una delle opere non teatrali del genio pesarese, il grandioso Stabat Mater.
E per l’occasione si è stabilito anche un sodalizio fra l’Orchestra e il Rossini Opera Festival, precisamente con
l’Accademia Rossiniana “Alberto Zedda”,
la fucina di voci rossiniane creata e diretta (fino all’ultimo suo respiro!)
dal venerabile maestro milanese che a Rossini ha dedicato l’intera sua
esistenza. Della quale Accademia sono qui rappresentanti le voci soliste che -
insieme al Coro di casa di Erina
Gambarini (che festeggia i suoi primi vent’anni) e agli strumentisti
guidati da Claus Peter Flor - danno
vita alla serata.
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In un Auditorium preso d’assalto la serata è stata
aperta dalla Trauer Symphonie (la n°44) dell’imparruccato - ma innovatore - Josephus Haydn, il quale tolse il disturbo proprio mentre un 17enne
Gioachino stava per spiccare il volo verso la stratosfera... non prima però di
aver approfondito gli studi delle opere di Mozart e, appunto, di Haydn, autore
a sua volta di un sommo Stabat Mater
(da qui l’appellativo di tedeschino
affibbiato al ragazzo). A proposito di influenza di Mozart e Haydn su Rossini
mi permetto di segnalare un acuto studio (una tesi di dottorato di laurea) di Federico
Gon, che pochi mesi fa è stato ospite
in Auditorium in veste di compositore... tardoromantico.
L’accostamento
di questa sinfonia con lo Stabat
rossiniano ha quindi una valenza squisitamente musicale e non è certo da
intendersi come omaggio funebre al grande Gioachino, cosa che si potrebbe
arguire essendo stata la Sinfonia coloritamente quanto apocrifamente definita funebre... ma senza altro appiglio che
il desiderio - espresso in tarda età dal compositore - di farne eseguire l’Adagio ai suoi funerali. Poichè per il
resto poco o nulla si incontra nell’opera che richiami un mortorio, e la
tonalità minore non basta a definire funebre un brano musicale (a nessuno viene
in mente di affibbiare questo appellativo alla K550 di Mozart, per dire). Lo stesso Adagio è in tonalità maggiore,
ed esprime serenità e pace, atmosfere che il vecchio Haydn si augurava
evidentemente di trovare all’aldilà... ma a 35 anni di distanza dalla composizione
di quella musica, partorita quando era 40enne nell’accogliente bambagia di Esterháza!
Sinfonia, come detto, che
contiene germi di innovazione rispetto agli standard classici settecenteschi,
oltre a scelte piuttosto coraggiose, come il piano tonale che rimane costante
per l’intera sinfonia, gravitando sempre sul MI minore e sulle due relative maggiori:
MI e SOL. Tutti i movimenti sono sostanzialmente monotematici; il Menuetto è anticipato in seconda
posizione, spostando quindi l’Adagio
in terza. La compagine orchestrale è assai ridotta, al tempo Haydn faticava ad
avere 20 strumentisti, quindi si tratta quasi di musica da camera.
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Proviamo a seguire il brano come interpretato da Christopher Hogwood con
la sua Academy of Ancient Music
(diapason a 415 o giù di lì).
L’Allegro con
Brio è in MI minore (4/4) e si apre con l’esposizione del tema, che è costituito da due sezioni: la prima di
carattere stentoreo, una sorta di motto
di sole 4 battute e la seconda (8”) più cantabile, di 8 battute, che
chiude sulla dominante SI. Il tema viene ripetuto (22”) ma in forma variata:
alle 2 prime battute del motto segue (26”) una progressiva transizione di
5 battute verso la tonalità relativa di SOL maggiore, dove il motto (35”)
è esposto dagli archi bassi, mentre il resto degli archi e gli oboi si
sbizzariscono in veloci figurazioni di crome e semicrome. L’esposizione rimane
in SOL maggiore, con riapparizione del tema (1’12”) seguita da una lunga
cadenza che si chiude sul SI, dominante del MI con cui viene ripetuta (col
canonico da-capo) l’esposizione (1’47”).
Esposizione che si chiude (3’33”) per dar spazio
allo sviluppo. Che si apre con il
motto esposto dapprima in SI minore e poi (3’41”) in LA minore, seguito dalla
sezione cantabile che sfocia in una modulazione (3’56”) a DO maggiore dove
ricompaiono le veloci quartine di crome e semicrome degli archi, che modulano
dapprima (4’14”) a RE maggiore e poi (4’22”) al SOL maggiore,
per tornare infine al MI minore per la ripresa.
Che inizia allorquando riudiamo (4’41”) il tema, motto più
sezione cantabile che si amplia quasi fosse un nuovo sviluppo, ed è seguita (5’07”)
dalle 5 battute di transizione e poi (5’16”) dalle folate dei violini. Le
quali portano (5’28”) ad una ricomparsa del motto, cui segue un cadenza che
sfuma sorprendentemente (5’50”) in un accordo di settima
diminuita negli archi (RE#-FA#-LA-DO) con tanto di corona puntata!
Inizia ora (5’54”) la coda, con il motto in MI minore negli archi bassi e viole,
sommessamente contrappuntato in canone alla dominante dai violini. A 6’06”
sono ancora le veloci figurazioni dei violini a portare il movimento alla
conclusione (6’24”) Ma Haydn qui ci fa un bello scherzetto: mette il da-capo anche all’intera sezione sviluppo-ripresa-coda! Se lo si rispetta
- come fa Hogwood - il primo tempo chiude a 9’16”.
Il Menuetto (3/4,
Allegretto) rimane nella tonalità di
MI minore. Il suo tema (9’22”) occupa 16 battute ed è
esposto a canone (ritardo di una battuta) da violini, poi celli-bassi (un’ottava
sotto, da cui l’indicazione Canone in
Diapason) e quindi viole, sfociando nella relativa SOL maggiore. Viene
canonicamente ripetuto (9’40”). La seconda sezione (9’58”)
ripropone il tema in SOL maggiore, ma subito torna a MI minore. Per spegnersi
sulla dominante SI (10’15”). Ora troviamo un nuovo soggetto, variante del tema, che
chiude la sezione (10’45”) da ripetersi.come la prima. Il Menuetto si conclude
quindi a 11’33”
Ecco il Trio in MI maggiore, con la sua prima sezione
che chiude sulla dominante SI (11’46”). Sezione ripetuta e seguita
poi (11’59”)
dalla seconda, sempre in MI maggiore, fino a 12’17”, anch’essa
ripetuta: il trio chiude quindi a 12’34”. Qui riprende il Menuetto,
dove Hogwood (contrariamente alla prassi moderna) esegue le ripetizioni di
entrambe le sezioni. Menuetto che chiude quindi a 14’42”.
Passiamo ora (14’49”) al mirabile Adagio, 2/4 in MI maggiore, strutturato
su due sezioni (entrambe da ripetersi). La prima inizia con un dolcissimo tema
esposto dai violini con sordina, seguito (15’13”) da una sua variante tutta puntata, chiusa (15’34”) da un crescendo che porta la tonalità (15’46”)
alla dominante SI maggiore, con il ritmo dettato da continue terzine, che chiudono
questa sezione (16’45”) poi ripetuta fino a 18’38”.
Ecco poi la seconda parte, che rimane inizialmente in
SI maggiore per poi tornare perentoriamente (19’26”, intervento del
corno) al MI maggiore, con il persistere delle terzine che portano (protagonista
ancora il corno) alla chiusura della sezione (20’44”) che viene
ripetuta fino a 22’53”.
Il Finale (Presto, 4/4 alla breve, MI minore) è suddiviso
in due sezioni e si apre (22’58”) con il tema principale,
tutto in staccato e con ritmo
concitato. Il tema viene ripreso subito (23’04”) un’ottava sopra, fino a raggiungere
(23’12”)
in forte la relativa SOL maggiore. A 23’50”
il suono si dirada assai per il ritorno a MI minore, che conduce alla chiusa (23’56”)
della prima sezione, che viene ripetuta (fino a 24’52”).
La seconda sezione sviluppa il tema principale, in MI
minore, con escursioni a SOL e MI maggiore (si fa notare il corno). Dopo una
teatrale cadenza (26’03”) si arriva rapidamente alla conclusione (26’19”).
Anche la seconda sezione prevede il da-capo.
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laVerdi non eseguiva questa
sinfonia da più di 11 anni. Flor è più ricco di Haydn e così, anche per meglio riempire lo spazio sonoro dell'Auditorium che dev'essere ben più vasto di quello delle sale di Esterháza, rimpolpa assai gli archi, disposti alla tedesca, con i violini secondi al proscenio.
Approccio del Direttore assai
rispettoso della lettera della partitura (rigorosamente rispettati ed eseguiti
tutti i da-capo!) e piuttosto lezioso, con qualche gigioneria corporea (mossette,
ammiccamenti vari) esibita proprio nell’Adagio che il vecchio Haydn desiderava
suonato al suo funerale! Ma va bene così, e il pubblico non ha lesinato applausi
convinti.
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Ed eccoci allo Stabat, che è alla sua settima comparsa in stagioni de laVerdi (l’ultima meno
di tre anni fa sempre con Flor sul podio in un Audiorium meno affollato).
Invece al ROF è stato eseguito in ben 13 edizioni, a partire dal 1981, l’ultima
nel 2017 (qui
da me commentata) quando cantò Salome
Jicia, originariamente scritturata per questo concerto, ma poi rimpiazzata
da Aleksandra Sennikova.
Flor non ha cambiato una virgola rispetto alla
precedente esecuzione per ciò che riguarda la disposizione degli strumenti e
delle voci, con trombe e tromboni all’estrema destra, legni all’estrema
sinistra e solisti a sinistra del podio.
Mentre il coro della Gambarini ha sciorinato le sue ottime qualità, i 4 solisti non
hanno particolarmente brillato. Discreti il basso Roberto Lorenzi (cui manca però un pizzico in più di profondità) e
il mezzo Valeria Girardello, buona
intonazione e voce abbastanza corposa. Shanul
Sharma ha una voce proprio piccola, anche se bene impostata; non ha però
avuto difficoltà sul REb acuto del Cujus
animam. La Sennikova, oltre alla vocina pigolante, mostra la corda negli
acuti, dove il timbro diviene francamente sgradevole.
Ma a dispetto di ciò il
successo è stato grande per tutti e il pubblico se n’è uscito in questa notte
ancora tiepida con il sorriso sulle labbra.
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